Silvia Iannello è nata a Catania nel 1948. Ha fatto studi classici, è specializzata in Ematologia e in Diabetologia, ed è ricercatrice universitaria, ora in pensione, di Medicina Interna presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Catania. Ha pubblicato numerosi articoli scientifici ed è coautrice di libri di argomento diabetologico. Nel 2004 ha scritto un’ampia monografia in lingua inglese sulla rara sindrome di Guillain-Barre per la casa editrice americana NOVA Publishers di New York, che è stato un “bestseller”. Per i suoi meriti scientifici la sua biografia è stata inclusa nel “Who’s Who in the World” (USA) e nell’“Outstanding People of the 20th Century” (Cambridge, England). Ha ricevuto, inoltre, diversi riconoscimenti internazionali. Negli ultimi anni, si è dedicata a lavori di carattere letterario, scrivendo articoli di critica per la pagina culturale del quotidiano catanese “La Sicilia” e per il portale di letteratura “www.zam.it”. Nel 2007 ha pubblicato con la casa editrice Mursia (Milano) “Cani scritti”, che raccoglie i brani letterari più significativi dedicati al cane nella letteratura antica e moderna e che include anche dei commenti lievi e scherzosi. Il sito dell’autrice: qui
Silvia, lei è siciliana, quanto la terra di Sicilia si riflette nei suoi scritti?
Sono siciliana e amo moltissimo la Sicilia. Al momento, ho sottoposto a un editore il mio secondo libro, una selezione antologica illustrata, che si avvale delle straordinarie parole del romanzo “I Malavoglia” di Giovanni Verga e delle fotografie dell’ambiente nel quale lo scrittore ha fatto vivere il suo sconsolato mondo immaginario e le sue umili creature; il tutto corredato da commenti e notizie di folclore e storia siciliana, più tanto altro ancora. Poiché ho una figlia che insegna in Inghilterra a Coventry e che ha sposato un ragazzo che insegna Statistica a Oxford, da qualche anno passo molto tempo in Inghilterra e ho iniziato a conoscerla e amarla, oltre che ad apprezzarne la grande letteratura.
Come è nato in lei l’amore per la letteratura, leggeva già negli anni giovanili o è stata una scoperta recente?
Ho sempre letto tantissimo, sin dall’età infantile. La mia cara mamma aveva una ricca biblioteca e ho letto veramente di tutto: dalle storie di Delly, ai libri di Salgari, ai gialli di Agata Christie e di Simenon, e ai romanzi dei maestri del passato che ho adorato. Mi rattrista che questi grandi della letteratura siano oggi così trascurati, perché ritengo che la lettura dei loro romanzi eterni abbia un potere enorme nella formazione degli uomini e nella protezione delle loro eredità culturali. Virginia Woolf (grande critica e scrittrice inglese, i cui saggi sono appassionanti alla stregua di romanzi) ha osservato giustamente: «…un libro dobbiamo leggerlo come se fosse l’ultimo volume di una serie molto lunga… Perché i libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la nostra abitudine a giudicarli separatamente». Ciò significa che chi non conosce i classici ha inevitabilmente una cultura monca. Proprio per questo, con i miei articoli – nell’ambito di un intento anche didattico, divenuto oramai una mia forma mentis – ho sempre tentato di risvegliare l’interesse del pubblico giovanile per i grandi autori caduti nel dimenticatoio.
Lei essenzialmente è una scienziata, utilizza il metodo scientifico anche per la critica di testi letterari?
