:: Intervista a Raul Montanari a cura di Giulietta Iannone

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GRaul Montanarirazie Raul di aver accettato la mia intervista e benvenuto su Liberidiscrivere. Iniziamo subito con le presentazioni. Raccontati ai nostri lettori.

E’ lunga, sai? Provo a sintetizzare: benché nato indigente, vivo da molti anni, e largamente, di letteratura. Non è male! Ho pubblicato dieci romanzi, più di cento racconti (riuniti anche in tre raccolte) e un sacco di altre cose fra cui tengo molto al libro di poesie Nelle galassie oggi come oggi – Covers, bestseller della “Collezione di Poesia” Einaudi, scritto a sei mani con Tiziano Scarpa e Aldo Nove. Ne abbiamo tratto uno spettacolo che ha fatto più di cento date in Italia. Ho tradotto tanto, da diverse lingue antiche e moderne. Fra le cose più belle metterei L’Edipo Re e l’Edipo a Colono di Sofocle, il Tieste di Seneca, il Macbeth di Shakespeare, Doppio sogno di Schnitzler e la Salomè di Oscar Wilde per il teatro. Nella prosa, quattro romanzi di Cormac McCarthy, uno di Philip Roth, un bellissimo e difficilissimo romanzo di Allan Gurganus che in Italia non ha letto nessuno eccetera. Nella poesia, una scelta di liriche di Edgar Allan Poe (uscite quest’anno nei “Classici Feltrinelli”). Anche da queste ho tratto un reading. Ho sempre fatto solo traduzioni letterarie di autori molto impegnativi che mi hanno insegnato tantissimo. Oltre a ciò, ho dal ’99 una scuola di scrittura creativa che adoro e da cui sono usciti alcuni grandi talenti. Ma tutto questo si trova sul mio sito.

Il bene più  prezioso che ho è la libertà. Come mi è già capitato di dire, ero nato per essere un servo e invece sono il padrone assoluto di me stesso. Non esiste nessuno al mondo che possa darmi un ordine, tranne un poliziotto a un posto di blocco. Scrivo quello che mi pare, grazie anche al mio editore che mi aspetta sempre fiducioso, e faccio quello che mi pare, con molta severità verso me stesso. E questo vale per ogni aspetto della mia esistenza. E’ buffo: vivo più o meno come un aristocratico libertino del ‘700, anche se mio padre era un impiegato e mia mamma una casalinga.  

Parlaci della tua Milano. Vi lega un rapporto di amore e odio?

E’ soprattutto odio. Milano è una città orrenda, presa a mezzo fra una vocazione continentale mancata per troppa inciviltà e un vago rimorso mediterraneo. C’è un modo infallibile per capire quanto è schifosa questa metropoli: girarci solo in bici, come faccio io. Come luogo narrativo invece è eccellente, perché tutta la città tende a essere un nonluogo, cioè un luogo delle possibilità infinite. Un po’ come il West di McCarthy. Da ogni angolo di strada, da ogni porta può uscire l’inatteso. 

Hai iniziato come traduttore. Che ricordi hai di questo periodo? Ci sono dei segreti per fare una buona traduzione?

Il più  grande equivoco che c’è sulla traduzione è l’idea che per tradurre bene si debba soprattutto conoscere molto a fondo la lingua di partenza. In realtà è più importante lavorare creativamente sulla lingua d’arrivo. Nessun lettore, tranne qualche maniaco, verrà mai a rimproverarti perché a pagina 187 hai inserito un aggettivo che nell’originale non c’era o hai sbagliato di brutto la resa di un verbo; in compenso tutti si accorgeranno se la tua traduzione nel suo insieme è noiosa, senza ritmo, bolsa. 

Hai esordito nella narrativa nel 1991 con “Il buio divora la strada”. Come sei arrivato alla pubblicazione? Parlaci del tuo percorso.  

