Archive for the ‘Visioni di cinema’ Category

:: Iron Mask – La leggenda del dragone di Oleg Stepchenko (2019)

21 novembre 2025

Dunque vediamo il film di cui vi parlerò oggi si intitola Iron Mask – La leggenda del dragone un action-fantasy sino-russo del 2019 diretto da Oleg Stepchenko, sequel del film Viy – La maschera del demonio, distribuito nel 2015 con il titolo, per il mercato Europeo, di Forbidden Empire che scoprii sul blog di Davide e mi piacque parecchio per cui aspettai con una certa curiosità il seguito che si anticipava sarebbe stato ambientato in Cina. Voi sapete io non amo tanto il fantasy occidentale, ma amo molto quello orientale, e i film di arti marziali, per cui presi con un certo entusiasmo il DVD che mi assicurava il doppiaggio in italiano. Il film riunisce un cast internazionale sorprendentemente variegato, in cui spiccano Jason Flemyng, Arnold Schwarzenegger, Jackie Chan, Charles Dance (fece un pregevole Il fantasma dell’Opera) e Rutger Hauer in una delle forse sue ultime apparizioni cinematografiche. La storia narra le avventure un po’ bislacche dell’esploratore e cartografo inglese Jonathan Green in un viaggio dall’Europa alla Cina, dove si troverà coinvolto in una vicenda che mescola magia, arti marziali, draghi e complotti imperiali.

E’ un film un po’ caotico, i piani narrativi si intrecciano in modo un po’ confusionario ma quando Jackie Chan prende il controllo delle scene di combattimento diventa godibile per eleganza e rapidità, rispecchiando lo stile dei migliori film d’avventura asiatici. A Davide sarebbe piaciuto, si sarebbe divertito come un matto, avrebbe preso una vaschetta di pop corn e avrebbe apprezzato questo film sicuramente ricco di immaginazione e una certa folle anarchia. E’ un tripudio di colori, costumi elaborati, paesaggi da fiaba orientale e ci si diverte. E’ anche a misura di bambino, non ci sono parolacce nè scene di violenza efferata, è meno horror del precedente. Infatti è consigliato per tutti.

Jackie Chan e Arnold Schwarzenegger poi si divertono come pazzi, e sebbene abbiano un tempo sullo schermo piuttosto limitato, le loro scene – soprattutto lo scontro nella prigione – valgono da sole il prezzo del biglietto. L’aspetto visivo è sicuramente il lato migliore di questo film se vogliamo bizzarro, eccessivo e volutamente sopra le righe. Forse chi cerca coerenza narrativa a tutti i costi o un prodotto raffinato potrebbe invece rimanere deluso e storcere il naso, ma per chi ama i film d’avventura “alla vecchia maniera”, è una chicca. E poi è un curioso esperimento, un esempio di coproduzione internazionale che tenta di fondere l’estetica del fantasy orientale con la solida struttura dell’evventura classica europea.

Dal punto di vista tecnico, Iron Mask alterna effetti digitali di buona fattura ad altri decisamente meno convincenti, generando un risultato abbastanza straniante. L’impatto visivo rimane comunque il vero punto di forza, con un uso dei colori e un design scenico tipicamente orientale che catturano l’occhio dello spettatore, e incantano i più piccoli.

Nel complesso, Iron Mask – La leggenda del dragone è un film che punta più allo spettacolo e al divertimento che alla coerenza narrativa: un film imperfetto, certo, a tratti anche caotico, come dicevo prima, ma non privo di fascino per gli amanti dell’avventura fantastica.

E poi diciamocelo, a volte i film caciaroni e senza troppe pretese sono i migliori per passare qualche ora di sano svago, senza troppi pensieri.

Da recuperare anche il precedente, che mi vedrò oggi appena torno dal lavoro, per rinverdire i vecchi tempi, che sembrano sempre migliori del presente. Buona visione!

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:: Visioni di cinema: The Moderns, di Alan Rudolph (1988)

17 novembre 2025

Allievo prediletto di Robert Altman, Alan Rudolph è l’artefice di un piccolo gioiellino sperduto nella cinematografia dei tardi anni ’80 dal titolo quantomai emblematico The Moderns, con riferimento esplicito alla corrente artistica del Modernismo.

Ambientato nella Parigi bohemienne del 1926, il film segue le accidentate vicende di Nick Hart (da notare l’assonanza co Art), interpretato da un ottimo Keith Carradine, pittore squattrinato americano che si guadagna da vivere disegnando schizzi per l’edizione parigina del New York Herald Tribune. Artista di talento, ma dalle alterne fortune, figlio di un affermato falsario d’arte, sembra avere il destino segnato nel seguire le orme paterne e infatti rimasto in bolletta accetta di copiare alcune opere d’arte per conto di Libby Valentin (Genevieve Bujold) amica e mercante d’arte anche per aiutarla ad uscire da un divorzio difficile.

Nel frattempo, reincontra sua moglie Rachel (Linda Fiorentino) da cui non ha mai legalmente divorziato, ora “sposata” in odore di bigamia con Bertram Stone (John Lone), un pericoloso e ambiguo collezionista d’arte americano, con una passione per l’escapologia, espatriato anche lui, che nonostante la sua enorme ricchezza fatica non poco ad essere accettato dal bel mondo parigino. Tra Rachel e Nick riesplode la passione e da qui in poi le cose assumono il tono della farsa più che della tragedia.

The Moderns si svolge in uno scenario evocativo e decadente tra caffè, ristoranti, salotti culturali, palestre di boxe, soffitte e gallerie d’arte, e ci narra una storia che se vogliamo è una severa critica a tutto quello che ruota intorno al mondo dell’arte, dai critici cinici e spietati, agli avidi mercanti d’arte, agli investitori, un mondo chiuso e molto elitario in cui più che giudizi estetici predominano dibattiti economici sull’autenticità delle opere. La mercificazione dell’arte infatti diventa il perno di una critica feroce, sul senso ultimo di un mondo che vive di apparenza, dove la verità e l’illusione si alternano in un susseguirsi di gag semiserie dal retrogusto al curaro.

E se vogliamo questa critica è più riferita alla Hollywood degli anni ’80, che al mondo dell’arte parigina degli anni ’20.

Tra i tanti espatriati incontriamo Hemingway, e Gertrude Stein, animatrice di uno dei più effervescenti salotti letterari parigini, ma non è tanto la ricostruzione storica che interessa al regista più l’atmosfera e lo spirito di un’epoca che ha segnato in modo non marginale l’immaginario del Novecento.       

:: Visioni di cinema: La Tigre e il Dragone di Ang Lee (2000)

2 novembre 2025

La tigre e il dragone (Crouching Tiger, Hidden Dragon) di Ang Lee, vincitore di quattro Premi Oscar, tra cui Miglior film straniero, e acclamato quasi unanimemente dalla critica internazionale è un film che se vogliamo filtrò il meglio dell’immaginario del cinema orientale destinandolo forse specificatamente a un pubblico occidentale che in alcuni casi per la prima volta si accostava al “wuxia pian” quel genere che unisce combattimenti marziali, valori cavallereschi e dimensione trascendente e spirituale perlopiù taoista e buddista.

Un incontro di civiltà, prima di tutto, che portò ed elevò il genere wuxia a una dimensione universale e lirica, capace di attirare l’interesse anche di spettatori per cui quello non era il loro humus culturale, ma incuriositi dall’esotico fascino di quella civiltà si sono lasciti trasportare in una storia in cui il peso delle scelte morali guida le azioni e i sentimenti dei personaggi, sì eroi classici tradizionali ma anche esseri umani concreti con sentimenti, paure, aspirazioni appunto universali. Ang Lee riuscì a trasformare un’opera di avventura, con elementi fantastici, in una metafora del desiderio, dell’amore, della disciplina e della rinuncia, comprensibile a tutte le latitudini, e capace di trasmettere anche un senso di lirismo e poesia rari, tramite sia i dialoghi di una bellezza struggente, che gli scenari sia paesaggistici che d’interni.