Nella mia antologia commentata “Cani scritti”, ho tentato di affrontare in maniera lieve degli argomenti difficili, usando anche quello sguardo scientifico di medico e ricercatore universitario al quale sono abituata. D’altra parte, tra la ricerca scientifica e la critica letteraria esistono molti punti in comune: entrambe cercano di riportare alla superficie delle verità nascoste. Jean Starobinski, filosofo e grande critico letterario ginevrino, uno degli ultimi umanisti e il padre della “nouvelle critique”, – guarda caso – ha sia una laurea in lettere che una in medicina, e nel metodo critico mescola gli strumenti dell’arte, della musica e della linguistica con quelli della scienza (compresa la medicina). Tra l’altro, la mia posizione nella critica letteraria è umile e modesta, consistendo nel condividere le impressioni comuni, da lettrice entusiasta che parla ad altri lettori, al di fuori dei paludamenti eruditi dell’accademia. La mancanza di una sovrastruttura culturale non è poi un male, perché impedisce gli eccessi del critico di professione (che spesso liquida impietosamente tutto ciò che non ama o non gli piace) e perché consente forse un giudizio individuale più indipendente.
C’è creatività nella stesura di testi scientifici o più che altro domina il rigore scientifico e la meticolosità?
C’è grande creatività sia nella ricerca scientifica che nella stesura degli articoli scientifici, come c’è meticolosità e rigore scientifico nella scrittura letteraria. Senza il mio ricco background di articoli e libri scientifici, non avrei sviluppato certamente una certa abilità critico-letteraria che consiste anche, tra l’altro, nel dominare una grande quantità di fonti e documenti. Fermata da un grave problema di salute, ho ritrovato una sorta di rinascita nella letteratura e nella scrittura; viceversa, ho sviluppato una sorta di ripulsa totale per tutto ciò che riguarda la Medicina, l’Ospedale e l’Università.
Trova difficoltà a scrivere in inglese?
Per la scrittura dei miei articoli scientifici in inglese, ho avuto poche difficoltà perché ho sempre scritto per riviste straniere (le sole considerate degne di attenzione in ambito scientifico) e perché ho usato un linguaggio elementare ricco di termini medici familiari. Avrei, invece, delle serie difficoltà nella stesura inglese di un testo letterario!
Coca cola no, me ne parli.
Sono contenta di questa domanda perché mi consente di chiarire un importante equivoco. Non è mio, purtroppo, il fortunato libro “Coca Cola no”, che è invece il frutto di un’esperta d’Economia, mia omonima. Purtroppo BOL e IBS attribuiscono i due libri “Cani scritti” e “Coca Cola no” a un’unica persona. E il danno credo sia tutto per la ben più nota economista Silvia Iannello!
Quali libri preferisce di Thomas Hardy, in che modo il suo stile o le sue tematiche l’hanno influenzata? 
Di Hardy ho letto “Via dalla pazza folla”, ispirato alla durezza del lavoro agricolo e al mito ideale della vita agreste che accompagnò lo scrittore durante tutta la vita. Ho letto anche “Tess dei d’Ubervilles” e “Giuda l’oscuro”, testi tremendi perché nutriti di un senso sconfortato della vita e segnati drammaticamente dalla fatalità del Destino e dalla furia cieca delle passioni. Trovo, però, molto attuale l’eterna aspirazione dei suoi umili protagonisti a una impossibile elevazione sociale, in balia del contrasto tra Bene e Male e del conflitto tra la vita desiderata (alta e spirituale) e quella reale (squallida e orrenda) a cui li costringe il fato. L’opera di Thomas Hardy rivela i sentimenti di un uomo deluso e scoraggiato, che visse sulla sua pelle la crisi di vivere e scrivere a cavallo tra il tramonto del mondo vittoriano e l’alba del Modernismo del Novecento. Anche noi stiamo vivendo una forte crisi di fine e inizio secolo!
Mi parli di Camilleri e del suo mondo, la realtà siciliana è davvero come lui la descrive?
