Quando nel 1983 uscì Lo stadio di Wimbledon, il primo romanzo di Daniele Del Giudice, Italo Calvino nella quarta di copertina parlò di un libro insolito.
Come sempre Calvino aveva ragione. Gli anni Ottanta iniziavano con l’esordio di un grande scrittore capace di osare nella scrittura e pensare libri originali e davvero singolari.
Daniele Del Giudice è un narratore pensante, analitico. Nei suoi libri ha saputo riflettere sulla contemporaneità attraversando con la finzione narrativa questioni scientifiche e tecnologiche.
È davvero un peccato che Del Giudice sia sparito dalla scena letteraria. Purtroppo una malattia grave gli impedisce di scrivere, lo rende assente alle cose della vita.
Lo stadio di Wimbledon resta, a trentaquattro anni dalla sua uscita, una delle intuizioni più folgoranti del romanzo italiano del Secondo Novecento.
Del Giudice racconta di un giovane che va in cerca di un personaggio della nostra cultura che soprattutto è stato una figura originale della vita letteraria italiana (che poi scopriremo essere Bobi Bazlen), amico di poeti e scrittori che scelse nella sua vita di agire sull’esistenza delle persone piuttosto che scrivere.
In questo romanzo di formazione il protagonista si pone delle domande che hanno inevitabilmente a che fare con la scrittura, la vita ma soprattutto con lo stretto legame che c’è tra letteratura e la vita. Gli interessa ricostruire tutte le vicende esistenziali di questo straordinario e eccentrico intellettuale che è stato al centro della vita culturale ma ha rinunciato ad aggiungere un suo libro ai molti che si pubblicano, preferendo alla fine la questione umana e la vita delle persone con cui si relaziona.
Il suo viaggio parte dalla Trieste mitteleuropea e finisce a Londra. Il giovane ricercatore incontra in questi due luoghi persone con cui il noto uomo di cultura ha avuto contatti e ralazioni nella speranza di scoprire attraverso queste conversazioni il motivo vero che ha spinto uno dei più importanti letterati italiani a non scrivere.
«La domanda che il giovane rivolge al vecchio – scrive Italo Calvino – nella quarta di copertina – (e a se stesso) potrebbe forse formularsi così: chi ha posto giustamente il rapporto tra saper essere e saper scrivere, come condizione dello scrivere, come può pensare d’influire sulle esistenze altrui se non nel modo indiretto e implicito in cui la letteratura può insegnare a essere? ».
In queste domande di Calvino c’è l’essenza del libro di Del Giudice.
Lo stadio di Wimbleon è un perfetto romanzo di formazione che entra nel cuore delle questioni cruciali della letteratura che si incontra con la vita.
La narrazione di Daniele Del Giudice nelle pagine di questo libro non scioglie nodi e non azzarda risposte definitive sul dilemma tra scrivere o non scrivere.
Perchè in letteratura quello che davvero conta è far emergere l’invisibile dal visibile. Il reale significato della parola è in ciò che la parola tace.
Per Del Giudice scrivere è un paradosso che racconta di qualcosa che non può essere visto e allo stesso tempo guarda una storia di cui non si può raccontare.
Un paradosso che ha a che fare con il mistero stesso della scrittura che incontra la vita.
Tag: Daniele Del Giudice, Mi manca il Novecento, Nicola Vacca
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