
Mentre rientrava a casa in tram, con il viso rivolto al finestrino, Elena Ballarin scorse una famiglia intenta a scaricare i bagagli dall’auto. Dovevano essere tornati dalle vacanze estive e sembravano felici a giudicare dall’espressione rilassata dei volti. Era da questi particolari che si notava il grado di affinità di una coppia. Di certo non erano ancora entrati nella fase di apatia a cui seguiva quella di ostilità. In quel preciso momento provò una sensazione di grande malinconia, pensando alla sua di famiglia, che ormai non c’era più.
Non sapeva se a mancarle davvero fosse il suo vecchio ménage quotidiano o l’illusione della sicurezza. E poi, sicurezza, per difendersi da cosa e da chi? Quali oscure entità minavano alla sua vita, Elena Ballarin non sapeva dirlo. Le persone si costruivano prigioni perché temevano la solitudine. Più che altro, pensava, le mancava l’idea di ciò che erano stati. Trovare la luce accesa al rientro la sera e allungare i piedi freddi nel letto in direzione di Giacomo. C’era stato un tempo in cui amava addormentarsi contro la sua schiena. Si sentiva felice e protetta e lo era ancor di più sapendo che la piccola Sophie dormiva beata nella stanza accanto. La cameretta dalle pareti verde acqua che aveva dipinto con tanto amore e decorato negli anni con ninnoli e fotografie dei loro momenti felici. Quello era stato per tanti anni il loro mondo. Poi le cose erano cambiate. Piano piano, giorno dopo giorno, erano diventati sempre più distanti o, come era solita autodefinirsi lei, semplici gestori della casa. Giacomo era un bravo compagno, ma col tempo aveva smesso di essere il suo uomo. Si erano conosciuti ventenni alla facoltà di lettere e da allora non si erano più lasciati. Lei gli voleva un gran bene, ma non riusciva più ad accoglierlo nel suo corpo. Si era resa conto che non era sufficiente essersi amati moltissimo da ragazzi per far funzionare un matrimonio. Ci volevano gratificazioni. Complicità. Risate. Ecco, lei e Giacomo avevano smesso da un pezzo di divertirsi insieme, come se l’esser diventati marito e moglie prima e genitori poi li avesse privati di quella primordiale e a lei necessaria lievità. Si era aperta una sottile crepa fra loro che non si sarebbe più rimarginata. Al principio non badò alla cosa, sapeva che succedeva a tutte le coppie di lungo corso, poi, però, iniziò a rifletterci. Non poteva fare come se niente fosse e mettere la testa sotto la sabbia. Non era questo il modo per riportare verve al loro rapporto ormai logoro. Cercava di fare luce dentro di sé, ma era da tempo ormai che non riusciva a darsi pace. Lui forse non se ne era accorto nemmeno oppure gli stava bene così, comodo nel suo bozzolo. Del resto era sempre stato un tipo tranquillo. E poi c’erano quei gesti che la infastidivano profondamente. Come quando parlava con la bocca piena sapendo che a lei non piaceva. Senza parlare delle sue piccole manie. Controllare più volte le mandate di casa, chiamarla tutti i giorni alla stessa ora per sapere se doveva passare al supermercato, anche quando lei aveva già fatto la spesa. Giacomo era un uomo mite ed abitudinario, in ogni ambito. Elena l’esatto contrario: passionale e dotata di grande immaginazione.