Camilleri mi piace tanto per il suo strano dialetto siciliano, italianizzato e personalizzato, che rappresenta nello stanco panorama italiano un’originale innovazione linguistica. Debbo, però, ricordare che qualcosa di simile esisteva già in Verga, che a un certo punto della sua carriera letteraria rimise indietro l’orologio e si riaffacciò al primitivo mondo isolano dell’infanzia, divenendo – come scrisse egli stesso – «un narratore popolare… camaleontico… che assume di volta in volta la maschera di tutti coloro che entrano in scena… e si identifica coi loro pregiudizi e le loro credenze». Egli riuscì a ricreare con successo il primitivo linguaggio degli umili. In un’intervista, Andrea Camilleri ha detto che per lui l’italiano è la lingua della ragione mentre il dialetto è la lingua del cuore; credo che sia così anche per me. La sua realtà siciliana consiste soprattutto nei suoni dialettali straordinari che riempiono i suoi racconti e che stranamente piacciono tanto anche Nord dell’Italia e all’estero! Mi chiedo, con stupita curiosità, in che modo i diversi traduttori riescano a rendere il tipico dialetto siciliano in una lingua straniera. Credo che, purtroppo, a Camilleri abbia nociuto il grande successo editoriale che ne ha fatto un autore di consumo e che ha spinto i critici a considerarlo poco: da sempre, essi credono che il successo di massa non possa coniugarsi con la qualità letteraria.
Il ruolo della letteratura femminile dell’Ottocento, pensa che autrici come Grazia Deledda abbiano fatto molto per l’emancipazione femminile in Italia?
Grazia Deledda è il simbolo della condizione della donna italiana (o meglio isolana) di fine Ottocento. Era nata, infatti, in una Sardegna arretrata ma da un padre commerciante e piccolo proprietario terriero, colto e interessato alla cultura; nonostante tutto ciò, Grazia visse un grande isolamento culturale, riuscendo a completare soltanto gli studi elementari, in obbedienza alle regole del tempo in base alle quali i figli maschi studiavano mentre le figlie femmine si preparavano per un buon matrimonio. Grazia contrastò questi pregiudizi maschilisti con forza di volontà, coraggio e perseveranza, combattendo la sua estrema timidezza e coltivando il suo italiano letterario per quello che avvertiva come un destino ineluttabile: la scrittura. In famiglia fu malvista a causa della sua attività letteraria che aveva suscitato lo scandalo nel chiuso mondo provinciale sardo. Da autodidatta lesse di tutto con voracità, sviluppando una lenta e goffa maturazione intellettuale e costruendo la propria carriera culturale su basi inesistenti. Per sua fortuna, nel 1900, mentre si trovava a Cagliari, non più giovanissima, Grazia conobbe e sposò l’impiegato statale Palmiro Madesani (che fu un marito moderno e illuminato), trasferendosi a Roma dove risiederà per il resto della vita. Questo matrimonio le consentì di uscire finalmente dal culturalismo regionale sardo – da quella romantica sardità che era sì una ricchezza ma anche un limite – e di aprirsi a una letteratura più ricca e più colta. Conquistando fama mondiale e il Nobel per la letteratura nel 1926, la Deledda ci ha dato la dimostrazione di come (nonostante una certa incultura di base) il talento, la tenacia e il carattere – e che carattere! – possono essere in grado di superare tutti i più arcaici pregiudizi e le più bieche convenzioni di provincia.
Il romanzo poliziesco nasce come una costola del romanzo d’appendice dell’ottocento; in un suo articolo lo fa risalire allo scrittore statunitense Edgar Allan Poe che scrisse il primo racconto giallo della letteratura “Il manoscritto in una bottiglia”. Pensa che Poe fosse più dotato come poeta o come narratore?
