Angela entrò dalla porta grande, anche se tutto era già iniziato, rischiando così di attirare l’attenzione su di sé.
Inaspettatamente, le due enormi ante di legno, solitamente tanto rumorose dato il cronico mancato coincidere delle loro battute, si mossero docilmente alla pressione delle sue mani, anch’esse vissute, ma non vecchie.
Osservò, come per la prima volta, i segni del tempo sul loro dorso, che risaltava bianco e livido sul legno scuro e per un attimo rivide entrare lì una giovane donna piena di speranza e di amore, che a suo modo, aveva dato all’uomo della sua vita.
Si stupì di non vedere alcuna testa volgersi per capire chi stesse arrivando tanto in ritardo e ne approfittò per raggiungere subito un angolo tranquillo, riparato dagli sguardi che non avrebbe comunque voluto subire.
Si fermò lì, in piedi, di fianco ad una delle tante colonne e lo cercò con lo sguardo; ne vedeva la presenza ma non i tratti e si spostò per raggiungerli.
“Eccolo!”. Si disse così, nel silenzio, con un pensiero tanto forte da sembrare solido, visibile.
Era lì, non lo vedeva da ben oltre cinquanta anni, l’uomo della sua vita. Lo scrutò e le venne un pensiero insolito: “Ha il naso molto più lungo di quanto ricordassi”.
Ma era la posizione in cui lui si trovava che ne faceva emergere la sporgenza, il naso era sempre quello, fiero, importante, ma non esattamente “lungo”; la pelle, invece, era apparentemente liscia, insolitamente tesa per un uomo della sua età.
“Gli dona il rosso”, pensò, “il colore dell’amore, della laurea, del sangue e del raso, che spero non gli sia troppo freddo, intorno al suo bel viso”.
Era bello, ed era lì, l’uomo della sua vita.
Circondato da raso rosso, da fiori e da luce tremula di candele, nella sua bara semplice, adatta a lui, uomo semplice, buono, come ti capita di trovarne pochi.
Aveva saputo della sua morte dal giornale, un solo modesto annuncio: “Non è più tra noi: ha vissuto da uomo giusto.” E chi meglio di lei poteva testimoniarlo?
Lo osservava lì, sdraiato, immobile nonostante lo sguardo di lei cercasse disperatamente di farlo muovere, di trovare un battito di ciglia od un resto di respiro, per poter urlare a tutti che era ancora vivo, che si era solo addormentato.
Non lo vedeva da quasi sei decenni e lui non aveva in tutto quel tempo né più visto lei né saputo alcunchè della sua vita: era rimasta per lui un ricordo di gioventù, il primo, il più dolce e tenero.
Il fumo delle candele, confondendo i contorni, la aiutò a ricordare tutto, anche se le immagini nella sua memoria erano nitide, presenti: rivide sé, giovane, bellissima, splendente, unica figlia in una famiglia ricca, con pretese di nobiltà e con tanto pregiudizio, come era normale per l’epoca.
Anni ’50, fidanzamento guardato a vista, con quel ragazzo tanto gentile e carino ma di umili origini e di pochi mezzi: decisamente inadatto per lei e per la sua famiglia, a giudizio dei genitori.
Era il suo primo amore e forse non immaginava che sarebbe rimasto anche l’unico, l’uomo della sua vita; lo sperava in cuor suo quando confidò alla sua migliore amica di portare in grembo, a vent’anni, il segno di quella stessa speranza.
Come spesso accade, però, la migliore amica divenne la peggiore nemica ed i suoi genitori ne vennero informati, non dalla figlia né dalla sua amica, ma dal Parroco, non sempre garante di silenzio, di discrezione da confessionale: una notizia tanto grave avrebbe fatto il giro del paese in pochi attimi, trasformando la reputazione di una giovane ereditiera e dei genitori in un argomento di conversazione da bar, di scherno e rendendo il miglior partito del paese una poco di buono che nessun gentiluomo avrebbe più voluto sposare.
Cercava dai suoi un’assoluzione ed ebbe invece una soluzione, inaspettata, grave. “Avrai il figlio, giacchè siamo una famiglia cristiana, ma non qui: c’è un convento di religiose che ti ospiterà, a Mustair, in Svizzera. Non è lontano ma nessuno ti troverà e, soprattutto, il padre del bambino, che non dovrai mai più vedere. Se non rispetterai il nostro volere non ci vedrai più e sarai del tutto diseredata.”
Sola, senza alcuna possibilità di ribellione, che in quegli anni non usava ancora, schiacciata dalla responsabilità di una gravidanza impossibile, non seppe e non potè fare altro che piegare il capo di fronte alla volontà familiare e partì senza un cenno, sparì dal paese, lasciando il suo amore, ignaro dello stato in cui lei si trovava.
Nacque, suo figlio e venne abbandonato senza nome e destino nel convento che la ospitava.
Non ne avrebbe saputo più nulla.
Partì, lei, andò in America del sud per curare gli interessi del patrimonio di famiglia e, proprio in viaggio, la raggiunse la notizia della morte dei suoi genitori in un terribile incidente; proseguì.
Non sarebbe tornata per loro, le avevano rovinato l’esistenza, fatto sprecare amore e gioventù, sottratto l’uomo della sua vita.
In America trovò la ricchezza; i terreni coltivati a caffè che facevano parte dell’azienda ereditata si rivelarono ricchi di petrolio e, in poco tempo, assunsero un valore di mille volte superiore: vendette tutto e investì il ricavato nel modo più sicuro e redditizio.
Il tempo che le rimaneva dal poter vivere di rendita era molto ed i ricordi le tornavano prepotenti alla memoria, anche perchè non aveva voluto alcun altro uomo accanto a sé.
