:: Un’intervista con Giorgio Ballario, autore de “L’equivoco del sangue” a cura di Giulietta Iannone

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Grazie Giorgio per avere accettato questa mia nuova intervista e bentornato su Liberi di scrivere. È appena uscito il settimo episodio della serie Morosini, intitolato L’equivoco del sangue, vuoi spiegarci il titolo a cosa si riferisce?

Grazie a te per lo spazio e la disponibilità. Il titolo prende spunto dal sangue di un delitto, ovviamente, ma anche da un tema che percorre l’intero romanzo, cioè le conseguenze, spesso negative, talvolta anche drammatiche, delle relazioni fra coloni italiani e donne indigene, in Eritrea come nelle altre colonie. Relazioni dalle quali potevano nascere figli che erano per l’appunto “mezzosangue” e poiché erano frutto di unioni clandestine non avevano gli stessi diritti degli altri bambini.

Siamo nel dicembre del 1937, ad Asmara viene aggredita e uccisa per strada la domestica di un’importante famiglia di coloni italiani, di origine piemontese e valdese. Così Morosini viene richiamato dalla sua licenza a Massaua per indagare sempre in compagnia del maresciallo Barbagallo e dello scium-basci Tesfaghì. Sarà un’indagine complessa con parecchie diramazioni. Importante indizio le impronte lasciate vicino al corpo della donna, vero?

Le impronte sono un indizio importante, ma siccome le indagini scientifiche all’epoca erano poco diffuse saranno altri elementi a mettere Morosini sulla strada giusta. Ma solo alla fine del romanzo, perché prima, a lungo, lui e i suoi collaboratori brancolano nel buio.

Puoi parlarci dei fatti riguardanti Debra Libanòs, una pagina davvero molto buia della nostra presenza in Etiopia, e quasi del tutto dimenticata.

È un brutto episodio della nostra storia coloniale avvenuto nel maggio del 1937. Non fa parte di questo romanzo ma compariva meglio in uno precedente della serie: dopo l’attentato dei Giovani Etiopi contro il vicerè Graziani di pochi mesi prima, nel quale il generale rimase ferito e ci furono alcuni morti, le forze militari italiane diedero il via a una repressione molto violenta dei “ribelli” etiopi, che culminò appunto nel massacro di Debra Libanòs. Decine di guerriglieri etiopi avevano trovato rifugio nel monastero copto e l’esercito italiano, dopo averlo accerchiato e conquistato con l’ausilio degli ascari somali e libici e di collaborazionisti etiopi di etnia Galla, fucilò sia i guerriglieri, sia centinaia di monaci considerati complici.

A seguito di questi sanguinosi fatti Graziani venne richiamato in Italia e il duca d’Aosta prese il suo posto come viceré, forse anche su pressione della chiesa copta. Nel tuo libro parli anche del coinvolgimento di missionari svedesi nel sostegno ai ribelli. In che misura anche i religiosi divennero strumento politico dei rispettivi governi? Ti sei fatto un’idea in proposito.

Non so se ci furono pressioni della Chiesa copta, non credo avesse la forza di farlo. Di certo c’era la volontà di ricostruire un sistema di relazioni più amichevoli con i copti e con le etnie etiopi che erano meno ostili all’occupazione italiana. E poi lo stesso Graziani aveva parecchi nemici “interni”, credo che lo stesso Mussolini lo considerasse adatto per operazioni belliche ma meno per governare.

In cosa consisteva la pratica del “madamato”, ed era così diffusa nella struttura sociale coloniale in Eritrea?

Il madamato era la consuetudine del concubinaggio, cioè della convivenza più o meno regolare tra un colono e una donna locale, una relazione non soltanto sessuale ma anche affettiva che spesso sfociava nella nascita di vere e proprie famiglie che però non erano unite dal vincolo del matrimonio.

Che libri o film ti hanno ispirato nella stesura del libro?