Trovo che Edgar Allan Poe sia uno scrittore grandissimo sia per la “Storia di Arthur Gordon Pym” che si riallaccia alla tradizione anglosassone del viaggio, sia per i suoi racconti (la storia breve era quella che più amava per la concisa brevità), tutti ispirati alla tradizione popolare del romanzo “Gotico”, che seppe riempire di temi fantastici e bizzarri, di terrore e tormento, di orrore e soprannaturale. Del Poe poeta, conosco poco ma ricordo la bellissima popolare poesia “Annabel Lee”, che rappresenta in modo autobiografico il dramma personale dell’autore (quello della giovane moglie morta di tisi prematuramente). In questa poesia, scritta nel 1849 e pubblicata proprio due giorni dopo il tragico decesso del suo autore, nella forma narrativa di una filastrocca infantile, il poeta pieno di rabbia piange la morte dell’amatissima sposa e canta il ricordo imperituro di questo amore immortale, e senza riuscire ad accettare la separazione, al di là della morte (contro gli angeli e contro i démoni), trasforma la tomba in letto nuziale cercando di raggiungere nella morte l’“amante perduta”.
Jane Austen una delle più grandi scrittrici europee di tutti i tempi, piena di buon senso, humour inglese e amore per l’indipendenza, “Orgoglio e pregiudizio” che emozioni le ha dato? La sua Elizabeth Bennet in un certo senso è un antesignana di tutte le eroine della narrativa moderna?
Da adolescente mi dilettavo nella lettura di Jane Austen, l’antesignana meno romantica e più nobile della letteratura rosa, e trovavo deliziosi i suoi testi (ho tentato anche di leggere qualche suo romanzo in lingua originale, perché ha una prosa piuttosto semplice ed elementare). In un suo piccolo saggio su Jane Austen, Virginia Woolf riporta su Jane il giudizio di una contemporanea della scrittrice: «la più carina, la più sciocca e più affettata farfalla in cerca di marito ch’io abbia mai conosciuta»; un’altra amica del suo tempo aveva scritto invece: «Un bello spirito, una disegnatrice di caratteri, che però non parla, è veramente qualcosa che fa paura!». Ci dice ancora la Woolf: «Incantevole ma perpendicolare, amata in casa sua ma temuta dagli estranei, viperina di lingua ma tenera di cuore… questa ragazza di quindici anni, seduta nel suo angoletto privato del salotto comune, non scriveva per far ridere il fratello e le sorelle, cioè per il consumo domestico. Scriveva per tutti, per nessuno, per la nostra epoca, per la sua… La ragazza di quindici anni ride, nel suo angoletto, di tutto il mondo… a quindici anni non si faceva molte illusioni sugli altri, e nessuna su se stessa.». Non si possono esprimere con parole più indovinate la personalità, la vita e l’infelicità di fondo di Jane Austen, e tutto ciò che ha scritto, compreso “Orgoglio e Pregiudizio”, privo di dramma ma avvincente e pieno di acre satira. Le eroine di Jane Austen, compresa Elizabeth Bennet, erano intelligenti, autoironiche e piuttosto indipendenti nel giudizio ma non erano molto moderne, perché erano ancora calate perfettamente nell’ambiente di fine Settecento, ricco di convenzioni che la Austen accettava (e in cui credeva), di pranzi, frivoli balli, e gite in campagna. Bisogna arrivare alla francese Emma Bovary e alla russa Anna Karenina per sentire il soffio della modernità, la crisi e il tormento della donna dell’Ottocento. E bisogna giungere, poi, sino all’americana Jo March, piena di fantasioso talento e di umoristico anticonformismo, in “Piccole donne”, per trovare – dietro l’apparenza di una sdolcinata saga familiare, grondante sentimenti piccolo-borghesi e intenti educativi – nuovi e più moderni comportamenti femminili.
Ritiene la letteratura rosa un genere minore? Perché secondo lei molte donne si vergognano di leggere libri rosa, pensano che sia un segno di debolezza mostrare i sentimenti, che ciò pregiudichi il loro ruolo di donne forti ed emancipate?
