:: Pier Paolo Pasolini a 100 anni dalla nascita a cura di Antonio Catalfamo

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Pasolini temeva fortemente in vita di essere strumentalizzato dal potere, di rimanere vittima involontaria della capacità del sistema di metabolizzare anche le posizioni ad esso avverse e di trarne linfa vitale per la propria riforma interna e perpetuazione. Da qui certo suo estremismo polemico e certi atteggiamenti provocatori che potevano sembrare pose letterarie. Ma, dopo la morte, gli è successo di peggio. Assistiamo ad ogni anniversario alla sua «santificazione», quasi ch’egli fosse un fiore all’occhiello di quella società capitalistica matura di cui denunciò, con lungimiranza, tutti gli aspetti antidemocratici e, persino, dittatoriali.

Un suo (e anche nostro) amico, Roberto Roversi, ha avvertito l’urgenza di lasciare Pasolini «sconsacrato».

In questo centesimo anniversario della nascita è, dunque, necessario contrastare le tendenze iconografiche, di qualsiasi segno, studiare Pasolini nella sua umanità, nelle sue contraddizioni, nelle sue “fughe in avanti” rispetto allo stagnante ambiente culturale italiano, ma anche nei suoi legami inevitabili col passato, anche nelle sue forme “retrive” e “conservatrici”. Un Pasolini “a tutto tondo”, dunque, la cui opera va analizzata nella sua complessità ed articolazione, nel rapporto dialettico che esiste tra scritti in versi, romanzi, scritti teorici, scritti «corsari» e «luterani», opere cinematografiche, individuando i vari momenti della sua poetica ed estetica, tra i quali esistono certamente contraddizioni, ma, nel contempo, si può delineare una linea di sviluppo, una diacronia.

Pasolini, a nostro avviso, ha dato il meglio di sé nella produzione in versi e in prosa legata all’esperienza friulana, che accompagna tutta la sua vita, dagli anni giovanili trascorsi nel paese natio della madre, Casarsa, agli ultimi anni della guerra, allorquando lo scrittore si rifugia in quei luoghi per sottrarsi alla coscrizione obbligatoria nella Repubblica di Salò, e poi nell’immediato dopoguerra, proseguendo la sua esperienza di poeta in dialetto che era iniziata con Poesie a Casarsa (1942) e che continua, al di là della sua presenza fisica in Friuli, con La meglio gioventù (1954) e con La nuova gioventù (1975), trovando il suo punto più alto, in termini di poetica e di estetica, in un romanzo, Il sogno di una cosa (1962), che si pone in linea di continuità con la produzione in versi.

Pasolini compie “ricerche sul campo”, si impadronisce progressivamente del dialetto della riva destra del Tagliamento, nelle sue varie sfumature, presenti nel passaggio da un paese all’altro, nei suoi rapporti con il dialetto del vicino Veneto. Vuole scrivere in una lingua viva, effettivamente parlata, non nella «koinè» regionale, che è quella di Udine; una lingua che sia emanazione diretta della realtà, quella vera, non quella edulcorata del falso regionalismo a dimensione folcloristica; una lingua che sia espressione della “purezza” e dell’ “innocenza” del mondo contadino friulano, colto nella sua dimensione religiosa, che ha in sé un fondo di rigore morale, di valori sani e consolidati, ben diversa da quella della Chiesa ufficiale. Ma, man mano che Pasolini procede nella sua produzione dialettale, passando dalle Poesie a Casarsa a La meglio gioventù e La nuova gioventù, la sua visione si “storicizza” sempre più, il mondo contadino viene rappresentato non più nella sua innocenza e purezza primigenia, ma nel suo dolore, legato alle condizioni di sfruttamento al quale sono sottoposti i lavoratori della terra, specialmente i braccianti, nell’ambito di rapporti di produzione semi-feudali, i quali cominciano a sentire lontano pure Dio, a sentirsi abbandonati. Ma ‒ come dicevamo ‒ il punto culminante è costituito da un romanzo, Il sogno di una cosa, che conclude positivamente ‒ seppur provvisoriamente ‒ il processo di “storicizzazione” a cui vanno incontro il pensiero e l’opera di Pasolini. E’, infatti, un romanzo incentrato sulle lotte, molto dure, dei braccianti friulani per l’applicazione del «lodo De Gasperi», per il miglioramento delle loro condizioni di vita, ma anche per l’affermarsi di una prospettiva rivoluzionaria. Si riverbera sull’opera di Pasolini la sua esperienza politica, in quanto egli si è avvicinato al Partito comunista italiano, divenendo segretario di sezione, nonché militante attivo, anche sulla stampa, nelle polemiche politiche e culturali. In particolare, lo scrittore prende le distanze dallo «zoruttismo», vale a dire da quel movimento politico e culturale, che, strumentalizzando la poesia “ingenua” di Pietro Zorutti (1792-1867) e il suo “pauperismo”, intende accreditare l’immagine di un mondo contadino rassegnato al proprio destino, che, anzi, di esso finisce per essere orgoglioso, a beneficio delle classi dirigenti regionali, legate alla Democrazia cristiana, e nazionali, che predicano l’immobilismo sociale. Siamo in presenza di un Pasolini fortemente influenzato da Gramsci e dalle sue idee rivoluzionarie.

