
Il 28 ottobre di quest’anno è uscito per le Edizioni Il Ciliegio il nuovo romanzo di Andrea Gualchierotti, I principi del mare. Andrea Gualchierotti è un autentico appassionato del fantastico, e in particolare della narrativa sword and sorcery: basti pensare che la bella illustrazione di copertina realizzata da Iacopo Donati si ispira a un numero della mitica rivista Weird Tales (novembre 1932) in cui viene raffigurato uno scontro simile con un mostro marino. Ma di cosa parla I principi del mare? Siamo sul finire dell’Età del Bronzo, anni dopo la caduta di Troia, in un periodo in cui la «generazione famosa degli eroi» è ormai pressoché tramontata. Dopo il suo lungo peregrinare, finalmente Ulisse è tornato a casa, a Itaca, dove ha fatto strage dei Proci, i pretendenti al trono e alla mano di sua moglie Penelope. Tra di essi viene ucciso Anfinomo, il fratello di Alkas. Alkas, il protagonista del romanzo, è principe di Dulichia, un’isola vicino a Itaca citata nel canto XIV dell’Odissea. La situazione diventa pericolosa per Alkas, e suo padre, re Niso, lo convince a fare vela verso l’Epiro, presso la corte di Cheleo e di sua moglie Calliroe, ma questo è solo l’inizio delle sue avventure… Chi lo leggerà troverà il romanzo avvincente e ricco di avventura, e noterà la presenza di un lessico attento al contesto storico (con termini come megaron, wanax, aristoi) e ricercato, che non di rado adotta anche arcaismi come lucore, aduggiato, favella e icore. Si tratta di una lettura consigliata a tutti gli amanti della mitologia classica e dello sword and sorcery.
Benvenuto Andrea su Liberidiscrivere! Grazie per aver accettato questa intervista. Dal romanzo traspare tutta la tua passione per l’antichità. Quanto è importante il lavoro di documentazione per un fantasy ma pur sempre di chiara impronta mitologica?
La risposta è semplice: molto. I miti sono materia complessa, e come spunto narrativo li vediamo spesso fin troppo banalizzati, usati e travisati per vestire storie e idee moderne, con cui hanno poco a che fare. Per chi non legge fra le righe: sì, mi riferisco ai cosiddetti “retelling” di biografie mitiche, con personaggi le cui psicologie vengono appiattite al nostro presente. Invece, nel mito, c’è ben altro. La forza dei simboli, dei grandi archetipi. Il fascino esotico di luoghi e situazioni perdute. I culti pittoreschi e intriganti. Leggendo gli antichi autori, da Apuleio a Omero, questi tesori sono a portata di mano, per chi sa cercarli. Infiniti spunti per trame, scenari e non solo che aspettano unicamente di trovare nuova vita.
Il tuo romanzo è un esempio di fantasy mediterraneo. Potresti chiarirci meglio qual è la definizione di “fantasy mediterraneo” e fornirci qualche altro esempio di questo sottogenere? Non si tratta dell’ennesimo sottogenere, o dell’ultimissima etichetta, di cui non c’è bisogno. Il termine racchiude semplicemente tutte quelle storie che ruotano intorno a scenari dal sapore appunto mediterraneo: l’antico Egitto, la Grecia dei miti, Roma antica, gran parte del Medio Oriente, ma non solo. E che da queste terre e dalle loro culture – ricchissime – traggono spunto. Che bisogno c’è di andare a cercare la millesima saga nordica, il solito reame medievale simil inglese, quando la nostra tradizione ci offre un panorama ben più vasto e intrigante di leggende, vicende storiche cui ispirarsi, mitologie, credenze fantastiche? Abbiamo gli intrighi degli imperatori bizantini, le creature mostruose delle Alpi, le antiche rovine megalitiche Malta e le città perdute nel deserto siriano…potremmo non finire mai! Per inciso, poi, moltissimi dei grandi autori del Fantastico, paradossalmente anglosassoni, fin dalle origini hanno tratto spunto da questi contesti. Il Gotico sceglie l’Italia per le sue storie di misteri e spettri. Il ciclo di Conan di Robert E. Howard trabocca di suggestioni tratte dal mondo classico. De Camp ha scritto il ciclo Pusadiano cui appartiene l’Anello del Tritone. Gemmell ha creato la saga dei Parmenion. Citerei poi, qui in Italia, la serie dei volumi dedicati alla Legione Occulta di Roberto Genovesi, o la duologia di Franco Forte sulle avventure segrete di Giulio Cesare. E questi sono solo alcuni esempi. Insomma, oltre a vichingi e compagnia, c’è molto di più.
Quali sono gli scrittori che più ti hanno influenzato?
Il trittico sacro è formato da H.P.Lovecraft, Robert. E. Howard, Clark A. Smith. Ma non posso non citare anche H.R.Haggard, Lin Carter e…no, cominciano a diventare troppi!
A proposito di Lovecraft… Un culto ctonio legato a un «ignoto dio», esseri «inumani», visioni capaci di condurre l’uomo «in una pazzia eterna che persino le ombre temono», un «orrore abissale» evocato dalla magia nera… nel tuo romanzo sono presenti molti echi lovecraftiani. Confermi?