Ritengo che il romanzo rosa sia l’umile erede del “romanzo sentimentale”, relegato come genere in un ambito di sottocultura nonostante le vendite altissime in tutto il mondo (di ieri e di oggi). Le giovani donne si sono passati questi libri di generazione in generazione, spesso leggendoli di nascosto e vergognandosene nella consapevolezza di subire una nascosta manipolazione. E’ letteratura di donne per le donne, che si nutre di sogni e che sogni impossibili alimenta, riconoscendo nell’amore il problema femminile prevalente. Nessuna legittimazione è riconosciuta a questa letteratura considerata di serie B dalla critica letteraria; eppure, anche soltanto come fatto sociologico di costume e di consumo questa letteratura alternativa andrebbe valutata. I romanzi rosa, consolatori di una rassegnata situazione femminile, sono forieri di devastanti disillusioni col loro conformismo e le loro trame rigide e ripetitive. I personaggi sono creati su archetipi ormai superati: la protagonista, bella e pura (non sempre intelligente), che si realizza in un virtuoso e conveniente matrimonio; l’antagonista, bella e moderna ma considerata cattiva, che frappone mille ostacoli; l’eroe, prestante e altezzoso (lui sì, intelligente e realizzato) che è un uomo plasmato sul polveroso mito del superuomo dannunziano. Sono appena più moderne le storie di Maria Venturi e Sveva Casati Modignani, che hanno raccolto il testimone da Delly e Liala. Nonostante tutto, ritengo la letteratura rosa un genere degno di attenzione e utile, avendo il merito di avvicinare alla lettura anche un pubblico semplice (leggere è pur sempre un bene per lo sviluppo dei sentimenti umani). Nell’odierna cultura di massa, purtroppo, anche questa lettura è venuta meno, sostituita dalla visione dei “reality show” ove il modello proposto è altrettanto diseducativo: quello di una protagonista sempre molto bella ma non virtuosa né tanto meno intelligente o emancipata.
In suo articolo cita una poesia di Auden “Funeral blues”, citata nel film inglese “Quattro matrimoni e un funerale” del 1994 durante un’elegia funebre, cosa in questa poesia l’ ha più colpita? 
Omosessuale dichiarato, Auden – che sognava una stabilità amorosa impossibile e che ebbe due lunghe relazioni, che furono anche un «gioioso» sodalizio letterario – ha scritto una delle più belle e note poesie sulla fragilità della vita e dell’amore, “Funeral blues”, recitata appunto nel film inglese di Mike Newell durante l’elegia funebre di Charles per la morte dell’eccentrico compagno Gareth: «Fermate tutti gli orologi/isolate il telefono…/portate fuori il feretro…/Lui è morto…/Lui era il mio nord, il mio sud,/il mio est e ovest,/la mia settimana di lavoro/il mio riposo la domenica,/ il mio mezzodì, la mezzanotte,/la mia lingua, il mio canto./Pensavo che l’amore fosse eterno/e avevo torto./Non servono più le stelle,/spegnetele anche tutte, /imballate la luna,/smontate pure il sole…/perché ormai nulla può giovare». La trovo potente e tristissima!
Del gruppo Bloomsbury faceva anche parte lo scrittore Edward Morgan Forster, conosciuto per Casa Howard e Camera con vista, pensa che quella generazione di scrittori inglesi che risiedeva in Toscana e venerava l’arte abbia avuto una giusta visione dell’Italia?
Nella metà dell’Ottocento, Firenze ospitava una vivace e colta comunità anglo-americana, costituita da artisti e letterati che preferivano Firenze a Roma, al tempo infestata dalla malaria e quindi malsana. Molti furono, per esempio, gli intellettuali che gravitarono nella cerchia formatasi attorno ai due poeti vittoriani di successo Robert Browning ed Elizabeth Barrett, tra i quali ricordiamo William Thackeray, Nathaniel Hawthorne, Henry James, e più tardi Edward Forster, i quali tutti s’ispirarono agli stupendi panorami di Firenze. Colpiti dal “virus toscano”, vivevano l’Italia con una consapevolezza particolare e con un punto di vista liberale. A tutti loro dobbiamo il mito imperituro della Toscana, che ancora esiste forte e vivo nel cuore degli anglosassoni.