Non c’è stata nessuna ispirazione particolare che ha influenzato questo romanzo, almeno in modo esplicito. Poi è ovvio che tutto ciò che ho letto e guardato riguardo l’esperienza coloniale ritorna qui, come negli altri libri.

Sembra che un nuovo personaggio femminile abbia fatto capolino nel libro, la vedova Caterina. Prevedi uno sviluppo in questo senso o resterà un evento isolato della sua vita? Magari Erika o Lucilla sono donne più adatte ad alleviare la solitudine di Morosini?

Mai dire mai, però non credo che Caterina abbia le caratteristiche giuste per rappresentare una presenza fissa nel futuro di Morosini. Quanto a Erika e Lucilla, compaiono già da parecchi episodi e prima o poi bisognerà capire che cosa sarà di loro.

Ami inserire nelle tue storie personaggi storici realmente esistiti, in questo episodio è la volta di Comisso, giornalista e scrittore, vuoi farci un breve accenno a questo personaggio?

Giovanni Comisso è uno scrittore veneto ormai un po’ dimenticato (anche se adesso La Nave di Teseo sta ripubblicando alcuni suoi romanzi) che conobbe fama e successo negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma aveva iniziato molto prima, con buoni risultati, tant’è vero che quando incontra Morosini in “L’equivoco del sangue” è già un autore affermato e collabora con importanti quotidiani italiani. In questo caso, ed è ovviamente tutto vero, si trovava in Eritrea per conto della Gazzetta del Popolo. Dopo l’esperienza nella Grande Guerra era stato volontario a Fiume con D’Annunzio e aveva visto di buon occhio l’ascesa del fascismo, ma verso la fine degli anni Trenta era ormai deluso dall’esperienza politica e in parte censurato perché accusato di aver scritto un libro “disfattista” sulla prima Guerra Mondiale.

A parte Lucarelli, e Cellamare, ancora pochi scrittori di narrativa trattano nei loro libri di tematiche legate al colonialismo in Africa e all’avventura coloniale italiana in genere. Passano gli anni è la tua serie resta ancora quasi un unicum nel panorama letterario nazionale. Da un certo punto di vista ti permette maggiore libertà e originalità, da un altro è sempre un segno di trascuratezza culturale. Pensi ci siano alcuni segnali che le cose cambieranno?

C’è stato anche qualcun altro che si è cimentato con il fenomeno coloniale, penso a Davide Longo con “Mattino a Irgalem” (che è più un libro sulla guerra, però), a Enrico Brizzi con il suo ucronico “L’inattesa piega degli eventi” e al romanzo storico “I fantasmi dell’impero” di Dodero, Panella e Consentino. E poi il capostipite, Ennio Flaiano con il capolavoro “Tempo di uccidere”, che però è un libro del 1947 ed è quasi autobiografico, perché lui stesso combatté in Abissinia. Per il resto è vero, il fenomeno coloniale ha prodotto poca letteratura ed è un peccato.

Hai avuto modo di presentare all’estero la serie? In che paesi preferiresti che venisse tradotto e distribuito? Ci sono novità in tal senso?

Purtroppo no, lo scorso anno è stato tradotto in Spagna un romanzo della serie contemporanea del detective Hector Perazzo, ma nulla più. Forse Morosini e l’ambientazione coloniale è troppo legata alla storia italiana, anche se penso che uno straniero la potrebbe comunque leggere come un’affascinante saga poliziesca ambientata in un luogo esotico.

Sei già all’opera per l’ottavo episodio del maggiore Morosini, puoi anticiparci qualcosa?

No, non ho ancora neppure l’idea. Nei prossimi mesi voglio dedicarmi alla promozione di questo romanzo, appena uscito, e a concludere un nuovo capitolo della serie di Hector. Poi vedremo, di solito faccio passare un paio d’anni prima di tornare in libreria con Morosini, quindi ne potremo riparlare nel 2026.

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