Subito dopo l’università aveva iniziato a collaborare per una rivista di cinema indipendente per poi approdare a una nota testata nazionale. Giornalista brillante ed appassionata si era battuta da sempre per i diritti delle donne. E fra questi la libertà di scelta era in cima alla sua lista. Ostinata al punto da sembrare insistente quando credeva in qualcosa, come quando era andata dal Magnifico Rettore dell’Università Statale per denunciare le molestie di un illustre professore. Non aveva paura di metterci la faccia lei. Non avrebbe potuto tacere la corruzione che dilagava nei corridoi di un nota clinica privata milanese facendone trapelare nomi e cognomi. Aveva ricevuto minacce anonime, ma non si era arresa. Nella sua carriera aveva firmato pezzi che contestavano la disparità di genere, il razzismo, l’omofobia. Sua madre se la ricordava così anche da bambina. Anarchica e cocciuta, ma coscienziosa. Aveva messo sempre il cuore in ciò che faceva. Lui se ne era innamorato all’istante durante una manifestazione universitaria. Ne aveva colto immediatamente l’impeto e l’audacia. Era rimasto folgorato dalla sua forza vitale. Giacomo, dal canto suo, aveva personalità, pur essendo riservato. Era uno di quelli che si fanno notare anche stando in silenzio. La chiamano aura. Piaceva alle ragazze proprio per questo. La passione per le lettere li aveva uniti. E lei aveva trovato in lui una tenerezza che la rassicurava. L’aveva sentito famigliare, sin dal loro primo incontro. Si era fidata subito di lui. Quelle cose a pelle che non puoi spiegare. Un amore di ragazzo, l’aveva definito nonna Maria. Erano passati tanti anni da allora, da quando lo aveva portato per la prima volta a casa, nella tenuta agricola dei suoi genitori, alle porte di Verona, dove producevano ottimo Soave e Valpolicella Doc. Elena Ballarin, però, era diversa dalle donne della sua famiglia. Non era devota come sua madre, figuriamoci come sua nonna. Lei non aveva desiderato altri figli dopo Sophie, nonostante le pressioni di marito e suocera. Una signorona di Monza che viveva per la casa e i figli, a detta sua. “Un figlio solo è troppo poco!” le ripeteva mentre spadellava in cucina, non era tipa da starsene con le mani in mano, la signora Lucia. “Quando non ci sarete più resterà sola e non c’è niente di peggio al mondo della solitudine cara mia!” Ed Elena “Oh, ma ci sono sempre gli amici…” amava scherzarci su. “Eh, gli amici ti abbandonano nel momento del bisogno!” ribatteva implacabile la suocera con quel suo modo tutto particolare di gesticolare. Quelle parole erano l’introduzione al pranzo domenicale che si svolgeva ad una tavola imbandita nell’accogliente sala di pranzo dei genitori di Giacomo, alla presenza del fratello Simone con la moglie Giovanna e i loro due bambini modello. “Guarda Giovanna com’è felice coi suoi due bei maschietti! Un po’ di sacrifici all’inizio, ma poi vivi di rendita…” Al che Giovanna annuiva, elencando pregi e difetti dell’avere due figli in un tempo molto ravvicinato. Elena la ascoltava per educazione, ma trovava del tutto fuori luogo tali considerazioni, dal momento che concepiva la maternità come una vocazione più che un dovere. Si sentiva prima di tutto una donna e una giornalista. Ai bambini non ci aveva mai pensato, anche se a volte le piaceva l’idea di crescere una creaturina sua, con gli occhi di Giacomo e le sue fossette. Pensava che un figlio fosse più di un corpicino da nutrire e lavare, ma un cuoricino di cui prendersi cura emotivamente. Richiedeva tempo e attenzioni. Ci volevano desiderio e passione, anche per essere madre. Soprattutto per essere madre.