Sì, almeno in parte ho cercato di trasfondere alcune influenze che provengono dall’estetica lovecraftiana, ma si tratta di una veste esteriore, con cui comunico al lettore – tramite un linguaggio divenuto ormai quasi pop, quello degli “orrori indicibili” – qualcosa che in realtà attiene alle concezioni religiose antiche. Lovecraft inventa nuovi dèi alieni perché quelli tradizionali, con i loro inferni, ritiene non possano più fare paura agli uomini moderni. Ma i protagonisti del mio libro vivono ancora in un mondo primevo, dove la Natura, la presenza del Divino, e l’esperienza del soprannaturale, sono terribili e destabilizzanti a pieno titolo, anche senza dover supporre un cosmo privo di senso in termini lovecraftiani. I mari immensi, le foreste bisbiglianti, le divinità altere e lontane di un mondo ancora in parte inesplorato come quello dell’età del bronzo, erano ancora fonte di orrore e timor sacro, quello che fa sciogliere per i brividi le ossa e i muscoli. Per rendere queste sensazioni vivide e fruibili al lettore in maniera più avvincente, ho attinto a mio modo al linguaggio di Lovecraft (e non solo). Insomma, ricetta antica, veste “nuova”.
Come è nata la tua passione per lo sword and sorcery?
In maniera molto naturale: da ragazzino già amavo il fantasy in senso lato, tra librogame e altro, e scoprendo in edicola e in libreria le edizioni economiche targate NewtonCompton di molti classici, mi sono avviato alla scoperta di parecchi autori. Ho visto subito che coincidevano con il mio gusto: storie piene di magia, a volte anche macabre, ricolme di avventure in terre perdute…esattamente quel che mi piace leggere ancora oggi!
Il personaggio di Ulisse, mosso da sete di avventura e segnato dall’«empietà», mi è sembrato più vicino alla visione che ne aveva Dante che a quella di Omero. È interessante anche la scelta di mantenere il nome latino dell’eroe, rispetto a tutti gli altri personaggi che hanno invece nomi greci.
Partendo dalla fine: ho scelto di utilizzare la versione latina del nome di Odisseo in quanto più familiare ai lettori, che in molti casi non sanno che “Ulisse” è una traduzione, per quanto antica. Quanto al personaggio vero e proprio, diciamo che sapevo di doverne costruire una mia versione personale. Maneggiare simili icone è rischioso, molto. Troppi l’hanno fatto, e molti sicuramente meglio di me. Ecco quindi che il mio Ulisse non è né quello di Omero, né quello dantesco. Del primo prende l’empietà, il suo essere inviso agli dèi. E non perché – come si potrebbe pensare – con una curiosità che tanto piace a noi moderni voglia esplorare luoghi sconosciuti (attitudine che pure ha, ma che come rilevi è posteriore all’originale mitico, e che l’eredità dantesca accentua). Ma perché, come nei veri poemi e anche nel mio romanzo, è spesso violento, commette azioni riprovevoli di cui magari in seguito si pente, ma che continuano nondimeno a generare conseguenze. Dall’uccisione di Anfinomo, il procio “buono” la cui morte innesca la trama de “I Principi…”, ai fatti legati al personaggio di Philèmone. Il mio Ulisse, insomma, è quasi un villain.
Possiamo dire che nel tuo romanzo, al pari del poemi antichi, il vero motore dell’azione è il Fato, che tu descrivi come un «destino incomprensibile, ignoto persino agli dei»?
Credo di sì. E’ qualcosa che ho già sperimentato in parte ne il mio precedente “La stirpe di Herakles”, che pure con intenti diversi, condivide qualcosa dello spirito del nuovo romanzo. Il destino è un ottimo combustibile drammatico. Maggiormente i personaggi lotteranno per evitarlo, più lo favoriranno, rendendosi protagonisti di vicende interessanti. Che il fato esista o meno, ciò che conta è la percezione di sentirsene avviluppati. Essendo uomini del mondo antico, ai miei protagonisti viene naturale immaginare che sia così, e che anche gli dèi si agitino, come loro, in una gabbia da cui non possono fuggire, sebbene sia più grande e comoda. Il cosmo è una ragnatela, il fato un aracnide instancabile che divora i desideri degli uomini, assecondandoli talvolta solo per scopi che non sanno. Non c’è uscita dalla trappola, il titanismo è un trastullo: la condizione umana, anche per gli eroi, è fatta di scelte quasi obbligate.
Senza anticipare nulla, il finale lascia aperta la possibilità di un seguito. Hai in previsione di scrivere ulteriori volumi con protagonista Alkas?
Non credo. Sebbene non escluda – in futuro, ma non subito – di ambientare altre storie nel torbido tramonto del mondo miceneo, la visione del futuro di Alkas non va oltre l’ultima pagina del libro attuale. Il finale de “I principi…” mi soddisfa molto, e credo che aggiungere altro ne snaturerebbe il feeling. E’ bello che si concluda in un certo modo, e che lasci un margine di non detto su alcune cose. Palesarle, le sminuirebbe.
Andrea Gualchierotti (Roma, 1977) è autore dei romanzi di fantasy mediterraneo La stirpe di Herakles, I principi del mare e, assieme a Lorenzo Camerini, dei volumi Gli Eredi di Atlantide e Le guerre delle piramidi, tutti editi da Il Ciliegio. Ha pubblicato vari racconti a tema fantastico. È direttore editoriale della rivista Hyperborea (https://hyperborea.live/) e collabora con l’associazione culturale “Italian Sword & Sorcery”.
Source: si ringrazia l’autore per aver gentilmente inviato una copia del libro in formato pdf al recensore.
Tag: Andrea Gualchierotti, Emilio Patavini, I principi del mare, Il Ciliegio
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