:: Un’intervista a Pino Scaccia

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Pinoscacciasri03

Benvenuto Pino su Liberidiscrivere e grazie per aver accettato la mia intervista. Iniziamo con le presentazioni. Raccontati ai nostri lettori. Inviato, blogger, autore di libri. Chi è Pino Scaccia?

Uno che non ha voglia di star fermo. Guai a fermarsi. Poi tutto quello che ho fatto, e che faccio, ha un unico denominatore: il reporter. In quest’epoca multimediale non c’è differenza. Se vado, che so, in Libia per la Rai (inviato) posso anche scrivere dei post (blogger) e poi tirarne giù un libro (scrittore). Sono sempre io che racconto quello che vedo.

Inviato storico del TG1 Rai. Attualmente sei capo redattore dei servizi speciali del TG1. Come è nato il tuo amore per il giornalismo? Come hai iniziato? Racconta ai nostri giovani lettori che volessero intraprendere la carriera di giornalista la tua esperienza.

I tempi sono cambiati, non c’erano le scuole. Esistevano soltanto le “botteghe”. Anch’io, come tutti quelli della mia generazione, ho cominciato a collaborare con un giornale (“Momento sera”) naturalmente gratis, per molti anni. Finchè non sono riuscito a strappare un contratto da praticante, ma sono dovuto andare ad Ancona (“Corriere Adriatico”). Da lì, la Rai con la nascita della terza rete. Dopo sedici anni marchigiani, sono tornato a Roma, al Tg1, a forza di lavorare come una furia, neanche un giorno di riposo in sei mesi. Altri tempi.

Quali sono le qualità del buon giornalista?

Montanelli diceva che la bravura si misura dalla suola delle scarpe. In realtà, se dovessi dirlo in percentuale, per il 10% è tecnica (che s’impara), il 10% è talento (naturale), il resto – cioè l’80% – è fatica.

Quali sono stati i tuoi maestri? C’è un giornalista che con il suo esempio, la sua onestà, il suo coraggio, ti è stato d’esempio?

Ho avuto la fortuna di approdare al Tg1 quando c’erano ancora grandi maestri: il capocronista Morrione per esempio, il vicedirettore Di Lorenzo già inviato in Vietnam, direttori come Longhi e Fava, e tanti altri maestri: da Frajese a Catucci, ho imparato un po’ da tutti loro.

Molti giornalisti sono accusati di raccontare le proprie opinioni invece dei fatti. Cosa replichi?

Un inviato è il tramite fra un evento e la gente a casa. E’ chiaro che qualsiasi racconto è filtrato dal suo occhio e dalla sua anima, sarebbe assurdo pensare all’oggettività assoluta, l’importante è mantenere una buona coscienza, diciamo pure l’onestà.

Hai seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi vent’anni dalla Prima Guerra del Golfo al conflitto in Libia ancora in corso. Secondo te la pace è solo una parola o c’è gente che lotta davvero con mezzi non violenti per perseguirla? Gino Strada, i medici di Medici senza frontiere?

Non confondiamo l’opera meritoria dei volontari con la pace. Loro aiutano le vittime, ma non possono decidere la fine di un conflitto. Purtroppo le guerre le dichiarano i governi e sempre per interesse. Non c’è via d’uscita.

Sei stato compagno di viaggio di Enzo Baldoni. Parlami di lui; che persona era? Raccontami un episodio che riassuma la sua persona.

Avrei tanto da dire di Enzo, per esempio delle nostre lunghissime litigate. Eravamo molto diversi, per questo ci siamo così attaccati. Invidiavo la sua pulizia interiore e quell’ironia imbattibile. Credo che il suo spirito possa essere riassunto nel famoso testamento per un funerale. Dove bisognava ridere, ballare e fare l’amore. Non prendeva niente sul serio, neppure la morte.

Hai scoperto per primo i resti di Che Guevara in Bolivia. Parlaci di quel giorno. Cosa hai provato? Era una giornata di sole?  

Sole e vento. Il vento sollevava la sabbia. Ricordo tutto, a cominciare dal viaggio dentro la Sierra. Quel che mi resta dentro è soprattutto il racconto dell’infermiera che ha lavato il corpo del Che. Il suo racconto, proprio davanti alla lavanderia dov’è stato deposto il corpo, è stato emozionante, pieno di dettagli minimi, come il fatto che gli ha trovato tre calzini. Quella donna adesso è vecchia ma la ricordo bellissima, con due occhi fulminanti.

Sei molto attivo sul web con il tuo blog La Torre di Babele. http://pinoscaccia.wordpress.com/ Titolo emblematico. Ma di tutte le parole che circolano sul web qualcosa resterà?

Credo di sì e fido nei blog, massacrati dai social network. Nei blog si discute, negli anni mi sono creato una piccola comunità che io chiamo tribù. Qualcosa sicuramente resterà.

Domenica 19 giugno è andato in onda su RaiUno il documentario  “Vita da inviato” di Pino Scaccia, un ritratto di vent’anni da inviato, una vita sul campo, se dovessi fare un bilancio della tua “carriera” c’è qualcosa che rimpiangi, qualcosa che non è andato come volevi?

Fra le qualità primarie di un giornalista c’è quella di non essere mai completamente soddisfatto. Ma devo essere onesto, proprio mettendo insieme, di seguito tutto quello che ho fatto in questi vent’anni (nello speciale c’era solo l’uno per cento) non posso che sentirmi un privilegiato, davvero ho attraversato la storia.