Quando nacque Sophie fu molto felice della maternità, ma non nascose mai la fatica dei primi mesi. La piccola le aveva insegnato la pazienza e la tolleranza. Nessuno, nemmeno sua madre, le aveva detto prima di allora che da quel momento quell’esserino avrebbe dipeso de lei almeno per i futuri vent’anni. Sophie non dormiva la notte ed Elena la cullava da una stanza all’altra del loro appartamento, finché crollava esausta. Sua madre non l’aveva mai potuta aiutare abitando in Veneto. Era venuta alla sua nascita, ma aveva portato così tanto scompiglio, come del resto era solita fare, che preferì cavarsela da sola. Grazie al cielo, anche Monza era a una distanza di sicurezza tale da sollevarla dal peso di avere la suocera in casa quotidianamente. Le visite comandate avevano luogo la domenica mezzogiorno, il che era accettabile. Quando varcava la soglia dell’appartamento materno, Giacomo tornava ad essere un bambino, nel senso meno nobile del termine. Sua madre lo sbaciucchiava prima ancora di dare il benvenuto ad Elena, cosa che funzionava esattamente al contrario da lei a Verona. Poi era la volta della piccola Sophie, sollevata dalle braccia corpulente della nonna che, osservando il figlio con orgoglio, diceva: “Guardala come ha preso tutta da te!” Ma quando Sophie, crescendo, divenne incline alle monellerie, si domandava a chi dei due somigliasse, dal momento che i suoi figli erano stati due così bravi bambini! Quel temperamento turbolento doveva averlo certamente ereditato dalla famiglia Ballarin. Appena saputo quel che era successo fra lei e Giacomo però, Lucia Bonfanti era stata l’unica a non puntarle il dito. Questo se lo ricordava bene. Così Elena aveva rivalutato quella donna dallo spirito pratico e dalla parlantina veloce. Aveva cercato di spiegarle, ma Lucia l’aveva zittita, ancora una volta, prendendole le mani fra le sue. “Non dirmi niente gioia, per me nulla è irreparabile. Può succedere. Pensate alla bambina e non buttate via tutto”. Questo le aveva detto con gli occhi lucidi. In quel momento Elena le aveva voluto sinceramente bene.
Giacomo avrebbe anche potuto perdonare il tradimento e lei lo sapeva, ma ciò che non riusciva ad accettare era stato il dopo, quando ci era ricascata e aveva scoperto che continuava a ingannarlo. Un brivido gelido le passò dietro la schiena scendendo all’altezza del piccolo seminterrato che era divenuto la sua nuova casa. Quello di cui si rendeva conto, alla luce dei fatti, era di essere piombata in una profonda miseria personale per cui provava addirittura imbarazzo. Oltre ad essere moralmente depressa doveva affrontare i problemi economici. Non sapeva se le avrebbero rinnovato il contratto al giornale ed il suo blog era ormai scaduto. Si sentiva svuotata e più tentava di non pensarci, più finiva col cercarlo nella sua mente. Chiudeva gli occhi e ricordava certi attimi. Una sera, usciti dalla redazione, erano andati a bere una birra e lei aveva vuotato il sacco. Diego se ne approfittò. Elena non aveva mai tradito il marito prima, ma il ragazzo era piombato nella sua vita come un fulmine a ciel sereno con la vitalità ed il vigore dei suoi trent’anni. Ecco, ora si rendeva conto di questa verità. L’amore con Giacomo era semplicemente finito. In quel momento lei aveva bisogno di emozioni forti e Diego gliele aveva date. Era più semplice di quanto si pensasse la cosa. Che cos’era l’amore lei non lo sapeva dire, ma forse, pensandoci bene, aveva a che fare col rinascere. Sentirsi di nuovo vivi.
Diego che arrivava affamato di lei la mattina, Diego che sapeva farla ridere. L’intesa con lui era stata immediata . Si era sentita donna dopo anni di svogliata routine. Si erano desiderati a lungo prima di lasciarsi andare e questo aveva reso il tutto più eccitante. Non riusciva a stargli lontano, bastava sentirne la scia di profumo quando le passava accanto per desiderarlo. Sognava le sue mani dappertutto, aveva sempre una gran voglia di fare l’amore con lui. Confidente, amico e meraviglioso amante. Si era innamorata del ragazzo come ci si innamora sempre, all’improvviso. Un giorno era tornata a casa particolarmente felice e Giacomo l’aveva notato, ma non ci aveva dato troppo peso. Per una legge fisica di attrazione quando siamo felici diventiamo più belli.