E’ stato un percorso faticoso, perché come certi ragazzotti che fanno ora il giallo noir NON sanno, vent’anni fa c’era una diffidenza enorme verso la narrativa di tensione. Eravamo in pochissimi a farla partendo da una base letteraria, cioè non volendo scrivere nello stile semplificato del giallo Mondadori, per capirci. Verso la fine dell’88 sono entrato in contatto quasi casualmente con Leonardo Mondadori, che aveva appena creato la sua costola della casa-madre. Ho cominciato come traduttore, ma ho presentato subito i miei racconti. Sono piaciuti molto, tanto che mi hanno fatto un contratto, che ho ancora, proprio per un libro di racconti. Siccome però nell’estate dell’88 avevo scritto questo romanzo, alla fine gli è stata data la precedenza. I racconti sono usciti molto più tardi, nel ’98, con Rizzoli. In parte verranno ripubblicati in un albo antologico che il Giallo Mondadori mi dedicherà nell’estate dell’anno prossimo.

“Che cosa hai fatto” è un libro particolarmente forte. Per i suoi contenuti e il suo linguaggio è stato difficile pubblicarlo?

Ci ho messo 10 anni! Per fortuna nel frattempo uscivano altri libri miei. Lo considero il mio libro della vita: forse non è il più bello, di sicuro non è il più piacevole da leggere (specie per la parte del pubblico femminile che è più delicata e pudibonda), ma è il più impressionante e importante che ho fatto. Totalmente inclassificabile. Racconta la storia di un uomo che decide di mollare tutto e concedersi dieci ultimi giorni di vita in cui sperimentare i piaceri più efferati. Il tutto sullo sfondo di una Milano allucinante, invasa da soldati e carri armati, dove alla crisi etica del protagonista fa eco lo sfacelo politico di tutto un mondo. Proprio una cosa grossa. E’ stato rifiutato da tutti, finché parlandone per l’ennesima volta con Scarpa (grande sostenitore del libro insieme ad Ammaniti, ma nemmeno loro erano riusciti a convincere gli editori!) non è venuta fuori l’idea di cambiare il modo in cui la storia veniva raccontata: non più in terza persona al passato, ma in prima persona al presente, in modo da bypassare la continua domanda che i lettori delle case editrici si facevano: “Ma perché lui fa questo? Perché?” Ho imparato così che raccontando una storia in prima persona hai meno bisogno di motivare psicologicamente il protagonista. Il lettore accetta il gioco di mettersi per così dire in faccia la sua maschera e di vivere l’avventura insieme a lui. Anche Arancia Meccanica è raccontato in prima persona. Comunque per Che cosa hai fatto il nome che è stato citato più spesso è stato Sade, il che mi ha onorato perché è stato uno scrittore immenso. 

Andrea Camilleri ti ha definito uno “scrittore mistico”, da ateo dichiarato che rapporto hai con il concetto di divinità non necessariamente quello cristiano?

Io sono un ateo cattolico. Sono cresciuto nel cattolicesimo, come tutti, e quando ho smesso di credere in Dio non ho smesso di fare due cose. La prima: conservare la mia cultura cattolica e mescolarla con quella classica e quella illuminista. Del cattolicesimo mi rimane per esempio il senso di colpa, che è  una molla fortissima nell’azione dei miei personaggi. La seconda cosa: non ho mai smesso di interrogarmi sui misteri grandi, quelli per i quali la fede in Dio è una risposta possibile, rispettabile, da me non condivisa. Comunque, se io non credo in Dio credo però nella fede degli uomini e nella sua forza incredibile. Qualunque oncologo ti dirà che è più facile curare un credente che un ateo – o, peggio ancora, uno che magari va a messa la domenica ma in realtà non crede. In questo la fede assomiglia alle arti marziali: ti dà risposte certe, veloci, su come reagire alle aggressioni della vita. Pensa cos’è la preghiera. Un uomo in crisi, magari in pericolo di vita, pregando convoca addirittura le entità supreme, chiama ad aiutarlo, ad assisterlo, Dio, Cristo, la Madonna, gli angeli! Ti rendi conto? Prova per un attimo a considerare la potenza di questo gesto. Un ateo non può fare nulla di simile. D’altronde per me la verità vale più della felicità. Io sarei un uomo più felice se potessi far conto sulla fede, ma la fede non ce l’ho e mi farebbe orrore simularla. Sarebbe anche inutile simularla, perché potrei ingannare gli altri ma non me stesso. La verità, per me, è che siamo soli, senza nessun dio che ci assista e nessuna speranza di sopravvivere alla morte. A volte non è facile vivere con questo grande nulla intorno a sé. 