Tornò in Europa e si stabilì in un paesino nei pressi di Nizza. Era sparita da cinque anni e, sebbene con mille cautele, cercò di avere notizie di lui e ne trovò: si era sposato, aveva due figli, un lavoro modesto come contabile in una grande azienda di trasporti marittimi di Genova, un presente informe ed un futuro grigio ma forse una piccola serenità che lei decise ora e per sempre di non voler stravolgere.
Sentiva però fortissimo in lei il desiderio di rimborsarlo della vita che gli aveva rubato non ribellandosi all’ipocrisia dei suoi genitori, di ridargli ciò che, in cuor suo, era convinta di avergli sottratto: un presente agiato, anche se magari non la felicità che avrebbero potuto costruire insieme.
Tramite una società fiduciaria di Zurigo, nella quale conobbe un giovane gentile di nome Enrico, acquistò il pacchetto di maggioranza delle azioni dell’azienda in cui lui lavorava e, con aumenti di capitale e finanziamenti a fondo perso, dotò la società di grandissimi mezzi, consentendole così di aumentare enormemente clienti e giro d’affari e fece in modo che il merito di queste operazioni fortunate fosse attribuito a lui che, da oscuro ragioniere di un ufficio sul porto, in due anni divenne dapprima consigliere di amministrazione e poi amministratore delegato della società, con apparente ampio merito, con la fiducia di tutti e con partecipazione agli utili, che, nel frattempo erano saliti alle stelle.
Il boom economico era alle porte e le fu facile procurare, con i suoi potenti mezzi economici, clienti e lavoro alla sua società.
Lui cambiò casa, diede alla sua famiglia tutto ciò che potesse esserle necessario, il meglio ma non il superfluo, giacchè in lui agiva sempre l’uomo corretto e modesto di un tempo.
Dopo qualche anno, su istruzioni di lei, la fiduciaria ebbe a disfarsi delle azioni in suo possesso e le vendette nel momento apparentemente meno indicato, al prezzo migliore per l’acquirente: lui le acquistò tutte divenendo così padrone dell’intera partecipazione e della sua esistenza.
Lo aiutò in mille altri modi, sempre nell’ombra, senza mai che lui sospettasse; gli diede una vita piena di fortune e, quindi, di tranquillità, che lui visse con la famiglia, col dolce ricordo lontano di lei, che l’aveva abbandonato senza una parola, di ciò che avrebbe potuto essere e che non è stato.
Ed ora lo rivedeva lì, ora che non aveva più bisogno di alcun aiuto e riconosceva ancora nei suoi tratti, anche se sdraiato, quelli dell’uomo della sua vita, ora che non c’era più in lui la vita del suo uomo.
Non pianse di fronte a lui e, prima della fine della cerimonia, sistemandosi il foulard sui capelli grigi e curati, uscì dalla chiesa e salì sulla sua auto dove l’autista attendeva paziente.
Tornò a Nizza, versando finalmente tutte le lacrime che da sempre tratteneva e che non poteva piangere per nessun altro e pianse fino a che l’autista le aprì lo sportello davanti alla sua casa di fronte al mare e le porse per la prima volta il braccio: il suo passo era stato sempre, fino ad oggi, sicuro, ma oggi non lo era.
Le ritirò la posta, la accompagnò fino in casa e sparì, lasciando la posta sul mobile dell’ingresso.
Lei guardò distrattamente sul mobile ma la colpì una busta del tutto diversa dalle altre, chiusa con ceralacca su cui era impresso il sigillo di un notaio di Genova. Ruppe il sigillo e trasse dalla busta un foglio pesante piegato con lo scritto all’interno; conteneva un testamento che diceva solo così:
“Riconosco, quale mio figlio, Enrico,
nato a Mustair nel 1953,
attualmente dipendente della
Fiduciaria di Zurigo.
Lascio alla mia Angela,
custode di tutta la mia vita,
la gioia di ritrovarlo.
L’uomo della sua vita.”
Filippo Brighina Nato nel cuore della Sicilia, ne partii poco prima dell’età della coppola e mi trovai a compiere tutti gli studi a Gallarate, seguiti dall’Università (Cattolica), facoltà di giurisprudenza, perchè provate Voi a fare diversamente con un padre notaio.
Terzo di quattro figli, con tre sorelle, ho vissuto, imparato, sbagliato, in un piccolo centro di provincia; mal maritato ed infine separato, ma con due splendide figlie di 28 e 25 anni, tra le altre cose, amo Francesca, il tennis e la musica, quella suonata da me.
Ma sempre musica triste, perchè, se sono allegro, esco!
Qualche anno fa ho scoperto, quasi per gioco, di saper cosa fare con una tastiera (che non fosse quella del pianoforte) ed un’idea di partenza in mente ed eccomi qui a provare a scrivere piccole storie.
Non è facile trovare un “fil rouge” che leghi dei brevi racconti, nati in ordine molto sparso e che li possa rappresentare nell’insieme, ma forse la prima cosa che al lettore potrà risultare chiara e che il finale, per me, deve stupire, disorientare, far ricominciare da capo per riconsiderare sotto un’altra visuale quello che si è appena letto.
Trovo più facile cominciare a scrivere un racconto, piuttosto che portarlo a compimento e forse il colpo di scena mi viene naturale, per poter dare una chiusura sconcertante, forse emozionante, sicuramente imprevista.
Così come spesso succede nelle nostre vite, almeno in quelle più interessanti.
Perciò il cappello dei miei scritti potrebbe essere: “Non è mai come sembra”, così come io spero di essere diverso da quel che appaia.