:: Un’intervista con Paolo Cortesi, autore de Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries a cura di Giulietta Iannone

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cortesi_250X_Benvenuto, Paolo, su Liberi di scrivere e grazie di averci concesso questa intervista. Raccontaci qualcosa di te, parlaci dei tuoi studi, del tuo background, del tuo esordio come scrittore.

– Liceo classico, laurea in filosofia, alcuni anni come insegnante: tutto molto normale. Nelle mie note biografiche non posso scrivere nulla di intrigante, come quelli che dopo aver fatto tutt’altro (cercatori di diamanti, cantanti, calciatori, fachiri, eremiti, pittori ecc. ecc.) regalano al mondo i loro capolavori letterari. Resto ammirato da chi può scrivere “vive tra New York e Londra” (e mi chiedo: ma questo vive in mezzo all’Oceano?). La sola cosa un po’ fuori dal consueto che posso dire è che ho scritto il mio primo “romanzo” (!?) a otto anni. Lo feci leggere al mio maestro. Me lo restituì corretto, tutto coperto di segni rossi: ci restai di pietra.
Il primo romanzo (questo vero, senza virgolette) è stato “Il fuoco, la carne”, Premio Todaro Faranda 2003. Poi è arrivato “Il patto” (Nexus), e poi ancora “La velocità dei corpi” (Piemme).
Ho pubblicato molti saggi di storia. La mia biografia “Cagliostro” (Newton Compton) ha vinto il Premio Castiglioncello nel 2005.
Per i pochi benemeriti che volessero sapere qualcosa di me e dei miei libri, non mi resta che segnalare il mio sito http://www.paolo-cortesi.com

E’ appena uscito per Piemme, in una collana esclusivamente di ebook chiamata Originals, il romanzo breve Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries. Un giallo storico ambientato nella Parigi del 1912, con protagonista l’autore della Recherche improvvisatosi detective, più che altro per necessità. Come è nata l’idea di scrivere questo racconto? Quale è stato il punto di partenza nel processo narrativo?

– Era una domenica pomeriggio di molti mesi fa. Ero in auto con Michela, la mia compagna, e stavo pensando con lei, ad alta voce, su quale poteva essere la trama di un giallo originale. Pensai che l’ingrediente più indispensabile per un giallo davvero insolito doveva essere il protagonista, del tutto imprevedibile. Volevo scrivere un giallo in cui realtà e fantasia fossero strettamente mescolati. Volevo un personaggio storico, reale, al centro della vicenda. Chi poteva essere l’antidetective per eccellenza? Insomma: quale figura era la meno probabile, e dunque la più suggestiva, come investigatore? Marcel Proust mi balzò in mente come se mi fosse stato suggerito da qualcuno. L’idea del romanzo mi venne in mente proprio mentre ci trovavamo davanti al cimitero di Cesenatico, dove riposano Marino Moretti, uno dei più grandi poeti del Novecento, e Dante Arfelli, uno dei più grandi romanzieri italiani del secondo dopoguerra: per scherzo, ed anche per civetteria, dico che la trama me l’hanno trasmessa loro telepaticamente…

Come ti sei documentato per ricostruire la Parigi del 1912, quali libri hai letto, quali film, fotografie, documentari hai visionato?

– Conosco veramente bene Parigi, è la città che conosco meglio dopo quella in cui vivo. Ho letto molti libri sulla storia di quella straordinaria città, ed in particolare sono state utilissime le guide turistiche dell’epoca. Le fotografie di inizio secolo (il secolo scorso) di Atget sono state fondamentali per poter possedere l’atmosfera, il sapore di Parigi nel 1912.
E davvero utili sono stati i film muti girati da Louis Feuillade fra il 1913 ed il 1914, che hanno per protagonista Fantomas.
Sono stato quanto più fedele possibile alla realtà storica. Un esempio: in un punto del romanzo, si parla di una ditta di taxi e noleggio auto, la Comoy et Perrin: bene, quella ditta esisteva davvero: ne ho ricavato il nome dal Baedeker di Parigi del 1911.

Perché tra tutti i personaggi storici hai scelto proprio Proust? Che legame ti unisce a questo scrittore?