Molti critici ti hanno definito capostipite del post noir ovvero un noir non più costretto nei paletti dell’investigazione classica ma un noir dell’anima. Sei d’accordo, ti riconosci in questa definizione?

L’ho suggerita io stesso per primo. E’ anzitutto una forma di onestà verso il lettore: non voglio che un vero appassionato di narrativa criminal-poliziesca prenda per equivoco un mio libro e ne rimanga deluso perché mancano il detective e/o il criminale, manca la cadenza metronomica degli omicidi e così via. E non voglio che una lettrice di romanzi psicologici scarti a priori un mio libro temendo appunto che contenga quegli elementi. 

Parlaci di “Strane cose domani”, il tuo ultimo libro edito per Baldini Castoldi Delai. Senti di aver raggiunto una certa maturità stilistica e anche personale?

Sai, la voce di un autore che lavora e fa esperimenti con la sua scrittura evolve sempre. E’ come lo stile di un musicista o di un pittore. Io penso di aver trovato la mia voce attuale parecchi anni fa, direi nei primi anni ’90, quando ho cominciato a cercare una grande fluidità. Nei racconti scritti prima d’allora e anche nei miei primi romanzi c’era un linguaggio più inarcato, più “colto”, diciamo, anche perché allora per farti accogliere nella società letteraria dovevi un po’ mostrare i muscoli. Direi che nei romanzi degli anni 2000 c’è un linguaggio più maturo, scorrevole, gentile con il lettore. La cultura resta nascosta, eppure si sente. Sul piano personale, curiosamente quello che ora sto facendo è mettere molto più di me stesso in quello che scrivo. Di solito è il contrario: uno comincia facendo autobiografia (è un classico dell’opera prima!) e poi allarga la visuale. Io ho cominciato cercando una scrittura molto oggettiva, nascondendomi dietro i personaggi e le storie. Oggi cerco di usare protagonisti che mi somiglino e mi consentano, senza forzature, di esprimere concetti personali e, spero, profondi sulla vita e sulle relazioni fra le persone. Cerco sempre la massima leggibilità, ma adesso oltre alla storia cerco di dare al lettore più spunti di riflessione. Un’altra curiosità è che nei miei ultimi libri c’è un umorismo che era assente nelle cose degli anni ’90. I lettori mi sembrano molto contenti di questa novità. Infatti sia L’esistenza di dio, sia La prima notte sia ora Strane cose domani, i romanzi in cui più si nota questa evoluzione, hanno avuto una risposta assai forte, in crescendo.

Strane cose, domani, non a caso, nasce da un fatto vero: due anni fa ho trovato su una panchina di parco Sempione il diario di una ragazza. L’ho cercata e incontrata. Lei mi ha confessato che quel giorno nel parco aveva abbandonato non uno ma SETTE diari! Appena me l’ha detto ho immaginato: e se io mi innamorassi di lei? E se un altro uomo, a mia insaputa, avesse trovato a sua volta uno dei diari e si innamorasse pure lui di Federica? Potrebbe cominciare una sorta di partita a scacchi fra due avversari invisibili, che non sanno nulla l’uno dell’altro, finché piano piano ciascuno dei due comincia a percepire questa presenza estranea e ostile… Da lì è partito tutto. E’ una delle storie più belle che ho mai raccontato, e pare che anche critica e pubblico la pensino così. E’ in corso scrittura la sceneggiatura. 

Quale è il libro più bello in assoluto che hai letto?