Nel 1949 lo scrittore, che insegna alla scuola media, è costretto a fuggire dal Friuli, «come in un romanzo», perché accusato di presunti rapporti omosessuali con ragazzini. Si trasferisce a Roma e qui si dedica professionalmente alla letteratura e all’arte. I due romanzi romani, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), vanno letti in chiaroscuro. Pasolini sostituisce al mito dei contadini friulani quello dei giovani delle borgate romane, anch’essi visti come espressione di un’umanità “istintiva” e “primigenia”. Ma questi giovani appaiono privi di valori positivi, espressione di un mondo, quello delle periferie urbane, fondato sulla “predonomia” e sulla violenza, su un certo fatalismo, su una soggezione al destino, che si oppone in termini negativi e di antagonismo resistenziale a quello del centro delle grandi città, in una logica che è, insieme, conservativa ed autodistruttiva. Questo mondo sarà al centro anche di film come Accattone (1961) e Mamma Roma (1962).

Questa produzione letteraria (e cinematografica) incentrata sulle periferie romane suscitò polemiche nell’ambito del Pci e degli ambienti culturali ad esso vicini. In molti misero in discussione che un mondo così configurato esistesse veramente e che, comunque, circondasse e, addirittura, frequentasse le sezioni del partito: un mondo di ladruncoli, di magnaccia, di prostitute, di cui non si vedevano i valori positivi e rivoluzionari. Intervenne nel dibattito Edoardo D’Onofrio, dirigente del partito di vecchia data, il quale, sulla base della sua lunga esperienza politica trascorsa a contatto con le borgate romane, affermò che Pasolini aveva descritto quell’universo umano nel suo farsi, partendo dalla situazione in cui la gente di borgata era abbandonata alla deriva, ai propri istinti primordiali, dopo essere stata massa di manovra del fascismo, durante il ventennio della dittatura mussoliniana, fino all’acquisizione della coscienza di classe, grazie all’azione di radicamento del partito proprio nelle borgate romane, testimoniata dal protagonista di Una vita violenta, Tommaso Puzzilli, il quale, dopo l’esperienza del sanatorio, diventa un personaggio positivo, s’inserisce nella sezione del partito e muore con un gesto eroico, nel tentativo di salvare una prostituta dall’alluvione che sconvolge le aree povere intorno all’Aniene.

I due romanzi romani testimoniano, comunque, che la poetica di Pasolini, così come si era strutturata nella produzione legata all’esperienza friulana, subisce un mutamento fondamentale. Prevale in lui la fase “destruens” del sistema capitalistico, nella versione italiana, la denuncia feroce dei suoi effetti disumananti, mentre la fase “construens” subisce una notevole attenuazione. E’ forte in Pasolini la denuncia del “genocidio” della cultura delle classi subalterne perpetrato dalla borghesia rampante, ma, nel contempo, egli rimane prigioniero della società che pure condanna, non riuscendo a delineare un’alternativa e a crederci veramente. S’indebolisce l’impianto gramsciano della sua poetica e della sua estetica.

