Don Ciccio Morrone, questo era il suo nome, era medico. Viveva a Crotone sul mare ed era originario di Isola di Capo Rizzuto. Proveniva da una famiglia illustre, tutti medici e farmacisti, e poteva vantare in goppa all’albero genealogico nientepopodimeno che un papa, e un papa di temperamento, quello del gran rifiuto di dantesca memoria.
Don Ciccio era un buon medico, di quelli che tengono la vocazione, ed essendo la sua fama emigrata dalla terra calabra fino alle pendici del Vesuvio, capitò che Franceschiello O’ Re lo volle tra i luminari e i cerusici di rango che si riunivano a consulto al suo fregiato e blasonato capezzale.
Don Ciccio, rustico di modi e non incline all’aria malsana di corte, si trovò tra l’incudine e il martello, ma che si può fare se O’ Re chiama, il suddito risponde.
Così, bardata la carrozza per un viaggio scomodo e polveroso, si incamminò scuro in volto per quella bella strada che da Crotone porta a Napoli. Durante il viaggio accidentato, allintrasatta,[1] in prossimità di un bosco, zio Ciccio incontrò un brigante con lo schioppo ‘mbraschatu[2] e che puzzava come un ‘zzimmaru[3]. A quel tempo erano frequenti i briganti sulle strade, mica come oggi, che sono tutti riuniti in parlamento.
Il brigante, di origini sanniche, povero contadino datosi al brigantaggio in seguito alla miseria del popolo meridionale al bivio della storia tra Borboni e Savoia, fece scendere Don Ciccio allicchettatu[4] con il suo giustacuore di velluto verde bottiglia dalla carrozza con il ghigno pauroso di un uomo disperato abituato ad andare per le spicce.
“Oh dottò tengo prescia, o compare è ferito. Un pallettone degli birri gli ha fracassato un osso e ora butta sangue come una fontana. Lei è medico, lo curi”.
Don Ciccio non fece obbiezioni, si grattò la bbarva[5] cespugliosa e fissando lo schioppo spianato verso la di lui persona annuì.
“Mi porti dal ferito” ordinò con burbera tristezza.
Fu portato nel covo dei briganti, nel cuore del bosco, e fu portato davanti al ferito pallido ed emaciato.
“Se muore, lo segue dottò” tuonò il buon uomo in ansia per il congiunto, che per la cronaca era anche suo fratello.
Don Ciccio domestico a trattare con principi, re e baroni, non fece una piega e medicò il meschino, era pur sempre una creatura di Dio, sebbene tra le pecorelle il suo manto fosse proprio nero assai.
Soddisfatti del lavoro i briganti si misero a consulto. Che farne ora del dottore? Abbisognava bastiunarlo[6] o dargli un premio?
Presero un sacchetto di monete d’oro e accompagnando don Ciccio alla carrozza glielo diedero con imbarazzata gratitudine.
Don Ciccio scrollò il capo.
“Io non tocco quest’oro macchiato di sangue”.
A questo punto apro una parentesi per dire che ci sono voci contraddittorie tra i solerti narratori di questo aneddoto sulle parole precise di questo rifiuto. Ma in famiglia erano specialisti nei rifiuti, da Celestino V in poi, per cui è anche possibile che avesse detto:
“Non voglio il vostro oro, sono medico e mio dovere è curare la gente. Non sono né un prete né un gendarme. Non è mio compito giudicare la gente”.
Sta di fatto che il brigante sgomento ripeté l’offerta.
“Questo oro vi appartiene, non mi stiate a scontentà”.
A questo punto, e mi sembra strano perché don Ciccio era uomo di poche parole, e poi con un bandito armato certo non si perde tempo a fare conversazione, ma sembra che i due avessero iniziato a discorrere d’onore.
“Non posso accettarlo, è una questione d’onore”.
“Onore” disse il brigante e sputò per terra “ l’onore nu saccio coss ’è “, badate bene si stava infervorando quindi i toni della sua voce si fecero più acuti “con l’onore non ci sfamo i miei figli”.
“L’onore, figlio mio” scusate il paternalismo ma a quei tempi si usava e forse don Ciccio era molto vecchio o il brigante molto giovane “è quella cosa senza la quale un uomo è caddhozzulu[7] “ disse don Ciccio e salì in carrozza.
Napoli lo aspettava e pericoli ben più gravi di quelli che correva tra quelle anime semplici.
Da quel giorno don Ciccio ebbe altre volte la ventura di passare in carrozza per quella malfamata strada infestata di briganti, vuoi che O Re avesse un’ infreddatura, un capogiro, o gli prudessero le uallere, ma comunque da quel giorno la sua vettura fu onorata ovunque di un salvacondotto e anzi i briganti gli facevano da scorta onde non incontrasse impigli o perigli.
Capitò che un brigante un po’ miope lo fermò un’ altra sola volta ma riconosciutolo, perché ormai la sua fama era enorme tra la Aspromonte e il Sannio, si tolse tanto di cappello e rise:
“Facite passà è lo galantuomo”.
[1] All’improvviso
[2] Sporco
[3] caprone
[4] elegante
[5] barba
[6] bastonarlo
[7] cacca di capra
Giulietta Iannone è nata a Milano nel 1969. Dopo la Laurea in Scienze Politiche, indirizzo Internazionale, con tesi di ricerca in Storia Moderna e Contemporanea dell’ Asia, ha collaborato alla stesura dei testi di carattere storico e antropologico del libro fotografico “Time Stamps: The Forgotten China” (Restless Travellers Publishing, 2009). Gestisce l’archivio storico delle foto scattate in Cina, Corea e Giappone dal 1900 al 1905 del fotografo Luigi Piovano. Ideatrice, co-fondatrice e dal 2007 Editor-in-Chief del blog letterario Liberi di scrivere.
Tag: Don Ciccio medico una strada infestata di briganti l' onore e un sacchetto d' oro, Giulietta Iannone
22 luglio 2019 alle 10:21 |
Buongiorno, da dove è tratto questo racconto?
22 luglio 2019 alle 16:28 |
E’ un mio racconto, l’ho scritto alcuni anni fa.