Nabokov autore di Lolita libro da cui fu tratto il film omonimo di Stanley Kubrick sceneggiato dallo stesso Nabokov con James Mason e Sue Lyon pensa sia uno scrittore onesto con i suoi lettori?
In “Lolita” (pubblicato nel 1955 a Parigi per motivi di censura), Nabokov in modo disincantato demoliva miti e tabù sessuali americani con una storia di passione trasgressiva e quasi incestuosa, nella quale forse c’era qualcosa di autobiografico, perché anche lo scrittore (come il protagonista, il professore inglese Humbert Humbert in odore di pedofilia) fu sempre attratto dal «fascino elusivo… dalla grazia torbida» delle giovanissime. Nell’infelice Humbert, si nascondeva ovviamente il lato oscuro di Nabokov! Non so se egli sia stato uno scrittore onesto con i suoi lettori; certamente, era un individuo strambo, un nomade senza casa (visse per anni in albergo) e uno snob bizzarro, affetto da insonnia cronica, che si curava così poco del suo pubblico da dire: «Scrivo per piacere a un solo lettore: me stesso».
Edith Wharton autrice di romanzi come l’età dell’innocenza, i ragazzi, ha lasciato l’America e il suo perbenismo per trasferirsi in Francia. Il tema dell’esule è comune nella storia della letteratura, lo prenderebbe come spunto per la stesura di un suo romanzo?
Edith Warton fu un’altra americana affascinata dal vecchio mondo, e dal 1906 si trasferì a Parigi ove visse a lungo, ritornando in America soltanto eccezionalmente. Prima donna nella storia a vincere il Pulitzer, diede inizio alla denuncia dei ceti privilegiati americani di fine secolo e dei loro manierismi rituali, in quella New York che si avviava a divenire una grande e caotica metropoli e che vedeva nascere una nuova e spregiudicata élite economica, insopportabile e deprecabile come la precedente. Anche due grandi italiani hanno affrontato il tema dell’esilio: Verga e Pavese.
Alla fine de “I Malavoglia”, Aci Trezza assiste indifferente e impassibile alla dolorosa partenza di ‘Ntoni che si allontana, sentendosi esiliato per sempre da quel porto di pace costituito dalla casa, dalla famiglia e dal paese. A proposito del concetto di “paese”, all’inizio del romanzo “La luna e i falò”, Pavese ha scritto: «Questo paese… ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo… Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli…». E l’emigrato, andando via, spera di andare verso «un paese più bello e più ricco» e di placare «la rabbia di non essere nessuno» ma, quando finalmente ritorna, comprende che non appartiene più alla casa che ha lasciato perché l’altro mondo lo ha cambiato profondamente. Il tema dell’esule sarebbe certamente di grande interesse per la scrittura di un romanzo; purtroppo, io non ho sufficiente fantasia per scrivere un romanzo! Mi accontento quindi di analizzare e portare alla luce i segreti dei romanzi degli altri.
Nazim Hikmet uno dei più amati poeti turchi maestro di una poesia lirica e struggente in cui l’amore per libertà e la lotta all’oppressione si traducono in termini semplici e di uso quotidiano. Pensa che la semplicità sia la dote più difficile da possedere per uno scrittore?
Hikmet ha scritto sempre e solo in turco perché voleva essere compreso dai suoi compatrioti; e la sua poesia è un elegiaco canto d’amore che racconta i suoi ideali, la terra natia, la patria adottiva, l’amore e il forte presentimento di morte. Per il poeta in carcere, l’amore è schiavitù e libertà, patria e nostalgia; e l’amore per l’amata è anche amore per il suo popolo («I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi…/verrà un giorno, mia rosa, verrà un giorno/che gli uomini si guarderanno l’un l’altro/fraternamente/con i tuoi occhi, amor mio…». Ignorato dalla critica che egli stesso rifiutava, fu amato dai lettori ai quali gettò un ponte d’amicizia, usando i suoi versi semplici come un mezzo per ridare dignità al suo popolo oppresso.