– Proust lo si ama o lo si subisce: in ogni modo, non può lasciare indifferente uno scrittore. Non è il mio autore preferito (leggendo la tua recensione ho capito che te ne sei accorta), ma è sicuramente una presenza letteraria con cui si devono fare i conti. Certe sue pagine miracolosamente raffinate, istoriate, vertiginosamente impeccabili, fitte di intarsi e di volute come vetrate di chiese gotiche fanno dimenticare pesantezze e puntigli in cui l’uomo zittisce l’artista.
Mi piaceva avere Proust nel mio romanzo e farlo muovere come credevo che fosse nella vita: generosissimo e sospettoso, mite e inflessibile, acuto e smarrito, fragile e tenace: insomma, uno scrigno di contraddizioni ma con una luce interiore, con un dono meraviglioso che si può chiamare solo Arte (e nota che la A maiuscola qui non è senza significato).

La storia inizia con un invito che riceve Proust da parte di un gruppo di amici altolocati, nobili, militari d’alto grado, borghesi facoltosi, attribuitosi il titolo goliardico di gaudenti – che hanno organizzato, tutto nella massima segretezza, un festino particolare, eccentrico direbbe uno dei personaggi. Proust arriva tardi all’appuntamento e il giorno dopo scopre…

-Scopre che i suoi quattro amici gaudenti sono stati trovati cadaveri all’alba, da un netturbino; ciascuno con la gola tagliata da orecchio a orecchio, i polsi legati, allineati su un prato del giardino delle Tuileries. E Proust comprende, presto, che la quinta vittima sarebbe dovuta essere lui.

Per sottolineare il clima omofobo che vige anche dell’alta società della Belle Époque, utilizzi termini dispregiativi come “invertiti” e “pederasti”. Come ti sei documentato per ricostruire la situazione degli omosessuali in questo periodo?

-Esiste un bel saggio che si intitola “Proust in love” di William Carter (edito da Castelvecchi); lì ci sono molte notizie sul mondo omosessuale in cui viveva e si muoveva Proust.
Tengo a precisare che io descrivo una situazione sociale, non la giudico. E se comunque dovessi farlo, darei tutto il mio sostegno a persone che furono perseguitate per i deliri moralistici di una società classista che ammetteva ogni “perversione” nei ricchi e puniva nei poveri, come colpa atroce, le stesse scelte sessuali.

Hai scelto di cambiare i nomi dei domestici di Proust, che nella tua storia si chiamano Octave e Jeanne. Octave è un anarchico, un difensore della lotta proletaria. Ti sei ispirato al vero servitore di Proust o è una tua invenzione?

– I veri domestici di Proust, cioè quelli più lungamente al suo servizio, erano Celeste e Odilon. Celeste scrisse, o meglio dettò, un libro di memorie, o meglio di venerazione della memoria del suo amatissimo Monsieur Proust. La mia Jeanne si ispira a lei: votata a Marcel che considera un eterno malato bisognoso di cure amorevoli. Octave, invece, l’ho immaginato anarchico, esasperato dalle ingiustizie sociali, in contrasto con la moglie. In effetti, nella Parigi dei primi del Novecento, gli anarchici non erano pochi, nonostante la repressione capillare e durissima (proprio nel 1912 verrà ucciso dalla polizia Jules Bonnot, il capo della banda di rapinatori anarchici; ma loro si definivano “recuperatori”). Octave, arrabbiato e deluso, è un personaggio che -a mio parere- movimenta la storia e che dà alla ricostruzione un dettaglio veritiero in più.

Non anticipo certo il colpo di scena finale, ma rassicuro i lettori che sebbene per buona parte del racconto non si sa bene dove si andrà a parare, poi tutto torna e tutto si spiega. E’ davvero un intrigo che metterà a dura prova i lettori che di solito scoprono sempre chi è l’assassino. Come hai avuto l’ispirazione per questo finale?

-Come ti dicevo prima, la trama si è sviluppata anello dopo anello, a partire dall’idea di base: Proust coinvolto in una storiaccia di morti ammazzati amici suoi che, come lui, si concedevano -con mille precauzioni perché personaggi di spicco- si concedevano piaceri “proibiti”.
Direi quindi che la trama, nel suo intreccio, ha seguito il corso verosimile degli eventi a partire da un episodio tragico e misterioso. Volevo che il lettore non avesse alcuna idea delle vere cause di ciò che accadeva; volevo che il lettore si sentisse come colui che entra in un cinema a film iniziato: vede immagini, ascolta dialoghi ma tutto pare non avere collegamento con il resto. Il coup de theatre finale è quello che più mi ha divertito: l’apparizione in scena di un personaggio storico famosissimo (scommetto che non ci sarà un solo lettore che non ne abbia sentito il nome almeno una volta) che risolve l’intrico, ma non da osservatore esterno, bensì da protagonista, certo in un ruolo che nessuno sospetterebbe. E che ovviamente non svelerò neppure sotto tortura.

