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:: Un affare balcanico di Diego Zandel (Voland 2024) di Patrizia Debicke

9 luglio 2024

Fine aprile 1997. Dopo una sfibrante trattativa Telecom Italia (con la greca OTE) acquisisce il 49 per cento delle azioni di Telekom Serbia. L’importante transazione economica , in cui verranno coinvolti i servizi segreti dei due paesi, verrà appoggiato da strani personaggi, detti i “facilitatori”, collegati al presidente serbo Slobodan Milošević.
L’azienda italiana dovrà sborsare una somma quasi astronomica : 1.500 milioni di marchi tedeschi che per le difficoltà legate all’insolvenza della Serbia verso numerose banche europee Milošević reclamerà in contanti e, parzialmente, gli saranno fatti pervenire in diciotto sacchi di juta delle Poste serbe a bordo di un jet privato.
Erano tempi speciali quelli di più di trent’anni fa quando, in occasione dei campionati mondiali di calcio del 90, vinti dalla Germania, svoltisi in Italia e con la squadra di giovani azzurri qualificatisi al terzo posto, Telecom Italia aveva regalato ai giornalisti italiani presenti ben mille telefonini. Erano regalie acquisite come “normalità”, fatte per accattivarsi la stampa e all’ordine del giorno per i giornalisti economici e i loro parenti o amici, tifosi delle due diverse squadre della capitale che ogni settimana ricevevano in dono biglietti gratuiti in tribuna per assistere alle partite.
Tempi elastici di mazzette a gogò che parevano ancora da prima repubblica.
Diego Zandell si ispira con il suo romanzo Un affare balcanico, un bel mixer di giallo/spionaggio avventura, a quell’inquietante accordo e visto che all’epoca (fine anni 90) era effettivamente responsabile della Stampa Aziendale di Telecom Italia, mischiando sapientemente realtà e finzione, passa il testimone della storia a un suo ideale alter ego di fantasia, il dottor Guido Lednaz come lui di origine fiumane. Anticipiamo la ghiotta informazione utile che il dottor Lebnaz, esule fiumane durante le estati passate a Fiume (ormai jugoslava ) in casa dei nonni materni aveva là imparato a parlare serbo croato.
E un bel giorno detto dottor Lednaz, redattore lui e come l’amico e collega Stefano assegnati alle Relazioni esterne della Stampa Aziendale per la Telecom, (organo destinato alla mensile beatificazione dei successi dell’azienda) , dopo aver ascoltato per caso attraverso la sottile parete che divideva la toilette della società dalla sala di attesa, sarà testimone di una scottante conversazione proprio in serbo croato. Nella stanza vicina infatti due tizi, convinti di non essere compresi, discutono nella loro lingua di onerose condizioni per addivenire alla positiva conclusione dell’affare. E i due sono attesi dall’AD in