Ispirato al romanzo “Crouching Tiger, Hidden Dragon” di Wang Dulu (1909–1977), uno scrittore cinese fino allora poco conosciuto in Occidente, il film di Ang Lee prende principalmente spunto da questo libro, ma adattandone molto liberamente la trama, ed enfatizzando alcuni temi filosofici e poetici più che aderire fedelmente al testo, in quel tentativo metanarrativo di universalizzazione di cui parlavamo prima.

Ambientato nella Cina del XIX secolo, durante la dinastia Qing, La tigre e il dragone narra le vicende di Li Mu Bai (Chow Yun-Fat) e Yu Shu Lien (Michelle Yeoh), due maestri d’arti marziali, legati da un profondo sentimento d’amore che per un senso del dovere e un’adesione a un codice morale superiore non possono vivere, perché Shu Lien era la promessa del defunto fratello d’armi di Mu Bai.

Li Mu Bai stanco dei combattimenti e in cerca di una via di pace che lo porti all’illuminazione decide di consegnare la sua leggendaria spada il “Destino Verde” a Yu Shu Lien perché la consegni al Signor Tie. Il furto della spada dà inizio a tutta la vicenda e porta i protagonisti sulle tracce della giovane Jen (Zhang Ziyi), una fanciulla di nobili origini che sogna la libertà e la vita di combattimenti dei guerrieri erranti, ma che si ritrova intrappolata tra le severe regole del suo clan e il richiamo della propria natura ribelle.

Il film è visivamente grandioso ed emozionante non solo per le scene di combattimenti sospese tra i tetti, e gli alberi, coreografate con grazia come scene di danza, ma soprattutto per il suo valore filosofico e morale al di là delle aspirazioni terrene. La fotografia di Peter Pau, premiata con l’Oscar e le musiche di Tan Dun (da segnalare il violoncello di Yo-yo Ma) rendono poi il film un’esperienza sensoriale di rara bellezza. Da vedere e rivedere, magari perderà la magia della prima visione ma sarà sempre un’esperienza gradevole. Buona visione.

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:: Visioni di cinema: Zì Yú Zì Lè (Master of Everything / Bamboo Shoot, 2004) di Li Xin

31 ottobre 2025

Oggi voglio parlarvi di un delizioso film cinese indipendente, e a basso budget, dal titolo Zì Yú Zì Lè, (titolo internazionale: Master of Everything / Bamboo Shoot) del regista Li Xin, scritto da Sara Chen Yan e uscito nel 2004 in Cina.

Sebbene non sia una produzione mega hollywoodiana, si avvale tuttavia di seri e stimati professionisti, tra cui il direttore della fotografia, Wong Yue-tai, è un grande nome nell’industria della fotografia di Hong Kong, avendo vinto cinque Golden Horse Awards e cinque Hong Kong Film Awards e il compositore, Hummie Mann, è un compositore canadese che ha vinto due Emmy Awards, che contribuisce con sensibilità a creare un’atmosfera sospesa tra poesia e realismo.

Percepito come strano, bizzarro, troppo onirico (divertente la scena nel bosco di bambù, che cita o fa la parodia di una scena analoga ne La Tigre e il Dragone) ha subito una certa critica istituzionale negativa, pur essendo invece quasi inaspettatamente premiato al botteghino già dalle prime settimane di uscita con un crescente successo di pubblico nonostante il tono sperimentale lo rendeva un po’fuori dal mainstream commerciale dominante. Tuttavia, il film è stato nominato per il miglior lungometraggio cinese al Golden Deer Award per l’innovazione tecnologica e per la migliore interpretazione femminile al 7° Changchun Film Festival. Oltre che candidato al Chinese Film Media Award sia per la migliore protagonista, che per la migliore coprotagonista.

Dirvi che mi è piaciuto è poco, è poetico, delicato, divertente, a tratti commovente, e penso sinceramente possa interessare anche a un pubblico occidentale, sebbene credo sia circolato quasi esclusivamente nel mercato cinese, o perlomeno asiatico. Non di facile reperimento qui da noi, non credo ci sia nelle piattaforme principali di streaming doppiato in italiano, ma dato il doppio titolo internazionale penso che almeno nelle intensioni era pensato anche per il mercato internazionale, in inglese. Anche se attualmente non è disponibile per lo streaming neanche negli Stati Uniti, ma era disponibile su Amazon Video fino almeno al settembre 2015. La mancanza di una campagna promozionale internazionale o accordi di distribuzione può aver limitato la sua “uscita” fuori Cina.

Se vogliamo riprende la storia di Pigmalione, o meglio una versione rurale cinese di My Fair Lady, ma lo fa con tale delicatezza e originalità da risultare un piccolo gioiello da riscoprire.

Debutto cinematografico della cantante Coco Lee, che si impegnò davvero molto, e duramente, studiando privatamente e pagando di tasca sua insegnanti di recitazione e di dizione, e arrivando a girare le scene di azione senza controfigura, facendosi anche male, e questo si trasmette nella freschezza e spontaneità del personaggio, arricchendolo e valorizzandolo, il film si avvale anche della partecipazione straordinaria di John Lone, il protagonista maschile del film, star internazionale di prima grandezza anche se qui a fine carriera, che tornò nella Cina continentale appositamente per girare questo film per la prima volta dai tempi dell’”Ultimo Imperatore”, forse per aiutare proprio la talentuosa e amica Coco Lee nel suo lancio cinematografico,  per una volta in una parte romantica, ed bravissimo in questo ruolo di innamorato un po’ attempato. Ma è all’altezza tutto il cast tra attori professionisti e amatoriali, o semplici comparse.

È un film corale: tutto il villaggio cinese in cui è ambientato è protagonista, anche se resta una storia d’amore, in realtà, non solo sentimentale ma anche per il cinema in sé. Ah, dimenticavo è tratto da una storia vera, quella di Zhou Yuanqiang, il capo della stazione culturale nella città di Jingcheng, Jingdezhen, provincia di Jiangxi.  

Veniamo alla trama: in un pittoresco villaggio di montagna della Cina meridionale, dove la troupe visse per due mesi, di una bellezza paesaggistica stupenda, lo scapolo Mi Jihong (John Lone) si innamora di Luhua (Coco Lee) la bellissima figlia del capo villaggio (un dolcissimo Tseng Chang) e amica intima di sua sorella Alian (Tao Hong). Timido, introverso, ingenuo, anche preoccupato per la differenza di età Mi Jihong fatica a confessare i suoi veri sentimenti, ma quando Luhua, che ama esibirsi sul palco per gli abitanti del villaggio e sogna un futuro nel mondo dello spettacolo, viene scartata in modo abbastanza cattivo dopo un provino per un film, Mi Jihong incapace di sopportare la sua tristezza compra una videocamera digitale e propone alla ragazza di recitare da protagonista in un dramma amatoriale di arti marziali, “L’eroina di Guanzhong”, usando mezzi rudimentali e tanta fantasia, per realizzare il suo sogno di diventare una star.

Mi Jihong, sempre per amore, assume i ruoli di regista e direttore della fotografia, chiede al proprietario del ristorante del villaggio di investire nel film, e recluta il falegname del villaggio come sceneggiatore e attrezzista.

Da qui in poi il film racconta come il film viene girato dalla scelta del cast alla realizzazione vera e propria di tutte le scene, fino al successo finale e all’attenzione che gli riservano i media nazionali.  Anche i due corteggiatori di Alian, Wang Shengli (Xia Yu) e Wang Ergou (An Hanjin), si uniscono alla troupe, dando un tocco di comicità alla storia. Lieto fine assicurato con Mi Jihong e Luhua finalmente sposi dopo il buffo tentativo del padre di lei di cercargli un marito della sua età.