La sua semplicità è piena di fascino e lo scrivere semplicemente è una dote da coltivare, perché è la sola che consente di giungere al cuore dei lettori.
Ha un agente letterario? Per lei è un amico, solo una relazione professionale, o vi lega un rapporto amore-odio?
Non ho un agente letterario, perché penso di poter riuscire a gestire tutto da sola (ho un’esperienza più che trentennale di rapporti difficili con revisori implacabili ed editori di tutto il mondo).
Le piace la letteratura russa?
La adoro! Nutro un vero culto per Fiodor Dostoevskij, di cui ho amato “Umiliati e offesi” e “L’idiota”. I suoi grandi temi di pietà sociale, di forza e nobiltà d’animo, di grandezza del sacrificio, e di possibilità di redenzione hanno influenzato il mio sentire e il mio modo di vivere.
Cosa sta leggendo al momento?
Ho al momento nelle mani un ponderoso volume di quasi 700 pagine: “La saga dei Forsyte”, che include i tre romanzi in versione integrale di John Galsworthy, premio Nobel nel 1932, dedicati alla storia di tre generazioni di una rispettabile famiglia di stampo vittoriano che – raggiunta la ricchezza con gli affari – protegge la proprietà, il benessere e i privilegi con tenace senso di clan e con gelosa precauzione. La serie ha costituito l’alternativa inglese ai “Buddenbrooks” di Thomas Mann. Potrebbe sembrare un mattone, è invece una lettura di grande fascino e soddisfazione!
Legge i quotidiani ogni mattina, le piace il giornalismo?
Sono abbonata al mio quotidiano cittadino “La Sicilia”, e saltuariamente leggo “La Repubblica” e “L’Espresso”. Amo il giornalismo che mi ha permesso di dare una svolta alla mia vita, rendendola molto diversa ma intellettualmente più ricca e piena di soddisfazioni.
Quali sono le qualità tipiche di un buon scrittore?
Credo che sia una domanda difficilissima a cui sia impossibile rispondere, perché si tratta di un’alchimia complessa e imponderabile, che spesso sfugge al controllo dello stesso scrittore. Il buon scrittore dovrebbe avere un progetto narrativo interessante e saper mettere a contatto il lettore col mondo degli altri: raccontando la vita e le passioni, egli dovrebbe raccontare la nostra vita e le nostre passioni, abbracciando una moltitudine di sentimenti e rappresentandoli con sensibilità. Egli deve saper adoperare parole dense di significato e valenza universale e deve fare un uso esperto e sapiente di tutti gli strumenti letterari.
Ha relazioni d’amicizia con altri scrittori?
No, se si prescinde dai colleghi accademici, autori di libri scientifici. Ho conosciuto bene, però, un grande uomo, poeta-scrittore di altissimo livello, Antonio Corsaro: era un sacerdote ed è stato il mio professore di lettere al liceo (un liceo religioso femminile). Egli ha guidato noi allieve nel conoscere la letteratura moderna; ci ha portato alle mostre di pittura; ci ha condotto per mano al “Piccolo Teatro” di Catania (nella cui produzione era coinvolto), facendoci conoscere e capire, nei lontani anni ‘60, il quasi sconosciuto teatro d’avanguardia di Ionesco, Brecht, Beckett, Pinter, etc. Tra l’altro, egli ha anche celebrato il mio fortunatissimo matrimonio!
Quali sono i suoi scrittori preferiti?
Mi piacciono tutti i grandi classici, indistintamente; tra i più moderni, prediligo Virginia Woolf, Thornton Wilder, Thomas Mann, Hermann Hesse, Isabel Allende, Arundathi Roy, José Saramago, Gabriel Garcia Màrquez, e molti altri ancora.
Quale opera teatrale di Shakespeare preferisce?