Anche gli uomini la osservavano lungo la strada, la camminata stanca aveva ceduto il passo a un incedere diverso. Persino il portinaio della redazione notò la trasformazione e una mattina, al suo passaggio, si lasciò sfuggire un commento con il Cavalier Maggioni. “Quic’è senz’altro di mezzo un uomo”, disse, strizzando l’occhio.
La sala convegni del giornale, al quinto piano della redazione, diventò il loro pied-à-terre. Elena ne aveva le chiavi, essendo la responsabile della sicurezza. Si incontravano quando era possibile e ogni volta si pregustava il momento. Parlavano tanto, specialmente all’inizio. A volte andavano a casa di lui, un accogliente monolocale in Viale Tunisia dove giocavano a letto ascoltando musica trap. Che attimi liberatori aveva vissuto! Si era sentita di nuovo giovane e libera, con la spensieratezza dei suoi vent’anni. Non avvertiva i quattordici anni di differenza, era ancora molto bella e Diego la faceva sentire meravigliosa . Fu una passione travolgente, finché un giorno si dimenticò la brutta copia di una lettera indirizzata a lui nella borsa e Giacomo scoprì il tradimento. Si dice che lasciamo tracce per essere scoperti. Forse Elena aveva inconsciamente cercato il modo di venire a galla.
Giacomo reagì male minacciando di prendersela col ragazzo qualora non avesse troncato immediatamente la relazione. Lei cercò di calmarlo, gli giurò che avrebbe smesso, che era stata una pazzia, ma sapete com’è in questi casi: al cuor non si comanda. Inutile tentare di ricucire invano, quando un vaso è rotto si aggiusta, ma nei sentimenti amorosi non è proprio così che funziona. Una volta compiuto il cerchio niente torna più come prima. Resta l’amaro in bocca a chi ha subito. Il senso di colpa a chi se ne è andato, insieme al giudizio impietoso della gente. Bisognerebbe prenderne atto ed avere il coraggio di guardare avanti, ma Giacomo non poteva accettare di perdere tutto per un ragazzino e fece in modo di trovare una cura per il loro vaso rotto.
Al secondo piano di un austero palazzo Liberty, in zona Cordusio, li accoglieva ogni martedì sera la Dottoressa Brancati. Era una bella donna di mezz’età che aspirava a sembrare più giovane, con grossi seni rifatti, messi in bella mostra da generose scollature e un viso ritoccato che appariva del tutto inespressivo. Chissà da quali dilemmi era attanagliata per occuparsi dei problemi sessuali altrui, pensò Elena quando la vide per la prima volta. Ebbe l’impressione che tutto fosse una farsa. La donna fece loro domande intime e diede loro anche compiti da svolgere a casa.
Elena trovò del tutto inutile questa storia della terapia di coppia. Le pareva una pagliacciata. Niente e nessuno avrebbe potuto risvegliare un ardore che si era lentamente assopito negli anni. Le persone non accettavano la fine delle cose, ma questo faceva parte dell’inesorabilità della vita. La lotta contro il tempo della dottoressa Brancati ne era una triste testimonianza. In capo a un mese non ci volle più andare e cercò di convincere il marito che avrebbero ricominciato daccapo, senza l’aiuto di terzi.
Ce la mise tutta per toglierselo dalla testa, soprattutto per il bene della piccola Sophie, ma Diego non si arrese.