Il film esplora vari temi: il cinema o l’arte in genere come forma di riscatto e di crescita, l’importanza e la forza della comunità e della solidarietà che anche con basso budget e produzioni limitate riesce a fare un prodotto artistico di pregio, il contrasto tra vita rurale semplice e il mondo dello spettacolo visto come irraggiungibile, il tono che mescola commedia e comicità a temi più seri come la forza del sogno e il confronto con la realtà.

Il film si fa notare per una certa originalità e sincerità di intenti, il fatto che il soggetto è preso da una storia vera è ben caratterizzato ed espresso, poi per l’ottima interpretazione degli attori, ci sono momenti davvero toccanti e pieni di grazia, e pure Coco Lee pur non essendo ancora un’attrice professionista è adorabile e perfetta nel ruolo.

Infine, forse questo è il fulcro del film: lo spirito meta-cinematografico, perché in fondo il film è un film sul fare un film, e lo fa con grazia e leggerezza senza appesantire o annoiare, né voler essere didascalico o saccente o peggio grottesco. Si riflette insomma sul mezzo cinema, sui sogni e le aspirazioni dei singoli attori e sulle difficoltà che si incontrano quando si passa dal sogno alla realizzazione filmica, ovvero alla realtà.

Nel complesso un film umile ma con un grande cuore e buone intenzioni onestamente mantenute. Un film meritevole, infine, per chi è interessato a un cinema prodotto dal basso, poco noto, fuori dai grandi circuiti, ma di grande valore. Con l’augurio che riprenda a circolare anche in occidente, o doppiato o perlomeno con i sottotitoli in inglese, se non in italiano. 

:: Visioni di cinema: Lussuria- seduzione e tradimento di Ang Lee (2007)

29 ottobre 2025

Premiato con il Leone d’oro alla 64ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2007 Lussuria- seduzione e tradimento (titolo originale Lust, Caution) di Ang Lee è un film decisamente atipico e per certi versi controverso del celebre regista taiwanese che con questo film bissò la conquista del Leone d’oro. Il primo lo vinse infatti per Brokeback Mountain, a suo modo controverso anche questo, se vogliamo per motivi opposti.

Se devo esprimere un parere spassionato sicuramente il mio suo film preferito resta La Tigre e il Dragone, e magari nei prossimi giorni tornerò a parlarne, ma anche Lussuria- seduzione e tradimento ha i suoi pregi sebbene ve lo dica subito le scene di nudo integrale e sesso esplicito e anche un po’ violento non è che mi abbiano fatto impazzire troppo, anche se ammetto nell’economia del film certo hanno un loro perché, anche solo per mettere a disagio lo spettatore, ovvero farlo vacillare dal suo piedistallo di confort e anche i critici più severi hanno notato che un certo impatto visivo e naturalistico ce l’hanno.

La commissione episcopale italiana lo giudica scabroso, ricorda che è vietato ai minori di tredici anni, e invita a fare somma attenzione nel caso lo programmino e ci siano bambini in giro (non credo ci capirebbero niente, ma meglio essere prudenti). Negli Stati Uniti ci sono andati più pesante vietandolo ai minori di 17 anni, in Cina continentale hanno addirittura tagliato le scene incriminate di circa 7 minuti e per un po’ hanno anche penalizzato l’attrice protagonista, ma si sa in Cina la censura è piuttosto restrittiva non solo per le scene di sesso, e Ang Lee è un cinese di Taiwan, con forti radici negli Stati Uniti e una possibilità di diffusione internazionale che gli ha permesso di seguire il suo estro creativo senza farsi influenzare troppo dalle limitazioni.

Bene detto questo torniamo al film e valutiamolo come opera artistica slegata da valutazioni troppo moralistiche, che forse faranno sorridere alcuni e indispettire altri, ma ripeto alcuni spettatori sensibili potrebbero rimanere turbati da alcune scene per cui ve lo segnalo.

Partendo dalla trama il film è ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale in Cina, prima a Hong Kong poi a Shanghai. L’occupazione giapponese è feroce e i collaborazionisti sono oggetto di attentati da parte della resistenza cinese, argomento ancora non troppo trattato da cinema, televisione o letteratura, e questo film mi stavo dimenticando di dirlo è tratto proprio da un libro di Eileen Chang dall’omonimo titolo (edito in Italia da Rizzoli, a chi interessasse). E su Wikipedia addirittura ho letto che la storia è ispirata a persone realmente esistite. Ammetto il film può anche non piacere, ma se ha un pregio è quello di farvi conoscere Eileen Chang.  

Dunque, la giovane Wong Chia Chi (un incantevole Tang Wei) entra a far parte di un gruppo di attivisti che complotta per assassinare un importante collaborazionista cinese del governo fantaccio giapponese, Mr Yee (Tony Leung Chiu-wai). Per farlo utilizza le sue doti di attrice amatoriale e si trasforma nella sofisticata signora Mak, moglie di un ricco uomo d’affari, e usa il proprio fascino per sedurlo.

Ma succede l’imprevisto, questo amore diventa per entrambi reale in una spirale di ambiguità emotiva e morale.

Non cercate in questa recensione il finale, non ve lo svelerò, non solo per evitarvi uno spoiler forse non troppo gradito, ma soprattutto perché sebbene un finale netto ci sia, molto è lasciato alle riflessioni dello spettatore. Per alcuni alla fine si amano entrambi, per altri quella che ama è solo lei, per altri ancora il loro rapporto è troppo torbido e malato per poterlo definire amore. Io sono del primo partito ma ripeto ogni spettatore si farà la propria idea personale.

Forse è il film più complesso di Ang Lee, e quello in cui ha osato di più, spingendo anche gli attori a fare un profondo lavoro su sé stessi e non si capisce dove recitano, e dove le reazioni sono naturali. Naturalmente le scene di sesso non sono pornografiche, è tutto frutto di recitazione ma la chimica tra i due attori è indubbia, e sguardi, silenzi, paure passano attraverso la postura dei corpi o dalla intonazione della voce e si trasmettono agli spettatori in sala. Io non l’ho visto al cinema, ne ho comprato il DVD così ho potuto vederlo sia doppiato che in lingua originale, e questo aiuta molto per notare queste sfumature.

La messa in scena è poi di un’eleganza impeccabile, le scenografie sono suntuose, forse anche troppo laccate, ogni dettaglio è carico sia di sensualità che di drammaticità. E l’ossatura di dramma politico resta in filigrana e arricchisce il film di un substrato idealistico e morale che invita alla riflessione e alla valutazione attenta, anche storica. Dove ci si può spingere per difendere un ideale anche in un contesto di guerra dove la violenza è diffusa? E soprattutto spesso i sentimenti sparigliano le carte e si inseriscono in dinamiche di manipolazione e di controllo, sfuggendo del tutto di mano.

Ang Lee studia questo, svela le maschere che spesso ci mettiamo e che cadono davanti alla comunione di due corpi che nell’intimità trovano una sincerità al di la delle loro singole volontà. Entrambi i personaggi sono imprigionati in una gabbia di solitudine, lui prigioniero del ruolo di potere che incarna, lei abbandonata dal padre senza legami affettivi forti, svela una grande fragilità emotiva e psicologica.  

Tang Wei è una rivelazione: vulnerabile e determinata, riesce a incarnare la metamorfosi di una donna che si perde nel ruolo che interpreta. Tony Leung, come sempre magnetico, dà vita a un uomo insieme crudele e fragile, vittima e carnefice. La loro chimica sullo schermo è palpabile e dolorosa, e fa da fulcro emotivo all’intero film. Da segnalare Joan Chen nel ruolo della moglie di Mr Yee.

