:: Intervista a Megan Abbott a cura di Giulietta Iannone

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Da quanto scrivi?

In un modo o nell’altro da tutta una vita, ma ho semplicemente iniziato a scrivere narrativa con tutto il mio impegno quando ho finito la scuola di specializzazione.

Leggi altri scrittori contemporanei?

Oh, sì tutto il tempo. Sono una grande fan di Daniel Woodrell, William Kennedy, James Ellroy. Sono i miei maestri di stile.

Quale è il tuo primo lavoro scritto? Come sei arrivata alla pubblicazione?

Morire un po’” è stato il mio primo lavoro di narrativa che ho pubblicato. Stavo scrivendo la mia tesi di specializzazione sulla narrativa hardboiled e il cinema noir (che è diventata un libro intitolato “The street was mine”) e ho cominciato a scrivere “Morire un po’” come progetto parallelo. Sono stata ispirata da tutto quello che stavo leggendo e cercando per la mia ricerca. Questo libro è diventato il mio tentativo di esplorare il mondo di Raymond Chandler, un omaggio a bellissimi film come “Kiss me deadly” e “In a lonely place”.

Quando scrivi le tue trame prendi ispirazione da avvenimenti reali?

Sì, quasi sempre. Sono cresciuta leggendo crimini veri e questi hanno conservato per me un fascino duraturo. Mi piace scrivere su casi reali di vita perché ti danno una struttura, un’ architettura con cui iniziare. A volte con il mio secondo romanzo “The song is you”, o il mio quarto “Bury me deep” c’è un legame diretto con casi di vita vera. Con “Morire un po’” e il mio terzo libro “Queenpin” invece il legame è più sottile, meno diretto. Per quanto riguarda “Morire un po’” avevo letto di un caso contemporaneo di un uomo la cui moglie era stata coinvolta in un traffico di droga e che la protesse incapace di proteggere se stesso. Sembrava un esempio perfetto di un vero racconto noir.

Die a little” combina il glamour della Hollywood degli anni ’50 con i suoi lati più oscuri. La vita è sempre in bianco e nero?

Credo che la Los Angeles di quel periodo ponga in grande risalto il contrasto bianco e nero della vita. Hollywood e la pubblicità hanno colorato di fantasia la vita americana e nello stesso tempo ci hanno logorato con una sorta di isterica paura dell’altro, con la violenza sessuale e il crimine organizzato. Una delle idee principali di “Die a little” è che tutti portiamo dentro di noi sia le tenebre che la luce. E spesso i personaggi più moralmente onesti si rivelano i più pericolosi perché non sanno guardare le tenebre dentro di loro.

Ti piace Raymond Chandler? Ti ha influenzato?

E’ sicuramente chi mi ha influenzato di più. Ho letto tutto, sia i suoi libri che quanto riguarda lui, quando facevo le mie ricerche per “The street was mine”. Tutto ciò che ho scritto inizia con lui. Egli può evocare un mondo di fascino o un mondo semidistrutto con una singola frase.

Hai vinto l’Edgar Award nel 2008 per il miglior paperback. Raccontaci come è andata.

E’ stato molto emozionante. Non avrei mai pensato di fare l’esperienza di stare in piedi al podio in una stanza affollata con una statuetta in mano. Scrivere è così solitario, ti isola, così l’esperienza di andare all’Edgar e incontrare tutti i miei scrittori favoriti e idoli è stata meravigliosa anche se nello stesso tempo ero molto intimidita.

Sei stata definita da James Ellroy una narratrice superba e un’artista appassionata. Quanto ti ha influenzato?

Tremendamente. Ho iniziato a leggere Black Dalia alla scuola superiore, ed è stato per me una rivelazione. Ho letto tutti i suoi libri quasi come in un sogno. Il mondo che costruisce è così suggestivo così ricco che si desidera affondare le mani in esso. “The song is you” è un completo omaggio a lui.

I tuoi libri sono molto cinematografici. Te ne rendevi conto mentre li scrivevi?

In gran parte sì. I film mi hanno molto influenzato e immaginavo la scena di un film quando scrivevo. In “Die a little” c’è il cortile di un appartamento che figura in primo piano nel noir classico “In the lonely place” del 1950. Ho usato il bar da Roadhouse del 1948, il club del gioco d’azzardo da Gilda. Per Queenpin sono stata ispirata da momenti di Quei bravi ragazzi del 1990 e da the Grifters.

Die a little” sarà anche un film in cui Jessica Biel dovrebbe recitare la parte di Lora. Pensi sia adatta alla parte?

Non è ancora stata presa. Tengo le dita incrociate. Jessica Biel sembra che voglia recitare la parte di Alice Steel e scommetto che sarebbe meravigliosa.

Cosa pensi delle eroine femminili dei romanzi crime contemporanei? Sei femminista?