Sei stato il primo giornalista occidentale ad entrare nella centrale di Chernobyl dopo il disastro. Ricordo che in un primo tempo le autorità russe negavano, ridimensionavano il fenomeno. Il potere spesso combatte la verità. Cosa ne pensi?

E’ la prima cosa che mi hanno raccontato gli abitanti di Chernobyl, anche gli stessi tecnici della centrale. L’allarme è stato dato tre giorni dopo. E non dalle autorità sovietiche, ma da quelle scandinave. Altrimenti nessuno avrebbe saputo di quel disastro, come non si è saputo di altri. E’ da criminali, semplicemente.

Dal 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle di New York e la lotta contro il terrorismo anche il giornalismo è cambiato, i toni sono diventati più amari, se vogliamo più critici, meno paludati. Ci voleva un avvenimento così drammatico per cambiare il giornalismo?

Il giornalismo è lo specchio della società. Se il giornalismo è cambiato, significa che quell’evento ha cambiato la società. Ma credo che in realtà molto dipenda dalla tecnologia: in questi dieci anni gli strumenti hanno fatto passi da gigante.

Nella tua vita hai incontrato grandi personaggi. In assoluto qual è l’incontro più significativo, insolito o divertente?

Ci sono incontri che ti segnano come quelli con Falcone o Lech Walesa. Ci sono quelli che ti aiutano a capire come gli incontri con Graziano Mesina o Enrico Nicoletti della banda della Magliana. Ma io ricordo soprattutto il periodo passato con padre Bossi, il frate rapito nelle Filippine. Una persona fantastica, mi ha insegnato molte cose.

Il giornalismo d’inchiesta in Italia esiste? Quali sono i giornalisti più coraggiosi al giorno d’oggi, mi vengono in mente Toni Capuozzo, Gabriella Simoni, o tragicamente scomparsi come Ilaria Alpi.

Non parlo mai dei colleghi. Ma credo che ce ne siano molti altri, cioè tutti quelli che vanno per posti difficili. Per andare comunque ci vuole coraggio perché i rischi sono alti.

Quale è il reportage al quale sei più legato, di cui sei più fiero, che solo tu avresti potuto fare in quella determinata maniera? 

Credo Farouk. Ho svolto un vero lavoro di investigazione, da cronista mi sono ritrovato addirittura dentro il sequestro. Uno scoop vero, insomma.

Quale è il limite tra informazione e manipolazione?

Se è informazione vera, non c’è spazio per la manipolazione. Se manipoli significa che non informi, ma sei solo il megafono di qualche interesse.

Credi nella verità?

In maniera provocatoria ripeto spesso che la verità assoluta non esiste. Esistono i fatti. I fatti sono indiscutibili, intorno ci possono essere almeno due verità. Cioè le verità di parte.

Hai mai subito pressioni, minacce? La tua libertà di parola è mai stata messa in pericolo?

Una volta a San Giuseppe Jato, in Sicilia. E anche a Quindici, in Campania, durante la frana: avevo gruppi di camorristi dietro le spalle durante i collegamenti. Ma mi sono fatto proteggere dai carabinieri e ho comunque potuto dire quello che dovevo dire.

Di giornalismo si muore. Non sono solo numeri in una statistica, ma sono persone che perdono la vita semplicemente per aver fatto il loro dovere, raggiunti anche sotto casa da killer senza volto come Anna Politkovskaja. Tu hai ammesso che il giornalista non è nato per far l’eroe o il martire. Da dove nasce il coraggio?

I numeri sono importanti perché testimoniano un’autentica strage: ogni anno muoiono almeno cento reporter nel mondo con la sola colpa di raccontare. Certo, il giornalista non è un eroe né vuole diventarlo. Fa semplicemente il suo mestiere. Il coraggio nasce dalla passione. Se c’è un evento niente e nessuno potrà mai fermarmi.

Qualcuno disse: “C’era una volta il Giornalismo con la “g” maiuscola”. Il giornalismo sta davvero morendo? E’ tempo per il pessimismo o c’è ancora margine di lotta?

Non muore il giornalismo, diciamo che si sta trasformando. Casomai sta morendo il ruolo di inviato, si lavora sempre più al desk. Un lavoro più da impiegati della notizia che di testimoni. Alla base c’è l’alibi economico: gli inviati costano troppo. Invece è una maniera per omologare tutto.

Grazie della tua disponibilità. Nel salutarti ti chiedo se attualmente stai scrivendo un nuovo libro? Progetti per il futuro?

Ne ho appena scritti due, “Lettere dal Don” sui dispersi in Russia e “Shabab – la rivolta in Libia vista da vicino”. Ma già penso al prossimo che poi sarebbe il settimo. Titolo provvisorio: “La fine dell’impero”. L’impero naturalmente è quello occidentale.

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4 Risposte to “:: Un’intervista a Pino Scaccia”

  1. pietroatzeni Says:

    Bellissima intervista di un giornalista coraggioso, sempre in prima linea che spesso ha visto sfilare la storia davanti ai occhi. Ciao. Pietro.

  2. liberdiscrivere Says:

    Ciao Pietro, bellissime risposte non banali, di un giornalista che si vede ama il suo lavoro, un esempio anche per molti giovani che decidono di fare i reporter. Grazie di essere passato. Un caro saluto Giulia

  3. utente anonimo Says:

    Grazie ;))) Pino Scaccia

  4. liberdiscrivere Says:

    Grazie a te Pino.

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