Lussuria – Seduzione e tradimento è un film sofisticato, elegante, esteticamente impeccabile e per certi versi anche inquietante. Non concede facili emozioni, ma premia lo spettatore paziente con una storia densa di ambiguità e dolore. Un dignitoso esempio di sensualità, tutta orientale, e controllo, molto occidentale, che conferma, a mio avviso, Ang Lee come uno dei registi asiatici più versatili e coraggiosi della sua generazione.

:: Visioni di cinema: The Shadow di Russell Mulcahy (1994)

28 ottobre 2025

L’Uomo Ombra (The Shadow), diretto da Russell Mulcahy nel 1994, è un film singolare che all’uscita non raggiunse un gran successo al botteghino, né tanto meno di critica, ma nel tempo si conquistò la fama di piccolo cult, entrando nel cuore di molti spettatori amanti del genere fantastico coniugato col noir.

Ambientato nella cupa e oscura New York degli anni ’30, The Shadow segue le avventure di Lamont Cranston (Alec Baldwin), sfaccendato e affascinante playboy di giorno e giustiziere mascherato di notte. Dopo anni in Tibet, era diventato in Oriente uno dei tanti Signori della guerra, tra oppio e battaglie, redento, sotto la guida di un monaco, aveva acquisito il potere di diventare invisibile — tranne la sua ombra, da qui il nome con cui veniva chiamato.

Tornato in America con i suoi nuovi poteri — invisibilità e controllo mentale — si mette dunque dalla parte del bene per combattere il crimine, e soprattutto per redimere sé stesso dalle colpe passate.

A questo punto è bene precisare che The Shadow affonda le radici in una delle figure più iconiche della cultura popopolare americana pre-supereroistica. Nato negli anni ’30 come voce misteriosa di un programma radiofonico (tra le cui voci ci fu per un periodo anche Orson Welles) e poi trasposto in pulp magazine e fumetti, The Shadow fu una delle prime incarnazioni dell’eroe mascherato tormentato, ispirando direttamente personaggi come Batman.

Quando Russell Mulcahy porta il personaggio sul grande schermo nel 1994, lo fa in un momento in cui Hollywood tenta di riscoprire gli archetipi del passato sulla scia del successo stratosferico dei due Batman di Tim Burton e del Dick Tracy di Warren Beatty (1990). Tuttavia, il film non si limita a un’operazione puramente nostalgica: tenta di costruire un immaginario a metà strada tra mito, noir e spiritualità orientale.

Un equilibrio molto difficile da raggiungere, ma il regista ha il buon gusto di non prendersi troppo sul serio, lasciando all’ironia — se non a sprazzi di vera comicità — campo libero. A questo proposito, come non citare la splendida interpretazione di Tim Curry? Sì, in un ruolo da caratterista, non da protagonista, ma straordinario.

Tornando alla trama, il nemico principale di The Shadow è Shiwan Khan (John Lone), ultimo discendente di Gengis Khan, intenzionato a soggiogare il mondo con un’arma nucleare rudimentale. Tra intrighi, misteri e atmosfere noir, The Shadow dovrà fermarlo, nascondendo però la sua vera identità anche alla donna che ama, Margo Lane (Penelope Ann Miller), che qualche potere telepatico possiede anche lei.

Buffa la scena al ristorante, dove ringrazia Cranston per il complimento sul vestito che indossa e lui si schermisce dicendo che non ha detto niente, ma solo l’ha pensato.

L’Uomo Ombra è un film che mescola azione pulp, atmosfere gotiche e suggestioni art déco; e sicuramente i vestiti splendidi — soprattutto del cattivo — sono uno dei punti forti del film. C’è una scena in cima all’Empire State Building dove un marinaio in libera uscita fa un commento vagamente omofobo sulle vesti di Shiwan Khan, e lui, infastidito, con la forza del pensiero costringe il malcapitato a buttarsi giù.

Il regista Russell Mulcahy, noto per il suo stile visivo forse anche eccessivamente barocco e visionario, già visto in uno dei suoi maggiori successi, Highlander, punta molto su un’estetica fortemente stilizzata: luci al neon, fumo, ombre e riflessi dominano la scena, evocando l’iconografia del cinema noir classico e del fumetto pulp.

E qui la fotografia di Stephen H. Burum riesce a rendere New York un palcoscenico irreale e onirico. Che gli scenari siano di cartone, che il trenino della metropolitana sopraelevata sia vistosamente un modellino, poco importa — anche grazie a quel “non prendersi troppo sul serio” di cui parlavamo prima.

Gli effetti speciali sono buffi, forse esagerati, ma non ridicoli: costruiti anche con un certo senso teatrale, che non ho trovato affatto fuori luogo. La regia predilige il movimento fluido e la composizione simmetrica, con effetti ottici che rimandano all’invisibilità del protagonista e al suo potere di confondere la percezione. Specchi, vetri, riflessi e dissolvenze creano una costante ambiguità visiva tra realtà e illusione.

Mulcahy non punta al realismo a tutti i costi, ma a un’estetica volutamente artificiale, fumettistica, dove la forma diventa sostanza — un approccio che oggi potremmo definire “meta-pulp”. E non si può non citare l’omaggio a La signora di Shanghai, nel finale tutto specchi. Ma le citazioni e gli omaggi sono numerosi: basta saperli cercare.

Alec Baldwin, ai tempi già famoso e con una significativa filmografia alle spalle, offre una performance carismatica, divertita e ambigua, incarnando un antieroe affascinante e tormentato, mentre John Lone dà spessore al villain con eleganza, ferocia e un tocco di spaesamento che lo rende, a suo modo, anche buffo. Penelope Ann Miller è semplicemente perfetta: dolce, bellissima e intelligente. Non una dark lady da film noir classico, ma una degna coprotagonista femminile, che a tratti ruba la scena al nostro eroe.

Ian McKellen, poi, come scienziato pazzo e daltonico, se la gioca con Tim Curry per bravura.

Forse non può essere definito un capolavoro, ma rimane un interessante esperimento visivo e uno dei primi tentativi degli anni ’90 di riportare sullo schermo gli eroi pre-comics. Apprezzato per la sua atmosfera retrò, la colonna sonora di Jerry Goldsmith e il fascino dark del suo protagonista, The Shadow resta un film che è piacevole vedere e rivedere, scoprendo sempre nuovi dettagli magari precedentemente sfuggiti.

Ah, mi raccomando: Il sole splende e il ghiaccio è sdrucciolevole. Non si sa mai servisse.

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:: Visioni di cinema: In the Mood for Love (2000) di Wong Kar-wai

23 ottobre 2025

Forse il capolavoro più celebrato di Wong Kar-wai, In the Mood for Love (titolo originale: Fa yeung nin wa), è un film che si può dire sia entrato nella storia del cinema come l’opera che più pericolosamente si è avvicinata a definire l’amore.

Non l’amore romantico, idealistico, sentimentale di un classico melò, ma l’amore vero, profondo, esclusivo, che fonde desiderio, passione, amicizia e comunione di anime affini.

Ispirato molto liberamente a un romanzo di Liu Yichang, Un incontro (edito in Italia da Einaudi), In the Mood for Love rasenta non solo la perfezione formale — tanto cara al regista, che ne fa una cifra distintiva del suo cinema — ma riesce anche a definire la natura sfuggente dell’amore con un’eleganza, una sensibilità e una precisione che disorientano. Induce a credere che uno stato di grazia investa il film come un vento leggero, che pone ogni scena, ogni suono, ogni stralcio di dialogo al posto giusto, al momento giusto, senza eccessi, senza cercare a tutti i costi il sublime o il meraviglioso.

Ma tant’è: tutto è esattamente come dovrebbe essere, senza cali di tensione, buchi narrativi o inverosimili sbilanciamenti dei sentimenti umani — contraddittori, evanescenti, indefinibili per natura.