Grazie Paolo della disponibilità nel salutarti mi piacerebbe sapere se sono previste altre avventure del tuo Marcel Proust detective?

-Sai che pensavo proprio ad un thriller in cui tornano Marcel, Octave, Jeanne, Reynaldo? I presupposti per continuare ci sono tutti. E se il pubblico mi dà fiducia, sarei felicissimo di raccontare ancora una avventura gialla di Proust…

Gentili lettori, l’autore si presta a rispondere ai vostri commenti o alle vostre eventuali domande. Se avete delle curiosità potete scriverle nei commenti a questo post.

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4 Risposte to “:: Un’intervista con Paolo Cortesi, autore de Marcel Proust e l’assassinio delle Tuileries a cura di Giulietta Iannone”

  1. Viviana Says:

    Aloa eccomi qui con una domanda: Come è stato mescolare realtà e finzione nel romanzo e dare e far agire Proust come se fosse un detective. Quanto ti sei “messo nei suoi panni” per creare questa storia?

  2. Davide Mana Says:

    Sono il primo?
    Sono il primo!

    Una domanda sullo scrivere narrativa storica, e sul documentare un romanzo storico.
    Esiste il rischio di perdersi nella documentazione?
    Il rischio cioè di continuare ad accumulare materiale, dettagli e informazioni a scapito della narrazione, che rischia di passare, per così dire, in secondo piano?
    E più in generale, scrittura e documentazione sono due fasi separate, o procedono di pari passo?
    Esiste un momento in cui l’equilibrio si sposta, e diventa evidente che la fase di documentazione èp chiusa, ora tocca scrivere?
    O è qualcosa di completamente diverso?
    (hmmm – e avevo detto “una domanda”)
    Grazie per l’eventuale risposta!

  3. Paolo Cortesi Says:

    Grazie delle domande!!
    Rispondo a Davide Mana: per scrivere narrativa storica il lavoro forse più delicato (difficile) è proprio la selezione e la raccolta del materiale. Verissimo: ci si può perdere nella mole di dati, fatti, personaggi. Il rischio ancora più grave, a mio parere, consiste però nel non trovare la giusta mistura fra invenzione e realtà storica. Qui non c’è scuola di scrittura o manuale che ti possa davvero tirar fuori dall’impaccio: la scelta sta solo all’autore (è la dimensione artigianale, la più bella, la più sana) che dovrà risponderne prima al suo gusto e cultura, poi all’editore e poi (last but not least) ai lettori.
    Restare fedeli al dato? E quanto? E per quanto? E si possono compiere piccole “violenze”? (Nel mio Proust, ho cambiato i domestici non solo nel nome, ma nei caratteri: dunque, si tratta ancora di ricostruzione o di arbitrio?).
    La documentazione precede sempre la scrittura narrativa; non riesco a immaginare di scrivere un romanzo storico se non dispongo di tutti i dati che mi possono dare l’aria, il senso, il sapore, la luce di un’epoca. Un esempio: per scrivere “Il fuoco, la carne”, ambientato nella Grande Guerra, ho visto decine e decine di filmati dell’epoca.
    Mi sono serviti più di cento libri per essere testimone della vita quotidiana dei soldati in trincea, nelle retrovie, negli ospedali, nelle piazze, nelle caserme, nella morte….
    La fase di documentazione termina (parlo per me, ovviamente) solo quando avverto l’esigenza, cioè un bisogno fisico paragonabile alla sete o alla fame, di iniziare a scrivere, per raccontare la storia dei personaggi che ho ideato.

    Rispondo a Viviana: Proust detective è quello che non ci immagineremmo mai!! Proprio per questo motivo l’idea del “giallo proustiano” mi ha affascinato!!
    Per questo romanzo ho letto credo tutte le biografie in lingua italiana dello scrittore. Non tanto per raccontarne la autentica vicenda personale, ma per conoscere il suo carattere, le sue debolezze, le sue grandezze.
    Insomma, ho conosciuto Proust attaverso pagine e immagini, e l’ho scritturato per recitare la storia di cui ho scritto il copione!…
    Non ho neppure cercato di mettermi nei suoi panni, piuttosto ho tentato di essere il suo cronista, chiedendomi: il Proust che ho ricostruito come si comperterebbe in questa situazione? L’uomo raffinato, colto, sensibilissimo come avrebbe reagito a oscure minacce, alla violenza? Certo, la storia non si fa con i “se”, ma credo davvero che SE Proust avesse dovuto davvero imbattersi in una vicenda drammatica e oscura, si sarebbe comportato, almeno in parfte, come ho scritto io.

  4. Viviana Says:

    grazie 🙂

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