Va chiarito un aspetto, di contro alle esaltazioni del Pasolini “cattolico” alle quali stiamo assistendo in questo centenario della nascita. L’usignolo della Chiesa Cattolica (1958) e La religione del mio tempo (1961) sono le prove più eclatanti di come Pasolini coinvolga nella sua condanna del capitalismo la Chiesa cattolica, che ad esso, secondo lo scrittore, fa da supporto, anzi diventa uno dei pilastri portanti del sistema. Con la scomparsa del mondo friulano ch’egli ha conosciuto da ragazzo e da giovane intellettuale, la stessa possibilità di una “religione”, intesa come “purezza” di valori ‒ com’egli ha affermato in un’intervista rilasciata all’etnologo Alfonso Maria di Nola ‒ è venuta meno. E, comunque, Pasolini rivendica una religione “trasgressiva” che esalta il diritto al “peccato”, racchiuso nella stessa immagine di Cristo inchiodato, nella sua nudità “scandalosa”, sulla croce. Il Vangelo secondo Matteo (1964) rivendica ancora tale “religiosità” primigenia, con tratti di paganesimo, contiene la denuncia della Chiesa ufficiale e dei suoi legami col potere, attualizzata con la trasposizione cronologica nel mondo rurale e pastorale dei sassi di Matera, ma Pasolini rimane prigioniero, ancora una volta, di questa denuncia semplicemente etica (si veda il discorso della Montagna), non riuscendo ad intravedere un’uscita, un’alternativa alla società capitalistica, di cui pure traccia in maniera spietata il carattere disumanante.

Tutti i limiti ideologici di Pasolini emergono da Le ceneri di Gramsci (1957), in cui si manifesta il suo rapporto contraddittorio con il grande intellettuale comunista, nonché con il proletariato, ora amato istintivamente ora con razionalità, per la sua carica di bontà primigenia, o, alternativamente, per la sua forza rivoluzionaria, e con la propria classe di appartenenza, la borghesia, alla quale egli rimane legato da un rapporto di amore-odio. La lezione gramsciana viene sostanzialmente “tradita” e rimane inascoltata, nella misura in cui Pasolini non riesce ad intravedere un’alternativa di carattere rivoluzionario alla società capitalistica borghese, pure condannata fino alle estreme conseguenze. Questa condanna senza appello emerge dall’ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), che risale alla fase finale della sua travagliata esistenza, in cui tale società viene denunciata per la sua estrema violenza, che la pone in linea di continuità con il fascismo e il nazismo, con la logica dei campi di sterminio, laddove essa violenta l’uomo nelle sue parti più intime, fisiche e morali. E’ questo il «tecnofascismo», di cui parla Pasolini.

Il Pasolini “luterano” e “corsaro” delle polemiche giornalistiche s’inserisce entro questi orizzonti. Lo scrittore prospetta un processo penale, avente funzione simbolica, per la classe politica italiana, denuncia tutte le trame eversive che rientrano nel sovversivismo insito nello stesso potere, gli scandali, la corruzione dilagante, che diventa intrinseca al sistema, che lo mina dalle fondamenta, ma non sa e non vuole indicare un’alternativa, in quanto lui per primo non ci crede, rimanendo vittima di una visione di stampo decadente, per cui la stessa denuncia finisce per essere posa letteraria. Ed è Pasolini stesso ad avvertire i propri limiti.

Il suo merito indiscusso è stato quello di aver portato fino in fondo la critica della società capitalistica cosiddetta «matura», individuandone tutti i caratteri di autoritarismo e di soppressione della democrazia ch’essa ha assunto. Pasolini ha fatto, dunque, quel che nessun intellettuale del suo tempo ha saputo e voluto fare, in un’Italia in cui buona parte degli uomini di cultura, così come dei cittadini comuni, sono abituati a saltare sul carro del vincitore, secondo la formula pessimistica, ma ben fondata, di Ennio Flaiano.

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Una Risposta to “:: Pier Paolo Pasolini a 100 anni dalla nascita a cura di Antonio Catalfamo”

  1. Luca Pelorosso Says:

    L’ha ripubblicato su thebooksareinthehouse.

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