La storia è ambientata a Hong Kong, negli anni ’60, e ruota attorno a due personaggi: Chow Mo-wan, interpretato da Tony Leung Chiu-wai, e Su Li-zhen, interpretata da Maggie Cheung. Chow, un giornalista, e Su, un’efficiente segretaria di una ditta di import-export, si trasferiscono entrambi nei loro nuovi appartamenti nello stesso stabile.

Iniziano a conoscersi casualmente, notando che i rispettivi coniugi sono spesso assenti. Chow è un uomo riservato, che nasconde le sue emozioni sotto una maschera compassata di calma e cortesia. È un uomo solo, intrappolato in un matrimonio ormai vuoto e segnato dalla delusione. La sua professione di giornalista e scrittore fa da sfondo alla sua ricerca interiore e al desiderio di esprimere sentimenti che non può manifestare apertamente. Il suo abbigliamento sempre elegante e i movimenti misurati riflettono il suo modo di controllare il dolore.

Su è una donna gentile e discreta, intrappolata in una vita matrimoniale altrettanto insoddisfacente. Il suo comportamento è contenuto, quasi fragile, e il suo modo di parlare e di muoversi è pieno di grazia ma anche di riserve. Come Chow, lotta contro la solitudine e la tristezza, e il loro rapporto diventa per lei una via di fuga dalle proprie sofferenze.

Ben presto, Chow e Su scoprono una dolorosa verità in comune: i loro coniugi sono impegnati in una relazione extraconiugale tra di loro. Entrambi provano un profondo senso di tradimento, amarezza e solitudine, ma non si lasciano andare alla rabbia o all’aggressività. Invece, si avvicinano lentamente, trovando conforto nella reciproca compagnia.

Nonostante l’attrazione crescente, entrambi si astengono dal tradire i propri coniugi, rimanendo fedeli ai propri valori e al senso di dignità personale. Il loro rapporto resta quindi sospeso tra amicizia, amore platonico e tensione emotiva. Alla fine, Chow lascia Hong Kong, mentre Su rimane sola: la loro relazione resta sospesa nel tempo, un ricordo malinconico di ciò che avrebbe potuto essere, ma non è stato.

È una storia semplice, senza colpi di scena, dove non succede praticamente nulla: tra una partita di mahjong, una giornata in ufficio, una corsa in taxi o una conversazione sussurrata sotto la pioggia. Senza bruschi cambi di prospettiva o drammi eclatanti, tutto è tenue, lieve, malinconico — ma non per questo meno doloroso.

Il forte sentimento che i protagonisti provano l’uno per l’altra è reale e profondo, ma trattenuto, represso, bloccato da norme sociali, senso del dovere e paura del giudizio altrui. È un amore sporcato di solitudine, scolorito dall’incapacità di comunicare apertamente, per pudore, timidezza, ritrosia, eccessiva educazione.

Il film si muove lento, come fumo denso in una stanza chiusa. Le pareti strette, i corridoi angusti, i vestiti aderenti — come gabbie — tutto parla di costrizione e desiderio non detto. E poi la musica, ciclica, struggente, che ritorna con il tema ricorrente di Yumeji’s Theme, o la voce di Nat King Cole che canta in spagnolo.

Con In the Mood for Love, Wong Kar-wai firma un’opera che ha ridefinito i canoni del cinema sentimentale, portando la narrazione dell’amore represso a un livello visivo e formale di straordinaria raffinatezza. Ma al di là del fascino estetico, sotto lo smalto della struggente perfezione stilistica, si muove un’anima universale e spontanea. Basti pensare che quasi non esisteva una sceneggiatura: il regista lasciava le scene alla libera improvvisazione degli attori. E tuttavia, tutto sembra perfetto, calcolato, meticolosamente studiato per trasmettere sentimenti, emozioni, felicità mancata.

Nel film di Wong Kar-wai i costumi non sono semplicemente abiti da indossare: diventano strumenti narrativi, veicoli di stati d’animo, tempo e identità. Dietro la splendida estetica visiva, la sartoria — curata da William Chang — svolge un ruolo cruciale nell’evocare l’epoca, il contesto e il conflitto interiore dei personaggi.

Su Li-zhen (Maggie Cheung) indossa praticamente solo cheongsam per tutta la durata del film. Il cheongsam è un abito tradizionale cinese a colletto alto, aderente, spesso con spacco laterale. Nel film è reinterpretato con gusto moderno: tagli precisi, tessuti ricchi, fantasie vistose. Tony Leung Chiu-wai porta invece completi sartoriali classici, giacche monopetto, cravatte strette, colori sobri — grigi, marrone, oliva tenue. I dettagli sartoriali sono curati: revers stretti, pantaloni con risvolto, cravatte eleganti. La sobrietà del suo abbigliamento riflette il suo ruolo sociale, il suo self-control, la mascolinità formale dell’epoca.

La luce in In the Mood for Love non illumina: scolpisce, nasconde, suggerisce, evoca. È una delle componenti più raffinate del linguaggio di Wong Kar-wai, che lavora in simbiosi con la fotografia di Christopher Doyle (e in parte di Mark Lee Ping-bin) per costruire un mondo emotivo fatto di chiaroscuri, riflessi e ombre dense come segreti.

La pioggia in In the Mood for Love è più che un elemento atmosferico: è una figura poetica ricorrente, una presenza simbolica che amplifica la tensione emotiva e riflette lo stato d’animo dei protagonisti. In un film dove il desiderio non esplode mai, ma resta sospeso nell’aria, la pioggia è una delle poche cose che scorrono davvero. È come se proteggesse i personaggi dalla realtà, offrendo loro un luogo sospeso, dove possono sfiorarsi senza dover agire. Un rifugio poetico, non una via d’uscita.

Nel mondo ovattato e malinconico di In the Mood for Love, anche la cucina e il cibo hanno un ruolo profondo — non solo realistico o “di scena”, ma narrativo, psicologico, culturale. Wong Kar-wai li usa per parlare di routine, desiderio, assenza. Nel silenzio emotivo che avvolge i protagonisti, il cibo diventa comunicazione muta, una forma rituale che scandisce il tempo e riflette ciò che manca.

Il film è ambientato nella Hong Kong degli anni ’60, in palazzine condivise dove la cucina è spesso uno spazio comune, caotico, popolare. Eppure, Su Li-zhen scende ogni sera a prendere il noodle take-away. Non cucina solo per sé. Anche Chow Mo-wan mangia spesso da solo, fuori o nell’ufficio di redazione.

È attraverso la cucina che i due intuiscono il tradimento dei rispettivi partner: “Tu ordini come mio marito… e tu come mia moglie.” Il cibo diventa una prova, un indizio, una traccia — come una briciola che conduce a una verità più grande.

E poi, come in un ultimo respiro, il film si sposta lontano, nel silenzio millenario del tempio di Angkor Wat, in Cambogia. Anni dopo, Chow, ormai solo, sussurra il suo segreto in una cavità del muro di pietra e lo sigilla con il fango, secondo un’antica usanza. Nessuno lo ascolta, nessuno lo saprà mai.

È il gesto più intimo del film: non una dichiarazione, ma una sepoltura. L’amore che non ha potuto vivere diventa memoria custodita nella pietra, segreto consegnato al tempo. E in quell’eco lontana, che il vento disperde tra le rovine, In the Mood for Love trova la sua forma più pura: la promessa di un sentimento eterno, perché mai consumato, mai concluso, mai dimenticato.

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:: Visioni di cinema: Rouge (1987) di Stanley Kwan

21 ottobre 2025

“La vita è preziosa”

Rouge (1987), diretto da Stanley Kwan, basato sull’omonimo romanzo di Lilian Lee, scrittrice e sceneggiatrice famosa, tra l’altro, per aver scritto il romanzo Addio mia concubina, è un film di culto appartenente alla Second Wave della cosiddetta “Hong Kong New Wave”.

