:: Intervista a Cosimo Argentina a cura di Valentino G. Colapinto

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cosimo_argentinaCosimo Argentina è nato a Taranto il 22 luglio del '63, vive in Brianza dal '90. Ha pubblicato tra l'altro Il Cadetto nel 1999 (Marsilio), Bar blu Seves nel 2002 (Marsilio), Cuore di cuoio nel 2004 (Sironi, ristampato da Fandango Tascabili), Maschio adulto solitario nel 2008 (Manni) e il pamphlet Beata ignoranza nel 2008 (Fandango). 

Vicolo dell'acciaio è ancora una volta ambientato nella tua Taranto, nonostante tu viva in Brianza da ormai vent'anni, e ancora una volta la ritrae con spietata lucidità, come forse solo un emigrato o un esule può fare (penso al rapporto di Dante con Firenze, per esempio). Nel tuo romanzo Taranto viene esplicitamente descritta come un inferno. Il degrado omnipervasivo mi ha ricordato certe pagine di “Ultima Fermata a Brooklyn” di Hubert Selby jr., altro libro durissimo che non lasciava scampo. Sembra che tu abbia con la tua città natale un rapporto viscerale e indissolubile di amore-odio. Ci torneresti mai a vivere, se ne avessi l'opportunità? E come sono recepiti i tuoi romanzi dai tarantini?

Non credo che ci tornerei e non perché non ne abbia voglia, ma perché Taranto è cambiata e io pure e siamo cambiati in direzioni diverse, e forse non capirei più delle dinamiche che allora accettavo quasi per statuto. Oggi non ci riuscirei. I tarantini rispetto ai miei romanzi hanno atteggiamenti variegati, che vanno dall'apprezzamento incondizionato all'ignorare del tutto quello che ho scritto. Questo passando dai critici dell'ultim'ora, ai fan e agli scettici.  

I personaggi di Vicolo dell'acciaio sono molto legati alla loro terra. Innanzitutto, sono fieramente tarantini e disprezzano i provinciali, in secondo luogo sono attaccati al proprio quartiere e il protagonista-voce narrante Mino li identifica addirittura con il nome della strada e il numero civico del palazzo dove sono nati e vissuti. Per non parlare poi dei gechi, ossia gli adulti ormai fossilizzati addosso al loro muro, dove bevono birra e aspettano non si sa bene cosa. Sembra una visione verista del mondo, dove i fottuti di cui racconti le miserie sono condannati al loro sventurato destino fin dalla nascita. Come mai tanto pessimismo? E secondo te l'unica possibile salvezza per un meridionale rimane la fuga altrove?

Non è tanto una connotazione geografica quanto sociale. Il popolo, i lavoratori dipendenti, la carne da cannone vive in attesa che i giorni passino e finiscano le tribolazioni. Gente che vive per pagare l'affitto, i buoni pasto ai bambini e le cure mediche alla madre. Gente che non sa cos'è un fine settimana e neanche ha voglia di saperlo. Questo a Milano, Roma o Taranto. Il mio pessimismo nasce dalla consapevolezza che questo finto ottimismo dilagante, questa moda del benessere e del volersi bene ha generato solo porcherie. Il pessimismo ti fa stare all'erta e ti fa anticipare le situazioni, i disagi, i momenti difficili. Se poi non arrivano tanto meglio.   

Una tua cifra distintiva è lo stile molto personale e immaginifico, che mescola efficacemente il dialetto tarantino con una lingua più letteraria. Ma i tuoi lettori non pugliesi riescono a comprenderlo? E che riscontri hai avuto durante presentazioni o letture fatte al nord?

È normale che molti mi hanno detto: ehi, Argentina, se l'avessi scritto in italiano corrente questo libro avrebbe venduto molto di più. Ma io mi dico: come faccio? Una storia si sceglie da sola la lingua da adottare. Ho scritto romanzi in italiano pulito come Il cadetto, Bar blu Seves, Brianza vigila Bolivia spera, Viaggiatori a sangue caldo, racconti come Messi a novanta e i pamphlet Nud'e cruda e Beata Ignoranza.

Il dialetto l'ho usato per Cuore di cuoio, in minima parte per Maschio adulto solitario e per Vicolo dell'acciaio. Secondo me andavano scritti così e in giro a presentarli non ho avuto difficoltà anche perché, detto fra noi, io presento poco i miei libri e Vicolo ha avuto solo quattro presentazioni a tutt'oggi. 

Mai come in questi anni si stanno affermando tanti scrittori pugliesi sulla scena letteraria italiana, anche se il più delle volte si tratta in realtà di emigrati o “fuorisede”, come li chiama Mario Desiati. Oltre a lui, penso a nomi come Lagioia, Lattanzi, D'Amicis, Di Monopoli e tanti altri. Quali pensi siano le ragioni di questo fenomeno nuovo? E ritieni ci siano dei tratti

che vi accomunano?

Il motivo non lo conosco e la legge dei grandi numeri mi fa un certo effetto, perché credo che se si è in tanti non possiamo essere tutti fenomeni e allora andrebbe fatta una scelta più feroce senza sfruttare il trend del momento, che vede la narrativa pugliese sugli scudi.

Ma per i bravi credo ci sia sempre posto. I bravi devono poter scrivere. Se sono davvero bravi è giusto che siano apprezzati. Quanto ai tratti comuni non so bene, perché conosco abbastanza a fondo solo Carlo D'Amicis, che apprezzo e che mi piace come narratore, molto. Il tratto comune è la terra come terreno di battaglia delle storie… credo solo questo che già è molto. 

Ci puoi anticipare infine qualcosa sui tuoi progetti futuri? Tornerai a raccontare di Taranto oppure hai in serbo un grosso cambiamento rispetto agli ultimi romanzi?

Sto scrivendo una cosa per il teatro che credo non verrà mai rappresentata, ma lo faccio lo stesso. Poi ho un lavoro storico senza Taranto di mezzo e un romanzo dove Taranto torna ma non come unico scenario. Il percorso è iniziato con Il cadetto e arrivato a Vicolo dell'acciaio passando per Cuore di cuoio e Maschio adulto solitario; la considero una quadrilogia fatta e finita. Guardiamo avanti, dunque. 

Valentino G. Colapinto

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