persona, il dottor Capurso. La curiosità che costringe Lebnatz a indagare, individuando facilmente l’identità dei due serbi, molto ben ammanicati in Italia e addirittura scoprire che uno di loro è il console onorario della Serbia mentre l’altro è addirittura il patron di una squadra calcistica di Compobasso, lo porterà solo in virtù della conoscenza della lingua a una rapida carriera aziendale ovverosia, a ritrovarsi meno di una settimana dopo a far parte dello staff dell’Aministratore delegato alle dirette dipendenze del Responsabile Relazioni Internazionali Ingegner Gobetti e caricato su un aereo per la Serbia.
A questo punto non si può spoilerare tanto ma si può dire che il dottor Lednaz, da buon padre di famiglia (mogli e tre figli) che lavorava in un ufficetto fuori dalle stanze che contavano nella sede storica di Telecom Italia di Roma, volente o nolente, con la promessa di soldi facili e una promozione verrà imbarcato nella delicata e intricata vicenda di Telekom Serbia. Una vicenda che contempla il controllo della società , ceduta all’Italia da Milosevic, allora premier serbo, poco prima della guerra in Kosovo e già con l’acqua alla gola e talmente indebitato da non riuscire a pagare le pensioni, gli stipendi e le bollette per le forniture nel paese del gas russo.
E Lednatz senza essere preparato, vuoi per fortuna vuoi per caso ,dovrà riuscire a cavarsela in un avventuroso intrigo internazionale, districandosi persino tra ingombranti personaggi: quali il crudele comandante Željko Ražnatović molto più noto nelle cronache di guerra come il comandante Arkan, tra pericolose donne patriote doppiogiochiste , autisti innamorati, sorveglianti drogati, orsi ballerini e le sterili raffiche di kalashnikov.
Con un romanzo intrigante, Diego Zandel ci riporta a una pagina scura della cronaca italiana, ricordando la situazione e i risvolti politici dell’ormai dimenticato affare Telecom Serbia.
Una storia che si allarga ironicamente con ampie descrizioni a ricevimenti enogastronomici e festeggiamenti balcanici con orsi ballerini e splendide cantanti serbe in stile Kusturica, il famoso regista bosniaco, e con una ipotesi fantastica, che si può sommare alle tante altre sull’affare Telecon Serbia venute a galla durante i lavori della solita apposita commissione parlamentare di inchiesta che regolarmente si svolse e naturalmente si concluse nel nulla.
Con la boccata d’aria dei soldi offerti dalla vendita a Telecom Italia del loro gestore telefonico pubblico, la Serbia continuò invece la sua folle corsa verso le pulizie etniche e allo scontro con la NATO, in cui anche gli aerei italiani bombardarono le installazioni telefoniche pagate molto salate dallo Stato italiano, allora ancora il proprietario di Telecom Italia.