Mi piace “Romeo e Giulietta”, così piena di quella passione che supera qualsiasi riserbo e ostacolo, che non consente a nulla e a nessuno di interferire, e che non teme neanche la morte. Mi piacciono però anche i suoi sonetti (li ho anche tradotti per una raccolta antologica in preparazione), che costituiscono senz’altro il più importante Canzoniere inglese vicino ai nostri gusti e alla nostra sensibilità; essi furono dedicati in parte a un “biondo amico (fair friend)” giovane e bello (probabilmente l’amico e mecenate conte di Southampton, e questo ha fatto nascere le voci di una presunta omosessualità di Shakespeare), e in parte a un’amica misteriosa e volubile, la “dama bruna (dark lady)”.
Quali consigli darebbe ad un giovane scrittore all’inizio della sua carriera?
Sono ancora troppo inesperta per dare consigli. Una cosa mi sembra però importante: l’autenticità, che è il solo ingrediente capace di conferire al testo il tono della verità. Molta letteratura italiana moderna ha una falsità di toni e un’artificiosità di costruzione che mi dà fastidio.
E’ stato difficile pubblicare il tuo primo libro di narrativa? Che differenza c’è tra l’editoria scientifica e l’editoria divulgativa?
Non è stato molto difficile, perché ho avuto la fortuna di intercettare una casa editrice seria e autorevole (la Mursia), che da anni è interessata al mondo canino con la serie di libri dedicata al cane “ArCANI”. Esistono comunque profonde differenze tra l’editoria scientifica e quella divulgativa. Nella prima, ci sono rispetto e considerazione per l’autore, che viene informato con sollecitudine quando la casa editrice ha ricevuto il manoscritto e quando è stata effettuata la valutazione; inoltre, l’intrusione nel testo è minima (si fidano dell’autore e a lui si affidano!) e i tempi di pubblicazione abbastanza brevi. Nell’editoria divulgativa, invece, l’autore è allo sbando e riceve qualche informazione soltanto in caso positivo, mentre un piccolo riscontro via e-mail con un piccolo formale testo precostituito non sarebbe poi tutta questa grande fatica e toglierebbe dall’ansia l’autore. Anche il rispetto per il testo è inferiore, per non parlare dei tempi di pubblicazione che sono molto più lunghi.
I suoi libri sono tradotti anche in altre lingue? Lo fa personalmente o si affianca a traduttori professionisti?
Ho pubblicato in lingua inglese soltanto i libri scientifici, che vengono scritti da me direttamente in inglese.
Cosa pensa del fenomeno dei ghost writers? Le è mai successo di sentirsi proporre di scrivere per conto d’altri?
Non ho nessuna esperienza in proposito ma in ambito universitario esiste l’abitudine inveterata di inserire il nome del figlio del barone universitario nei lavori degli altri: ci sono neolaureati figli di papà, che hanno centinaia di lavori scientifici di cui non sanno nulla. Mi sono sempre opposta a questa pratica indegna e immorale, pagandone lo scotto: sono stata nota e premiata all’estero, oscurata in Italia.
“Cani scritti”, il migliore amico dell’uomo nelle più belle pagine della letteratura mondiale. La pet therapy trova impieghi mirati nella cura di diverse malattie, lei pensa che le malattie nascano prima nell’anima che nel corpo?
Le malattie psicosomatiche certamente nascono prima nell’anima che nel corpo. Le malattie organiche evolvono invece a prescindere dell’aspetto psicologico; le reazioni psichiche individuali possono però interferire sull’andamento dello stato patologico, attraverso un impegno più attivo nella lotta contro la malattia e attraverso un aumento dei poteri di difesa indotto da un atteggiamento di positività. La pet therapy oggi è considerata un buon ausilio nella cura di molte malattie dell’anziano, quali la depressione nervosa e l’ipertensione arteriosa (è stato dimostrato che carezzare un animale riduce i valori della pressione arteriosa).
























