:: Senza senso, senza pietà: appunti su Chester Himes a cura di Fabio Orrico

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Chester Himes“L’unico modo nel quale l’uomo americano di colore potrà mai essere parte dello stile di vita americana passa attraverso la violenza. Questo è tragico, ma vero.”

Così Chester Himes (Jefferson City, 29 luglio 1909 – Moraira, 12 novembre 1984), laconico e arrabbiato, uno dei grandi narratori noir del Novecento. Eppure per pochi scrittori come per Himes il recinto fornito dal genere può risultare fuorviante. Non che ci prendesse chi, agli esordi, lo apparentava frettolosamente e banalmente a grandi scrittori neri di protesta come Richard Wright o James Baldwin.
Il fatto è che Himes, all’interno della narrativa di genere così come della narrativa tout court fa storia a sé. Poco apprezzato in patria dove i suoi libri circolano pochissimo, anche nel nostro paese non è facile procurarsi i suoi romanzi, nonostante il recente interessamento di Marcos y Marcos e Giano. La sua biografia è tragica e bizzarra come quella dei suoi personaggi: incarcerato per rapina a mano armata tra il 1928 e il 1936, viene folgorato sulla via di Damasco dai racconti di Dashiell Hammett e gli viene spontaneo scriverne di propri muovendosi lungo la stessa strada di brutale realismo perché basta “(…) semplicemente raccontare la realtà così com’è”.
A dire il vero Himes non si è mai limitato a una resa più o meno naturalistica della realtà. Non lo ha fatto nemmeno nel suo romanzo più inquadrabile in una logica di impegno civile come Fine di un primitivo (The primitive, 1955), storia d’amore oscura e tragica tra uno scrittore nero e una donna bianca, anche questo incline a leggere il mondo attraverso un filtro caleidoscopico e apocalittico. Tale infatti è la direzione presa fin da subito dalla lingua di Himes: un meccanismo fortemente espressionista, concentrato sulla deformazione del reale attraverso il particolare macabro e ripugnante.
I suoi romanzi polizieschi sono però il veicolo più adatto a comprendere le sue chiavi stilistiche. Il primo particolare che salta agli occhi, e forse particolare non è il termine più appropriato, è la volontà di sabotare la propria materia dall’interno. Se anche i grandi innovatori come Hammett e Chandler lasciavano la detection sullo sfondo per concentrarsi sui personaggi e l’affresco sociale, Himes compie un ulteriore passo avanti e in questo senso, anche in futuro, anche ai giorni nostri, pochissimi mostreranno la capacità o anche solo la volontà di seguirlo.
Le indagini nei noir di Himes infatti sono sempre episodiche e trasandate e il mistero da risolvere quasi mai occupa il centro della trama. Tutto è affogato all’interno del suo linguaggio carnale e prismatico, nelle descrizioni visionarie di una Harlem, esclusivo teatro delle sue storie, descritta come un girone infernale. E se l’ambientazione è fissa ecco allora gli eroi seriali dell’autore afroamericano: Grave Digger Jones e Coffin Ed Johnson (nomi “parlanti” che nella nostra lingua suonano più o meno come Becchino Jones e Ed cassa da morto), due sbirri, per usare le parole dello scrittore, “neri come il carbone”, brutti, sporchi e cattivi, non particolarmente dotati da nessun punto di vista che non sia la volontà di applicare la violenza bruta e concludere la giornata portando a casa la pelle.
È proprio raccontando il rapporto dei suoi due eroi con la comunità nera che Himes esprime la sua visione del mondo cupa e senza speranza: un mondo in cui tutti tradiscono tutti, in cui l’afflato ideologico raramente è sincero e in ogni caso finisce continuamente frustrato dal denaro e dalle passioni insane che agitano la sua umanità. L’uomo bianco è naturalmente un nemico e un pericolo.
In Corri uomo corri (Run man run, 1959), unico noir senza Grave Digger e Coffin Ed, Himes ci racconta la storia di un ragazzo di colore testimone dell’omicidio commesso da un poliziotto bianco e razzista. Un libro di glaciale pessimismo dove il nostro eroe, oltre al doversi guardare dal poliziotto assassino, dovrà anche constatare la diffidenza e la scarsa solidarietà della sua comunità di appartenenza. Probabilmente Corri uomo corri è anche il libro himesiano meno aperto alla divagazione.
Espatriato piuttosto presto, Himes troverà un suo personalissimo buen retiro a Parigi (e non sorprende, visto l’amore che di lì a poco tributeranno alla narrativa pulp tanti intellettuali e cineasti francesi, Truffaut e Godard in testa) e proprio relativamente al suo stile digressivo e alla sua incapacità di costruire un intreccio coerente si pronuncerà il suo ammiratore ed editore Marcel Duhamel, direttore della mitica collana Serie noire:

Trovati un’idea. Poi attacca con l’azione: qualcuno che fa qualcosa, che so, un uomo allunga una mano e apre una porta, la luce gli batte negli occhi, l’uomo si volta, guarda su e giù nel corridoio… Azione, sempre azione, in dettaglio. Immagini. Come al cinema. Scene sempre visibili. Niente flussi di coscienza. Non ce ne frega un cazzo di chi pensa cosa, ma soltanto le loro azioni. Sempre azioni. Sbattitene se la cosa non ha senso. Questo si vedrà alla fine. Dammi 220 pagine dattiloscritte.”

Insomma un versione più logorroica e colorita dell’aureo motto fitzgeraldiano “Il personaggio è azione”.
E forse il frutto più compiuto di questa inclinazione è Cieco con la pistola (Blind man with a pistol, 1969), libro assurdo e terribile su un’indagine destinata a restare incompiuta, nell’abituale scenario di Harlem, incredibilmente somigliante alle trincee di Celine. Poliziotti, criminali, prostitute, truffatori, psicopatici, uomini di chiesa poligami con famiglie tumulate in luride cantine e una squadra di figli che mangia direttamente da un trogolo.
Tutti contro tutti in un mondo in cui non sembra esserci possibilità di progresso e consapevolezza. Nessuno scrittore si è mai spinto tanto in là, e specie all’interno della narrativa popolare, in una rappresentazione dell’America come inferno e carnevale di morte, il tutto condito da dosi massicce di black humor. E forse non c’è da stupirsi della scarsa considerazione che ha sempre accompagnato il lavoro di Chester Himes.

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