Diego Zandel, figlio di esuli fiumani, è nato nel campo profughi di Servigliano nel 1948. Ha all’attivo una ventina di romanzi, tra i quali Massacro per un presidente (Mondadori 1981), Una storia istriana (Rusconi 1987), I confini dell’odio (Aragno 2002, Gammarò 2022), Il fratello greco (Hacca 2010), I testimoni muti (Mursia 2011). Esperto di Balcani, è anche uno degli autori del docufilm Hotel Sarajevo, prodotto da Clipper Media e Rai Cinema (2022).

:: Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954), Antonio (Nino) Zorco, (Oltre edizioni 2023) A cura di Viviana Filippini

21 giugno 2023

Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che ogni momento possa essere importante e anche utile per fare memoria e per conoscere quelle parti della Storia, in questo caso quella dei fiumani italiani costretti ad andarsene dalla loro terre e non ancora abbastanza note. Scrivo questo, perché vi voglio raccontare di “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco, un libro di memorie nel quale l’autore mette nero su bianco tutta la sofferenza provata nel campo di concentramento e appena tornato a casa. Andiamo con ordine, perché Antonio Zorco detto Nino, originario di Fiume, narra l’improvviso cambiamento della sua esistenza con l’arresto avvenuto nell’agosto del 1944 per mano dei tedeschi. Una volta catturato il giovane, che aveva evitato qualsiasi leva militare, venne spedito con altri compagni a Mühldorf, in Germania, dove rimase in un campo di concentramento per i lavori forzati (Todt) dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945. Pagine di dura vita, fatta di lavoro, di paure e necessità di sopravvivenza. Per sua fortuna Nino tornò a casa, anche in modo rocambolesco, malato e bisognoso di cure. Quello che il giovane reduce nato a Fiume da genitori istriani di Visignano d’Istria, trovò nel tentativo di arrivare a Fiume, fu qualcosa di ben diverso dalla pace. Al posto di scovare una situazione sociale dove poter ricominciare a vivere e ricostruire quello distrutto dalla guerra dentro e fuori di lui, Zorco dovette confrontarsi con altri militari, i soldati titini, che nel frattempo avevano occupato la città imponendo le loro regole. Zorco visse un senso di sradicamento dalle proprie radici, nel senso che Nino non solo venne prima deportato, ma tornato a casa trovò  una Fiume svuotata dei fiumani che aveva conosciuto (amici e parenti compresi) e piena di persone nuove arrivate dell’ex Jugoslavia, che imposero negli anni usi, costumi, tradizioni diverse da quelle che Nino aveva appreso. Una situazione spiazzante per l’autore che si rese conto di non avere più dei punti di riferimento italiani precisi, tanto da sentirsi un po’ alla Jacopo Ortis, ossia “uno straniero in casa propria”. Zorco spaesato e minato ancora da problemi di salute, chiese più volte alle autorità jugoslave di partire per l’Italia ma sempre gli venne negato il permesso. Nonostante questa impossibilità a raggiungere i suoi cari partiti (anche non volontariamente) per altri luoghi, Nino rimase a Fiume lavorando come tecnico di raffineria e trovando pace  grazie all’amore della moglie Daniza. “Ma io in guerra non ci volevo andare  Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco  è la storia di un giovane uomo portato via dalla sua terra natia e una volta tornato a casa sconvolto da quanto essa fosse cambiata. Il libro di Zorco è la storia di un fiumano che provò sulla propria pelle e nell’animo il vuoto lasciato dall’allontanamento dei propri cari e dalla trasformazione della propria terra occupata da altri. La testimonianza del fiumano Nino è una voce singola e, allo stesso tempo, la voce di un popolo, che con il proprio vissuto incarna quella perdita di capisaldi e quel senso di vuoto/mancanza dovuti all’allentamento forzato o, come nel caso di Nino Zorco, al doversi adattare, perché impossibilitati a partire, ad un mondo nuovo completamente diverso dalla terra istriana di un tempo. Il libro presenta un’introduzione di Diego Zandel, scrittore  nipote di Nino e la postfazione di Roberto Spazzali.

Antonio Zorco, detto Nino, classe 1925 era nativo di Fiume. I genitori erano istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva, nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Mühldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.

Source: grazie all’ufficio stampa 1A di Anna Ardissone  e Raffaella Soldani.