Il ragazzo non si dava per vinto, anzi più la donna lo respingeva, più provava piacere nel cercarla. La resistenza andò avanti per poco, finché un giorno lui la bloccò in ascensore e la prese con tutto lo slancio che aveva. Le disse che sarebbero stati attenti, che mai avrebbe potuto rinunciare a lei. Iniziarono altre bugie. Corse a casa sua, pranzi saltati e tanta impazienza. Impazienza che il week-end passasse alla svelta per tornare in ufficio il lunedì mattina. Dispiacere di non potergli fare una telefonata serale, oppure doversi nascondere in bagno per mandare un messaggio e cancellare subito dopo la chat. Ma anche il timore che Diego potesse stancarsi di lei e lasciarla per una ragazza più giovane e appetibile. Nei giorni bui, quando era costretta alla convivenza forzata, restava a casa in tuta e nel vedersi allo specchio si trovava di colpo vecchia e sciatta, poi però le bastava un cenno del suo giovane amante per sentirsi di nuovo desiderabile. Allora non badava a spese per abiti succinti e nuove nuance per il trucco, si era anche regalata un taglio alla moda e così, parola di Diego, sembrava proprio una ragazzina. Però la stanchezza incombeva su di lei. La tensione per tenere in piedi tutta la sua fragile impalcatura l’assaliva nei momenti più inaspettati sotto forma di tachicardia. Non c’era niente da fare: Elena Ballarin era tutto fuorché una brava equilibrista o, come diceva la sua amica Gaia, non era semplicemente tagliata per il tradimento. C’erano donne nate per farlo, ma non lei. Le dispiaceva mentire a Giacomo e si sentiva terribilmente in colpa. A volte era così stanca da non riuscire a godersi i momenti con il suo giovane amante. In capo a un anno non ce la faceva più a stare dietro a tutto. Il giornale, Sophie, Diego, la casa, Giacomo che ora le chiedeva più attenzioni. Diego la voleva sempre e nei posti più disparati. Arrivava a sera esausta. Di idee per il blog ormai non ne aveva più. Perdeva colpi. Si dimenticava le cose oppure rispondeva male a Sophie per un nonnulla. Subito dopo se ne pentiva e correva ad abbracciarla. Era irrequieta. Da qualche tempo poi, avvertiva una strana sensazione, come se Diego si fosse allontanato.
Non le scriveva più, i caffè al bar si erano diradati e subito dopo l’amore, senza più baci, né preliminari, si rivestiva in fretta. Sensazioni. Elena lo aveva favorito non poco nel lavoro e spesso i colleghi le lanciavano frecciatine.
Andò così. Qualcuno fece la spia e Giacomo non riuscì a perdonarla per la seconda volta. Fu una tragedia. Il marito intentò una causa di separazione giudiziale per colpa a fronte della flagranza di reato chiedendo l’affidamento della bambina e l’assegnazione della casa coniugale oltre al cospicuo pagamento di tutte le spese legali. Sophie avrebbe vissuto prevalentemente col padre nel loro appartamento di Porta Venezia, andando due weekend al mese a casa della mamma. Elena avrebbe potuto vederla anche un giorno infrasettimanale da designare in accordo col padre. Ma quel che era peggio, Sophie ora non voleva parlarle. Il padre non le aveva risparmiato la verità. Per punire la moglie aveva ferito a morte la bambina.
Al quinto piano della redazione lei e Diego erano stati ripresi da una microtelecamera di sorveglianza ed ora lei rischiava il posto oltre che la faccia. Le pareva di sentire i commenti sprezzanti della gente anche sul tram, forse le sue colleghe maligne avevano capito fin dall’inizio di che pasta era fatto Diego. Infide sì, ma più astute e sagge di lei. Che ingenua era stata a fidarsi del ragazzo! A che cosa le erano serviti i moniti di sua nonna? Non le aveva sempre detto di stare in guardia chel’uomo ècacciatore? Se la ricordava bene la storia del paròn che aveva messo incinta la giovane governante. Quel racconto aveva segnato la sua educazione sentimentale portandola a dividere i maschi in due categorie: i buoni e i cattivi. Era forse per questo che aveva scelto Giacomo? Si era forse sentita intimamente rassicurata dalla sua prevedibilità? E poi le venne in mente sua madre, lei sì che era stata una moglie devota, sposata per quarantasette anni alla buonanima di suo padre. Lei, invece, non aveva saputo rinunciare al suo desiderio, non era questione di sesso, centrava il cuore. In Diego Elena aveva trovato una parte di sé, era stato come guardarsi allo specchio. Aveva ritrovato quella ragazza alla ricerca della verità. Non sono cose che si scelgono, accadono. Chi poteva capirla? Di certo non sua madre. Chissà come l’avrebbero biasimata alle cantine.
