Conobbi Mavis Gallant, letterariamente parlando, alcuni anni fa. Quasi per caso. Non era un nome molto conosciuto in Italia, o almeno io non sapevo quasi niente di quest’autrice canadese trasferitasi in Francia come Edith Wharton, un’altra autrice da me molto amata.
Leggendaria in patria, maestra del racconto breve con più di 100 racconti pubblicati sul New Yorker, quando anche pubblicarne uno fa di te un autore di tutto rispetto, Mavis Gallant era un nome che mi attirò per motivi bizzarri. Mi piaceva visivamente e mi piaceva il suono che si otteneva accostando Mavis a Gallant.
Ero in una libreria di Torino, poco distante da Piazza Castello e così presi un suo libro, di racconti naturalmente. E fu amore a prima vista. Passai un intero pomeriggio su al piazzale del Monte dei Cappuccini a leggere Varietà di esilio, e a pensare a come avrei fatto a intervistarla. Sarei andata fino a Parigi se fosse stato necessario.
Non ricordo se feci anche qualche reale tentativo di contatto, ma mi scoraggiò il fatto che fosse anziana e ormai malata. Non volevo distrurbarla. Tutto questo per dire che quando lessi che Livia Manera Sambuy aveva scritto un libro dove raccontava del suo incontro con Mavis Gallant, ho capito che quel libro non avrei dovuto perderlo.
Non scrivere di me non parla solo di Mavis Gallant, naturalmente, ci sono anche altri scrittori, ognuno a suo modo speciale, ma io lo scelsi per lei. E per un senso di rimpianto. Forse avrei dovuto davvero partire per Parigi, magari avrebbe trovato buffo che una blogger italiana facesse tanta strada per incontrarla, stregata dai suoi racconti.
Chissà, ora questo non potrà succedere più. Il 18 febbraio del 2014 l’ha reso irrimediabilmente impossibile. E non mi resta che vivere l’esperienza per interposta persona. Livia Manera Sambuy ha sicuramente fatto un buon lavoro, sicuramente migliore di quanto avrei potuto fare io, non si è fatta sopraffare dalle varie personalità con cui è entrata in contatto e con eleganza e leggerezza le ha spinte oltre i paletti che probabilmente si erano poste, con una giornalista, con il mondo intero.
E così Philip Roth, Richard Ford, David Foster Wallace, James Purdy, Mavis oltre a Paula Fox, Judith Thurman, Joseph Mitchell ci passano accanto. Alcuni nomi hanno catturato la fama in modo forse eccessivo, il mito di David Foster Wallace ormai è grantico come il marmo di una cattedrale, altri sono nomi che magari non ci dicono assolutamente niente, e leggendo le parole di Livia Manera Sambuy sembra un vero peccato.
Non scrivere di me ha un pregio che forse sovrasta gli altri, che sto riscontrando anche leggendo I venerdì da Enrico’s di Don Carpenter, ti fa sentire parte di una comunità, ristretta forse, ma coesa. Una comunità dove tutti si conoscono, come una piccola città di provincia, quando si è invece sparsi per i quattro angoli del mondo, come se la letteratura avesse anche questo potere, avvicinare persone tanto diverse, che infondo non devono neanche amarsi alla follia.
L’incontro più riuscito sicuramente quello con Philip Roth, il più triste con James Purdy, il più divertente con Richard Ford. Con David Foster Wallace si incontrarono in un Mcdonald’s sperduto in un autostrada tra Chicago e il nulla, lui non ne aveva nessuna voglia di essere lì e si chiedeva quanto importante fosse la Sambuy da far abbuonare al suo agente due favori che gli doveva pur di accettare quell’intervista, mentre lei gli spiega pazientemente che ad essere importante è il giornale per cui lavora.
Richard Ford racconta di quando sparò al libro di una scrittrice che aveva recensito in modo non tanto lusinghiero un suo libro e le mandò il libro con tanto di proiettile incastrato o della volta che sputò in faccia a un altro scrittore che sempre aveva recensito malevolmente un suo libro.
Philip Roth è più per l’autrice di uno scrittore incontrato per un’ intervista.
Paula Fox, la nonna naturale di Courtney Love, racconta di quando presentò un suo racconto a una rivista letteraria, il racconto non fu accettato, ma lei sposò chi aveva fatto la selezione.
E poi incidentalmente scorrono altri nomi, Carver, Karen Blixen, e dato che il mondo è piccolo John Banville (ancora mi deve un’ intervista) e molti altri. E in filigrana il lavoro di una giornalista culturale che intervista scrittori (DFW dice che al suo posto non lo farebbe mai), che li raggiunge in posti sperduti o al sicuro delle loro case e li invita a raccontare le loro vite, a parlare di libri, a svelarsi. Non un elenco classico di interviste con domande e risposte. Qualcosa di più. Un bel libro per chi ama libri e scrittori.
Livia Manera Sambuy è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera”. Ha realizzato due film documentari su Philip Roth. Ha vissuto tra Milano e New York, ora vive tra Parigi e la Toscana. Philip Roth. Una storia americana è stato pubblicato da Feltrinelli nella collana di dvd “Real Cinema” nel 2013. Ancora per Feltrinelli, Non scrivere di me (2015).
Source: libro inviato dall’editore, ringraziamo Chiara dell’Ufficio Stampa Feltrinelli.
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Info: disponibilità immediata solo un pezzo.
Tag: Feltrinelli, Giulietta Iannone, Livia Manera Sambuy, Non scrivere di me
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