Nonostante sia acclamato da più parti come un capolavoro, e abbia avuto riscontri sia di pubblico che di critica (Anita Mui la protagonista ha vinto per la parte l’Hong Kong Film Award e il Golden Horse taiwanese), non credo esista una versione restaurata e doppiata in italiano, esiste solo la versione in lingua originale con al massimo i sottotitoli in inglese.

Prodotto da Jackie Chan, al tempo pensava di fare un film di cassetta invece si trovò un piccolo film d’autore che paradossalmente circolò più all’estero nei festival, nelle rassegne nei club d’essai, che in Cina, che dopo il passaggio di Hong Kong alla Cina continentale mise forte il vincolo della censura soprattutto per il fatto che i personaggi fanno largo uso di oppio.

Star indiscusse del film sono Leslie Cheung e la già citata Anita Mui, icone tragiche del cinema e della musica hongkonghese dei tardi anni ’80, amati, se non venerati, da uno stuolo di fan che ne conserva la memoria fino a oggi.

Il film è un melodramma struggente con ampie venature di sovrannaturale. Cercherò di evitare gli spoiler, perlomeno quello finale, anche se lo spoiler principale è che Anita Mui, per buona parte del film, è un fantasma che dopo cinquant’anni torna sulla terra per cercare l’uomo che amava, Chan, interpretato appunto da Leslie Cheung.

Fleur, questo era il suo nome, era infatti una prostituta d’alto bordo che, per opposizione della ricca famiglia di lui, non aveva potuto sposare il suo amato. Separati dalle convenzioni sociali decidono così di suicidarsi con resina d’oppio per restare almeno nell’aldilà sempre insieme.

Ma qualcosa va storto, e il fantasma di Fleur, un fantasma cinese in carne ed ossa, si reca nella redazione di un giornale per mettere un’inserzione per persona scomparsa. Incontra così un simpatico giornalista che dopo il primo sgomento quando si accorge che lei è un fantasma (iconica la scena del bus, che si ricollega a tante leggende metropolitane) decide, assieme alla sua fidanzata, di aiutarla.

Il film è essenzialmente al servizio di Anita Mui, la cui recitazione senza sbavature rende il personaggio emotivamente profondo e commovente. E’ un film più triste e malinconico che spaventoso, attimi di vera paura non ce ne sono. Fleur è un fantasma gentile, pallido ed emaciato, al massimo si sbava il trucco o non sopporta la luce del sole, e si interroga se l’amore eterno esiste con ogni sguardo, con ogni gesto, con un’espressione così straziata e delusa, che lascia un eco profonda nello spettatore.

Ma è soprattutto l’Hong Kong degli anni Trenta che non c’è più: Fleur perde le coordinate anche geografiche, non ritrova le strade, gli edifici, i locali, i mercati, i teatri. Tutto è cambiato, è estraneo e respingente. Non solo non trova l’uomo che amava, ma fatica a ritrovare anche i luoghi in cui era stata in vita provocandole uno spaesamento che l’interpretazione di Anita Mui rende memorabile.

Elegante, profondo, commovente, Rouge è un film per chi ama le storie d’amore che tentano di sopravvivere al tempo, alla morte, alla memoria, non aspettatevi un lieto fine classico, ma in fondo un lieto fine c’è, carico di pathos, drammatico e romantico allo stesso tempo. Per la sua ricchezza evocativa un film moderno ancora oggi.

:: Visioni di cinema: Le ombre del pavone di Phillip Noyce (1987)

16 ottobre 2025

Le ombre del pavone, titolo originale: Echoes of Paradise (anche noto come Shadows of the Peacock) del regista australiano Phillip Noyce, è un film decisamente interessante, perso tra le varie commedie sentimentali con sfondo esotico tipiche degli anni Ottanta, in cui esotismo, ricerca di sé, e il viaggio come metafora della trasformazione interiore, avevano un certo appeal nelle aspettative di un pubblico ancora non del tutto assuefatto e anestetizzato dal turismo di massa.

Il film di Noyce si differenzia per alcune tematiche peculiari che arricchiscono una trama narrativa abbastanza abusata: una donna, Maria, interpretata da una intensa e credibile Wendy Hughes, prima perde il padre, poi scopre il tradimento del marito, un affermato politico locale, e la sua vita rispettabile e borghese cade in pezzi, perdendo i suoi punti di riferimento sente crollare il suo mondo interiore e le sue aspettative, e tutto questo è descritto con grande sensibilità e attenzione alle dinamiche e fragilità interiori della protagonista.

Un’amica più smaliziata, Judy (Peta Toppano), che sta partendo per la Thailandia, la invita ad andare con lei per interrompere il tran-tran familiare, e riprendersi in un luogo esotico lontano da tutto. Maria dopo qualche esitazione, (non ha mai lasciato soli i suoi figli piccoli) accetta e parte per Phuket, la più grande isola della Thailandia, (originariamente il set era ambientato a Bali, ma per una serie di vicissitudini, che portarono a diverse riscritture della sceneggiatura e scontri redazionali si scelse un luogo altrettanto esotico ma meno suggestivo e di nicchia).

Ad accoglierle trovano Terry (Rod Mullinar), proprietario del resort che le ospita, che, come un maestro di cerimonie, le porta a conoscere i segreti dell’isola e le presenta a Raka (John Lone), danzatore balinese, affascinante e misterioso di cui Maria subito si innamora, corrisposta. Questo amore è molto più che una semplice scappatella, o una vendetta per il tradimento subito dal marito (Steve Jacobs), ma è una sorta di iniziazione, anche spirituale, a un mondo altro, a una ricerca di sé più autentica e profonda dove non contano solo le aspettative degli altri.

Ma la passione, l’amore non basta, e dopo una serie di incomprensioni Maria sente di non appartenere a quel luogo, e neanche a Raka, e torna in Australia dal marito e dai bambini, pur essendo cambiato qualcosa nel suo animo e avendo acquistato una nuova consapevolezza.

L’esotismo non stereotipato, il rispetto per la cultura altra, la sacralità tutta orientale delle cerimonie e i riti, le combattute recriminazioni interiori sull’abbandono di ruoli e responsabilità, rendono il film non usufruibile come mero intrattenimento commerciale, ma avvicinano lo spettatore a qualcosa di più serio e profondo. Bellissime le scene di danza, i costumi, il trucco, per non parlare del paesaggio che da sfondo a un Paradiso dove la felicità sembra a portata di mano, seppure a misura di turista.

Forse una delle opere minori di Philip Noyce, ma ricca di un fascino sottile, che resta impresso nell’anima e arricchisce lo spettatore. Da riscoprire.

:: Visioni di cinema: Era mio nemico (The Chinese Widow) di Bille August

15 ottobre 2025

Bille August, regista danese famoso per film come Pelle alla conquista del mondo, o Il senso di Smilla per la neve tra gli altri, è un regista che amo molto, da poco mi ha colpito molto favorevolmente la sua miniserie televisiva, Il conte di Montecristo (The Count of Monte Cristo, 2025), confermando la mia ottima opinione su di lui, (magari ci ritorneremo nelle prossime settimane su questo sceneggiato), per cui ho ricuperato con molta curiosità un suo film del 2017, Era mio nemico (The Chinese Widow), che non avevo ancora visto.

Un dramma bellico, con venature sentimentali, interamente prodotto in Cina, e recitato in inglese, giapponese e cinese, con protagonisti Emile Hirsch e la bella ed enigmatica Liu Yifei, (famosa in occidente per la trasposizione Disney di Mulan). Non un film forse che segnerà la cinematografia mondiale, ma pur con il suo tono pacato, quasi sussurrato, un bel film per passare un pomeriggio piovoso di relax sotto una coperta di lana con una tazza di tè fumante da sorseggiare.