Sono femminista ma non ci penso così tanto quando sto leggendo o scrivendo. Io non scrivo da un punto di vista politico. Ma credo fortemente nel valore di portare più personaggi femminili grintosi nel mondo del romanzo poliziesco dove le donne vengono ancora relegate nel ruolo o di femme fatale o di vittima. La spogliarellista , la prostituta, la fidanzata del poliziotto. Ci sono tanti libri meravigliosi che rifiutano tali stereotipi come i romanzi di Theresa Schwegel, o i libri meravigliosi di Laura Lippman e le abbraccio.

Quando scopristi per la prima volta il noir?

Fin da bambina sono stata una grande appassionata di vecchi film e il mio primo amore sono stati i gangster film degli anni Trenta come Nemico Pubblico. Poi scoprii i noir. Questi film dipingevano un mondo così affascinante. Tutti gli estremi della vita – il desiderio, l’avidità, la vita scintillante. Il mondo di quei film era così diverso dalla vita di tutti i giorni, della periferia americana dove sono cresciuta.

Sei tentata di scrivere sceneggiature?

No, sin dal college. Si tratta di una forma di scrittura molto diversa che mi piacerebbe imparare, ma adesso sto occupandomi di romanzi.

Puoi dirci qualcosa del tuo ultimo libro?

E’ il mio primo romanzo poliziesco contemporaneo, ambientato nella periferia degli Stati Uniti. Narra di una ragazza che scompare e la storia è raccontata dal punto di vista del suo migliore amico di 13 anni. In un primo momento è stato molto difficile. Non sapevo se potevo adattare il mio stile che è così influenzato dalla narrativa noir e dai film. Poi ho avuto questa rivelazione che per le maggior parte delle ragazze di 13 anni la vita è noir. C’è tutto il sesso, il terrore, la nostalgia la confusione. Si intitola “The End of Everything”.

Raccontaci della tua routine quando scrivi.

Ho un lavoro così scrivo principalmente il venerdì, il sabato e la domenica. Comincio circa alle 8 della mattina. Mi piace curiosare on line i vecchi articoli scandalistici degli anni ’50, i vecchi crimini, le collezioni di foto. Mi perdo in essi e può facilmente accadere che ci metta anche quattro ore per produrre una pagina e di solito la scrivo anche di corsa perché mi sento in colpa per aver perso così tanto tempo.

Ti piace la trilogia di Millenium di Stieg Larsson?

Ho provato a leggere il primo libro ma non ha funzionato molto. Ci proverò ancora una volta perché ho tanti amici che me ne dicono un gran bene.

Quali consigli daresti ai giovani autori in cerca di editore?

Consiglio di continuare a provare. Ci può volere molto tempo, e i rifiuti sono una buona preparazione per tutte le delusioni future che avranno un giorno che saranno pubblicati. E’ un lavoro duro, difficile, e soprattutto per quelli di noi come me che capiscono così poco di business. Continuo a cercare di ottenere una pelle più spessa.

Conosci i libri di Giorgio Faletti?

No, ma da ora li cercherò.

Dicci qualcosa di “Bury me Deep”. E’ più dark dei tuoi precedenti?

Si intitola “Bury me Deep” ed è ambientato in una città del deserto in America nei primi anni ’30 alla fine dell’età del Jazz, l’inizio della Grande Depressione. Parla di Marion una giovane donna abbandonata dal marito che è andato in Messico per lavoro. Diventa amica di due ragazze-party che dipendono dalle attenzioni degli uomini sposati della città per sopravvivere. E’ una specie di serra del desiderio, della gelosia, della disperazione, del peccato. Tutto ha un esito violento e Marion deve cercare di venirne fuori. Per alcuni versi è più dark, c’è una scena di violenza scioccante, ma per altri lo trovo più simpatico. Mi sono ispirata al caso famoso degli anni ’30 di Winnie Ruth Judd. Un grande caso americano da tabloid. Era chiamata la tigre di velluto, il macellaio biondo. E’ stata una sensazione, uno di quei casi in cui più leggi e più la storia diventa complicata.

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2 Risposte to “:: Intervista a Megan Abbott a cura di Giulietta Iannone”

  1. chopy Says:

    Ah… mi son dimenticato… io prima di tutto sono un lettore, non molto accanito, ma sono un lettore.

  2. infinitisogni Says:

    Come pensavo… non si possono fare interviste se non si conosce il personaggio… Luca è stato un buon maestro in questo.
    E’ vero… nonostante io non sia per niente famoso, mi rendo conto che serve molta dedizione per farsi conoscere… E molta pelle spessa per accettare i rifiuti e riuscire ad andare avanti. Le porte chiuse devo farti capire che non tutto ti viene concesso, te lo devi guadagnare. Spero un giorno di poter scrivere per divertimento non per vivere… Per quello ci pensa il mio lavoro, che non amo molto, ma che mi permette di vivere tranquillamente.

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