Se devo dire un titolo secco: Franz Kafka, Il processo. Se Dio fosse uno scrittore avrebbe scritto quel libro lì, e non mi sento di escludere che l’abbia fatto davvero. Dio ha questa tendenza irritante a incarnarsi negli ebrei, mai nei bergamaschi! Però sull’isola deserta io mi porterei tutto Shakespeare. Lo rileggo interamente ogni quattro o cinque anni.  

C’è uno scrittore esordiente che ti ha particolarmente colpito?

Quest’anno? Gaia Manzini con il suo Nudo di famiglia (Fandango). E’ stata un’allieva della mia scuola, ma se devo dire la verità aveva pochissimo da imparare. 

La cosa più  difficile che hai dovuto fare nella tua carriera di scrittore.

Accettare il mio destino. Cioè capire che non avrei mai fatto il botto iniziale che era toccato al primo o secondo libro di autentici cretini (ma anche di autori che invece ammiravo e di cui ero amico, come i già citati Scarpa, Ammaniti, Aldo Nove), ma che dovevo accettare di allargare il mio consenso di pubblico e critica gradualmente, come infatti è avvenuto. E intanto leggere, scrivere, tradurre, insegnare agli esordienti, aiutare i talenti, andare sui media e in tv a dire la mia opinione sul mondo, insomma essere felice della fortuna che mi era toccata di poter parlare. Di avere la parola e chi l’ascolta.

Un giorno, quand’ero bambino, ho chiesto ai miei genitori: “Cos’è la felicità? Quand’è che uno è felice?” “Quando è innamorato” ha risposto mia mamma. Mio padre ha sorriso: “Quando fa il lavoro che gli piace”. Credo che avesse ragione mio padre. Benché l’amore… 

Raul Montanari e la critica letteraria. Più soddisfazioni o delusioni?

Nessuno mi ha mai offeso. Ho avuto pochissime stroncature: credo cinque o sei in tutta la mia carriera, soprattutto nella prima metà. Semmai mi è dispiaciuto non essere stato recensito, finora, da un paio di critici che stimo. 

Attualmente stai scrivendo? Puoi anticiparci qualcosa?

Ho finito la prima stesura del prossimo romanzo, che penso di far uscire nell’inverno-primavera del 2011. Io farei un romanzo all’anno, ma è sbagliato. I critici si innervosiscono e rischia di passare l’immagine di un routinier. E’ la storia di uno scrittore di cinquant’anni a cui succedono alcune cose molto curiose. Diventa l’amante di una sua allieva di creative writing, della quale non ha nessuna stima come autrice, e che invece gli riserverà delle sorprese e lo metterà in crisi nera. Nel frattempo è perseguitato dall’uomo che vive con la sua ex moglie, che gli chiede continuamente soldi e lo ricatta nel modo più subdolo e paradossale: non facendo del male a lui o ai suoi cari, ma ai suoi nemici! Il che lo mette nei guai ugualmente, perché tutti pensano che lui sia il mandante di questo farabutto. E altro ancora. Se non mi tirano sotto mentre giro in bici e non mi viene qualche brutto male, o non mi accoltella qualche marito (o padre) furioso, penso che avrò tempo di scrivere ancora almeno una decina di romanzi. Forse di più, dipende da tante cose. Poi morirò e la gioia e il dolore e il rancore e il perdono e i capelli profumati delle donne e le pagine meravigliose scritte da altri e il lago dove sono nato e la paura e l’amore indeciso e la stanchezza e gli odori e i colori delle cose e tutto il prendere e tutto il dare finiranno, puff. Buio. Spero che avrò  un ultimo attimo di coscienza, per poter dire: ”Be’, è stato bello, grazie”. Oppure: “Oh, cazzo!”.  Forse più  facile la seconda.

Recensione di Corpi Freddi

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Una Risposta to “:: Intervista a Raul Montanari a cura di Giulietta Iannone”

  1. chopy Says:

     Grande Giulia… ottimo lavoro.

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