:: Eredità colpevole di Diego Zandel (Voland 2023) di Patrizia Debicke

11 febbraio 2023

Roma, anni 2000. Il giudice La Spina viene freddato davanti al portone di casa con cinque colpi di pistola, l’ultimo, fatale, alla nuca. A rivendicare l’attentato un sedicente gruppo di estrema destra, Falange Nera, che con un comunicato alla stampa accusa il giudice di essere stato complice e responsabile dell’assoluzione dell’infoibatore Josip Strčić.
Diego Zandel ho scelto per immedesimarsi meglio nel suo nuovo romanzo/fiction di prestare all’autobiografia del protagonista il vero tracciato della sua vita , dove e come lui è nato, la personalità dei suoi genitori, di sua nonna che l’ha cresciuto, insomma tutti i suoi veri ricordi. Ha cucito infatti addosso i suoi panni a Guido Lednaz, giornalista e scrittore, che descrive come lui figlio di profughi fiumani, per sopravvivere partiti abbandonando tutto dietro di sé, nato a Fermo mentre la famiglia sopravviveva nel campo profughi di Servigliano nella Marche per poi passare al Villaggio Giuliano Dalmata di Roma ex Villaggio E42. Non solo, per meglio completare la sua finzione gli presta, in toto e con generosità oltre al suo vissuto, la carriera letteraria, per poi regalare al suo ideale gemello un’avvincente avvventura, un giallo d’indagine neppure tanto velatamente mascherato da spy story giallo noir .
Quindi Guido Lednaz alter ego dell’autore, fin dall’inizio emotivamente coinvolto vuole solo approfondire le circostanze e le motivazioni dell’omicidio del giudice La Spina, prima crivellato per strada a pistolettate per poi essere finito con un colpo alla nuca da un motociclista, un irriconoscibile centauro in tuta e casco integrale in sella a una moto da cross. . Unici testimoni la moglie affacciata alla finestra e un commerciante che stava alzando la serranda del suo negozio. Brutale omicidio che verrà rivendicato con una lettera al Quotidiano la Repubblica da un fantomatico gruppo di estrema destra “Falange nera” adducendo la motivazione: complicità del magistrato con gli infoibatori titini. “Onore ai martiri”. Colpa attribuita alla vittima: l’assoluzione per difetto di giurisdizione per il non luogo a procedere – in pratica un’assoluzione- nel processo intentato contro dell’imputato, il criminale di guerra titino Josip Strčić (personaggio liberamente ispirato a Oskar Piškulić, capo della polizia politica di Tito, reale autore degli eccidi nelle foibe).
Prima di lui il pubblico ministero era stato addirittura sollevato dall’incarico.
C’era qualcosa? Cosa? Dietro la determinazione di insabbiare il tutto, di non consegnare un criminale alla giustizia?
Così prende il via l’ardita fiction, basata per altro su puntelli ben documentati che, seguendo varie piste e rintracciando meticolosamente alcune delle tante figure di una lontano passato ci costringe a ripercorrere una delle pagine tanto misconosciute quanto sanguinose della storia del Novecento, legate sia alle atrocità della Seconda guerra mondiale che al successivo esodo di un intero popolo, quello istriano.
Un’avvincente indagine dalle tenebrose tinte noir, una lunga minuziosa e rischiosa investigazione, che finirà per tramutarsi in un sofferto e frammentario viaggio verso una tremenda conclusione , condotta faticosamente tra Roma e Trieste pur con l’indiretto ma fattivo apporto delle forze dell’ordine (non è il primo delitto del fantomatico centauro che ha già colpito, ma non c’è il via libera per scavare di più ), di un inviato speciale in caccia di indizi, tracce, documenti sepolti in polverosi archivi semidimenticati per arrivare a volti e nomi.
Seguendo variegate piste esplorative, senza lasciarsi fuorviare, riprendendo contatto con alcune figure del suo passato, in grado di offrire indizi, fornire prime spiegazioni e proporre altre complicate piste da seguire, Lednaz dovrà ripercorrere una delle pagine più sanguinose della storia, cercare di scardinare la quasi inviolabile cassaforte del resoconto delle peggiori atrocità della Seconda guerra mondiale nei confronti di essere umani innocenti e il conseguente esodo di un intero popolo che viveva sereno e ha dovuto rinunciare per sempre alle proprie radici.
Un’avvincente indagine dalle tenebrose tinte noir, anche insozzate da un’insanabile forma di razzismo e atroce disumanità, condotta tra Roma e Trieste, che porterà il protagonista a raggiungere una drammatica verità.
Un’indagine dura, molto dura e rischiosa anche per chi gli sta vicino, ma Guido Lednaz non si lascerà fermare dai consigli o dalle minacce. Una difficile e ingarbugliata inchiesta che tuttavia alla fine gli consentirà di rialzare quei veli calati a tombale copertura di una storia, arrivando al nocciolo di una triste e tragica e crudele realtà, nata, provocata, , mai dimenticata e soprattutto tenacemente coltivata fino alla vendetta.

Diego Zandel, figlio di esuli fiumani, è nato nel campo profughi di Servigliano nel 1948. Ha all’attivo una ventina di romanzi, tra i quali Massacro per un presidente (Mondadori 1981), Una storia istriana (Rusconi 1987), I confini dell’odio (Aragno 2002, Gammarò 2022), Il fratello greco (Hacca 2010), I testimoni muti (Mursia 2011). Esperto di Balcani, è anche uno degli autori del docufilm Hotel Sarajevo, prodotto da Clipper Media e Rai Cinema (2022).

Source: libro del rcensore.