Questo e molto altro le balenava per la testa nella triste luce del suo nuovo domicilio. Le avevano fatto un prezzo di favore essendo amica di amici del proprietario. Le scure porte in formica ne incupivano l’ambiente e la tela cerata sul tavolo, a motivi floreali anni settanta, le ricordava le pacchianerie delle case modeste in cui aveva alloggiato ai tempi del suo arrivo a Milano. Un’accozzaglia di stili e oggetti buttati lì a caso. Non si sarebbe abituata a vivere senza Sophie. Ora, molto lucidamente, riusciva a vedersi in tutta la sua miserabile disperazione. Come se potesse osservarsi dal di fuori: vedeva una donna distrutta e umiliata. Le corse estenuanti degli ultimi mesi l’avevano consumata non solo nello spirito, ma anche nel fisico già asciutto, ora visibilmente sciupato. Carola Bonomi, sua acerrima nemica al giornale, non le aveva risparmiato l’umiliazione quando era uscita a testa bassa dall’ufficio del direttore. Aspettava il momento da anni. Il giudizio degli altri l’avrebbe anche potuto accettare, ma la vigliaccheria di Diego, quella no. Le pungeva come una spina nel fianco. A volte da toglierle il fiato. In quello stato non poteva scrivere e nemmeno pensare. Nel seminterrato buio in cui aveva trovato asilo provvisorio le pareva di essere stata calata in castigo negli inferi. Eccola, spettatrice impotente della sua caduta libera.
Diego non solo non le era stato vicino, non ci aveva neanche provato, ma era scappato a gambe levate dopo averne tratto il suo personale tornaconto. Mesi prima lo aveva presentato lei stessa alla direttrice di una nota rivista di moda, che ora gli aveva offerto un’ottima opportunità, oltre che un posto nel suo letto. A pensarci, provava una gran rabbia e delusione. Rabbia verso sé stessa per non essersi saputa fermare in tempo. Per avergli permesso di umiliarla fino a quel punto. In quell’attimo, raggomitolata sul divano, ricordava particolari rivelatori. Non aveva saputo o voluto coglierli. Siamo così ciechi quando ci abbandoniamo alle passioni, pensò. Si versò delle gocce in un bicchiere e bevve d’un fiato. Non le restava che buttarsi a letto e dormire. Solo di questo aveva voglia.
Ci sarebbe voluto tempo per ricominciare. L’estate volgeva ormai al termine. Presto sarebbero arrivate le foglie d’autunno.
(Racconto tratto dalla raccolta “Attraversando il Confine” di Natascia Sgarbossa, Compagnia della Rocca Edizioni, luglio 2021).
Pubblichiamo il racconto grazie all’autorizzazione dell’editore, che ringraziamo.
L’autrice: Natascia Sgarbossa vive ad Arona (No), dove lavora come segretaria nella piccola azienda di famiglia che opera nel settore plastico dell’indotto automobilistico. È mamma di Vittoria, 12 anni, e coltiva la passione di scrivere da sempre. Questa è la prima pubblicazione. Si tratta di storie di vita contemporanea fatte di sentimenti, scelte, rivelazioni e decisioni. Vicende di uomini e donne di questa nostra epoca che porta con sé difficoltà e prospettive. I suoi studi linguisitici l’hanno portata a viaggiare molto e a vivere a Londra e a Milano oltre che in altre città europee per brevi periodi.