Ambientato durante la Seconda Guerra mondiale, Era il mio nemico segue le vicende belliche di Jack Turner, un pilota americano abbattuto nei cieli della Cina occupata dai giapponesi, durante la missione dei Doolittle Raiders, il celebre bombardamento di Tokyo del 1942, in seguito a Pearl Harbour. Dopo essersi buttato col paracadute dal suo aereo colpito dalla contraerea, ferito, solo, affamato, Jack viene salvato da Ying (Liu Yifei) una giovane vedova cinese che vive sola con la figlia.

Mentre la guerra continua, e le truppe giapponesi cercano il pilota disperso, tra Jack e Ying prima nasce un legame di riconoscenza e rispetto, poi pian piano si trasforma in un sentimento vero e profondo, nonostante le tensioni belliche, le differenze culturali e linguistiche e il destino sempre più incerto. La narrazione è visivamente elegante e stilisticamente coerente con un dramma intimistico con un buon equilibrio tra scene girate in interni, e quelle in esterni nei bellissimi boschi cinesi circostanti.

La regia di August ha la dolcezza trattenuta di atmosfere liriche e poetiche, paesaggi immersi nella nebbia, luce naturale, e una fotografia dai toni caldi e sommessi. Il film è profondamente rispettoso della memoria storica cinese, celebra in modo sofferto e non eccessivamente propagandistico il sacrificio del popolo cinese durante l’occupazione giapponese, e si inserisce nella linea delle produzioni cinesi che univano memoria nazionale e apertura internazionale, grazie alla presenza di attori occidentali e a una narrazione accessibile a un pubblico globale.

Il film nonostante solo lo accenni con sommessa grazia, e pur nella sua semplicità, offre uno sguardo interessante sulla collaborazione tra cinesi e americani durante la guerra del Pacifico, e il coraggio delle comunità locali che aiutarono i piloti americani a mettersi in salvo, portando allo spettatore una prospettiva diversa sulla Seconda Guerra Mondiale. “Era mio nemico” ha davvero una poesia silenziosa che colpisce chi sa cogliere la delicatezza nei dettagli — nei gesti, nei silenzi, nei paesaggi che sembrano parlare da soli.

Non un dramma bellico dove le scene di combattimento sono preponderanti, e sebbene caratterizzato da una certa lentezza, e privilegi l’ambiente domestico, dove lei cucina o tesse la seta, (e coi soldi guadagnati mantiene lei la figlia a e i suoceri), è un film bello, visivamente suggestivo, dove la regia di Bille Auguste è quasi invisibile, così delicata, rispettosa e partecipe che non si sente, pure se è frutto di grande mestiere.

Liu Yifei è poi molto brava a impersonare una giovane vedova forte e resiliente, e nello stesso tempo delicata e sensibile, che conserva la memoria del marito e gli accende incensi. La scena del bacio tra Jack e la protagonista più che passione denota rispetto e riconoscenza, merce rara al giorno d’oggi. Molto brava anche la bambina spontanea e naturale. La violenza non è eccessiva, seppure presente, (nel bombardamento di Tokyo, nel tentato stupro, nella fuga finale). Un film che racconta la bellezza della gentilezza in tempi di distruzione.

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:: Visioni di cinema: L’anno del Dragone di Michael Cimino, a quarant’anni dall’uscita

11 ottobre 2025

L’anno del Dragone (The Year of the Dragon, 1985), diretto da quel genio eclettico, e per certi versi troppo visionario per l’epoca, di Michael Cimino, è un film che non smette di far discutere cinefili, appassionati o semplici spettatori. Quarto lungometraggio di Cimino, cinque anni dopo le vicessitudini di I Cancelli del Cielo, (Heaven’s Gate, 1980), con sceneggiatura oltre che sua anche di Oliver Stone, basata sul romanzo bestseller del 1981 di Robert Daley, scrittore, giornalista ed ex ufficiale di polizia di New York (che rinnegò piuttosto accesamente il lungometraggio di cui aveva venduto i diritti, soprattutto per la rappresentazione delle forze dell’ordine), L’anno del Dragone divise gli spettatori tra l’ammirazione per le indubbie qualità tecniche e la resa visiva, quasi di stampo operistico, e le criticità che hanno attirato molte opposizioni specie in America nelle organizzazioni cino-americane. Pur essendo radicato nella società americana degli anni ’80, di reaganiana memoria, conserva tuttavia un grumo di autenticità sopravvissuto integro anche ai giorni nostri, sebbene siano passati 40 anni esatti e sia il tessuto della società americana sia profondamente cambiato, sia la percezione delle comunità “altre”, in questo caso cinesi.

Protagonista principale del film è Stanley White, un invecchiato per ragioni di scena Mickey Rourke, allora al culmine della sua bellezza e della sua fama, pur non trascurando le doti recitative (da ex pugile le scene dei pestaggi sono molto realistiche), che non riesce proprio a far sembrare antipatico un personaggio che fa di tutto per esserlo: veterano reduce del Vietnam, poliziotto decorato per meriti di servizio non di scrivania, razzista, violento, intransigente, del tutto privo del senso delle gerarchie, allergico ai compromessi, insensibile verso le sensibilità altrui, ma tuttavia dolorosamente onesto (non è un poliziotto corrotto) seppure incarni tutto quello che c’è di negativo nell’idea, forse un po’ preconcetta, di uomo bianco, arrogante e prevaricatore. Comunque c’è da sottolineare che Stanley White è un personaggio che incarna perfettamente la paranoia securitaria dell’epoca reaganiana, e il film ne è uno specchio, forse distorto, e Cimino ne è ben consapevole.

Dopo l’assassinio, in un ristorante, sotto gli occhi di tutti, del boss di Chinatown a New York, Jackie Wong, White viene assegnato al Quinto distretto e subito fa capire che c’è aria nuova in città. A lui non interessano i patti, i compromessi con gli anziani della comunità cinese locale per quieto vivere, lui come un bulldozer vuole fare piazza pulita di tutto e restaurare l’ordine, il suo personale ordine di poliziotto di origini polacche, un immigrato anche lui anche se ormai completamente integrato nel tessuto sociale americano (“se mi arrendo io si arrende il sistema”, dice sconsolato a un collega).

A contrastarlo, Joey Tai, (John Lone), giovane, ambizioso elemento emergente della Triade o Tong newyorchese, genero del boss locale assassinato e probabilmente mandante del suo assassinio. Joey Tai vuole il potere, con ogni mezzo, a costo di scatenare una guerra personale con Stanley White, con tutto il dipartimento della Polizia di New York, e con tutta la società americana che relega ai margini l’etnia cinese permettendogli di farsi strada solo nella criminalità. C’è in lui rabbia, rivalsa, ambizione, sebbene sotto a una patina glaciale di gelido autocontrollo che l’attore che lo interpreta rende memorabile.

White è il suo opposto, quello che pensa dice, non trattiene commenti sferzanti né volgari o profondamente razzistici, detesta i giochi politici, non è aristocratico, non è ben educato o elegante, non è istruito, è mosso da un suo personale senso di giustizia e da un grumo di odio verso la gente asiatica che si porta dietro dal Vietnam, dove gli asiatici rappresentavano il nemico. Ma mentre in Vietnam, nella jungla, non ne vedeva il volto, qui a New York li può guardare in faccia, sfidare apertamente, affrontare in prima persona, in un processo di rozza semplificazione in cui gli asiatici sono ai suoi occhi tutti un’unica entità senza differenziazioni.

A Cimino non interessa il politicamente corretto, lui vuole opporre un ricalco della realtà, sebbene drammaturgicamente filtrata, descrivendoci una Chinatown, dove si muovono i personaggi, ricostruita nei minimi dettagli (dalle botteghe, ai vicoli, ai ristoranti, ai locali di scommesse) con tutto il folklore delle feste, delle processioni funebri, dei rituali che non sono solo un’esibizione esteriore, ma fanno parte di un senso etnico di comunità, un’adesione alle tradizioni di una cultura altra impiantata quasi a forza nel contesto urbano statunitense.

Non solo una Chinatown da cartolina, ma in filigrana una micro-città sotterranea con regole e microstrutture di potere parallele se non ostili a quelle ufficiali.

Le scene d’azioni sono veloci, sincopate, violente (se non iperviolente) e si alternano a momenti più riflessivi dove i personaggi parlano, si confrontano, si lasciano andare come nelle scene d’amore tra White e Tracy Tzu, la giornalista nippo-cinese che volente o nolente aiuterà White e di cui si innamorerà, dando vita a una relazione interetnica piuttosto insolita per il periodo, o al battibecco coniugale in cucina tra White e la moglie (una splendida e sciupata Caroline Kava).

La violenza urbana si fa strumento narrativo, come nella scena della strage al ristorante, Shanghai Palace, o nel pestaggio nei bagni della discoteca, o nell’uccisione del giovane poliziotto infiltrato cinese, Herbert, a cui è concessa una scena memorabile nell’appartamento high tech di Tracy Tzu, che esprime orgoglio identitario, dove difende con passione la superiorità della sua cultura millenaria, con orgoglio e altruismo. Ma ce ne sono altre anche meno sfumate ma piuttosto disturbanti, con i mezzi dell’epoca, con il sangue che a una visione contemporanea può risultare posticcio.

Tuttavia, ritengo che il passare del tempo non abbia scalfito eccessivamente la visionarietà del narrato, sebbene molto distante dalla sesibilità contemporanea alla luce del Stop Asian Hate, soprattutto per quanto riguarda la veridicità della dimensione psicologica dei personaggi, vibrante, autentica, necessaria seppure a tratti estremizzata ed eccessiva.

Non condivido completamente la critica che si fa del fatto che tutta la comunità cinese è vista come criminale, violenta, mafiosa, in filigrana c’è anche una dimensione onesta, laboriosa, risparmiatrice attenta ai valori familiari. Come Herbert, i lavoratori silenziosi della fabbrica, i camerieri dei ristoranti, la stessa Tracy Tzu, o il personaggio che lavora nella fabbrica di soia e chiama la polizia quando riviene i corpi dei due attentatori del ristorante, e lavora da oltre quarant’anni in quella fabbrica simile a una prigione e conserva tutti i suoi risparmi alla Chase Manhattan Bank, o anche semplicemente nel padre di Tracy Tzu che fa lo spedizioniere. Tutta una massa silenziosa a cui non si dà eccessivamente luce perchè il film focalizza l’analisi sulla criminalità, essendo appunto un noir moderno o ibrido, legato più alla tradizione del poliziesco metropolitano violento che al noir codificato degli anni ’40-’50.

Nel complesso è un film che non si fruisce come mero intrattenimento poliziesco ma invita a riflettere su veri temi morali, etici e sociali, portando lo spettatore a un livello di comprensione delle dinamiche in corso più alto e problematico. È senz’altro un’opera ambiziosa, non senza frizioni, per certi versi scomoda e conflittuale, che tuttavia porta avanti un discorso autoriale coerente, e non svenduto ai meri interessi commerciali di cassetta, grazie anche al fatto che trovò in De Laurentis un produttore illuminato, sebbene pretese alcuni tagli della sceneggiatura per limare alcuni eccessi e pretendendo un finale abbastanza convenzionale con la sparatoria al molo, ma concesse per esempio di girare in Thailandia alcune scene come chiedeva il regista. Insomma alcuni compromessi in via di produzione furono fatti, ma Cimino potè abbastanza liberamente esprimere la sua linea di pensiero.

Uno dei film più interessanti di Cimino dopo Il cacciatore (The Deer Hunter) e al netto delle polemiche che ha suscitato al tempo dell’uscita nelle sale soprattutto in America (1), mentre quando uscì a Honk Kong fu accolto appunto come un film d’azione d’autore (2) o ancora oggi, un ritratto aderente al mondo reale, o perlomeno alla percezione che in certi ambienti si aveva della comunità cinese nell’America degli anni ’80. Per il suo valore di testimonianza attuale ancora oggi.


  1. https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1985-08-28-ca-25184-story.html
  2. https://www.upi.com/Archives/1985/11/22/Dragon-debuts-in-Hong-KongNEWLNHong-Kong-welcomes-Year-of-the-Dragon/2262501483600

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:: Visioni di cinema: Shadow of China di Mitsuo Yanagimachi

7 ottobre 2025

Shadow of China (“China Shadow”) del regista giapponese Mitsuo Yanagimachi è un film del 1989 decisamente anomalo, e sottovalutato, sia nella produzione del regista, noto più per produzioni più intimiste, e attento all’interiorità di personaggi minimi e poco addentro con le dinamiche del potere, sia per la filmografia dei tardi anni Ottanta legata al passaggio della Cina da colonia britannica al ritorno alla madrepatria, e sia ai fatti di Tienanmen e alle rivolte studentesche atte a richiedere al governo centrale cinese più libertà e democrazia. Tratto dal romanzo giapponese di Masaaki Nishiki, Snake Head, piuttosto irreperibile e di difficile consultazione, narra la storia partendo dal 1976, anno della morte di Mao e l’arresto della Banda dei Quattro, e focalizza l’attenzione su due personaggi Wu Chang (interpretato da un carismatico e sensibile John Lone) e Moo-Ling sua compagna (interpretata da una deliziosa e sofferta Vivian Wu), due ex guardie rosse (portano la fascia nera al braccio in segno di lutto) che scelgono l’esilio a Hong Kong per sfuggire ai tumulti legati alle repressioni rivolte verso le Guardie rosse. Arrivati a Hong Kong con altri rifugiati politici, le loro strade si separano: Moo Ling diventa una celebre cantante di Club e Wu Chang, nel frattempo conosciuto come Henry Wong, per porre una distanza dal suo passato, un importante banchiere la cui ricchezza resta di origini dubbie e sconosciute. La storia riprende quando Henry Wong cerca di organizzare, tramite il suo consulente finanziario Burke, l’acquisizione dell’importante quotidiano in lingua cinese Wah Min Daily di proprietà dell’anziano signore della droga Lee Hok Chow. Avendo capito che la sua grande ricchezza può essere utilizzata come strumento politico, e che i Media possono costruire l’opinione pubblica nella formazione della Nuova Cina. Come strumento destabilizzante entra in gioco il giornalista giapponese Akira alla ricerca di informazioni su Kazuo Obayashi, un giapponese ex Guardia rossa, che poi si scopre essere lo stesso Henry Wong. La trama è davvero complessa e intricata, e non voglio spoilerare troppo della trama per coloro che non hanno ancora visto il film (segnalo che ci sono diversi rimontaggi a secondo del pubblico di destinazione) sospetto ci sia una versione estesa a cui non ho avuto ancora accesso che segnala scene tagliate, o rimontate, ma per le versioni che ho visto il materiale è degno di nota e ricco di spunti di analisi non banali, anche se è possibile che i tagli siano dovuti a un edulcorazione dei temi troppo caldi per rendere il film più commerciale e libero dai vincoli della censura. In conclusione, devo dire che è un film davvero notevole, non premiato al botteghino all’epoca, soprattutto per la sua visione innovatrice e futuristica, e può giovare vederlo oggi, col senno di poi, soprattutto dopo gli sviluppi che ha preso la storia. L’interpretazione di John Lone soprattutto si segnala come sofferta e partecipata, e frutto di un’analisi attenta del capitalismo postcoloniale, con un’attenta disanima dell’origine delle ricchezze e dei suoi legami con la criminalità o perlomeno con pratiche poco etiche. Nel finale, molto evocativo si attua la parabola morale del protagonista che decide di tornare nella Cina Continentale per continuare la lotta verso una nuova Cina, frutto dei suoi sogni anche di gioventù. Da rivalutare.