Da quando Adam era nato, non aveva mai udito un silenzio del genere.
I suoi compagni non parlavano, i tedeschi neppure, la natura stessa sembrava essersi ammutolita, spettatrice imparziale ormai abituata allo spettacolo.
Il cielo appariva incolore. Era grigio forse, un grigio tendente al bianco. Ma a quella lunga fila di figure, talmente esili che sarebbero potute svanire da un momento all’altro, il cielo non comunicava nulla. La sua funzione consolatoria era esaurita e cosi, la volta celeste, sovrastava con dichiarata indifferenza l’enorme perimetro in cui a migliaia, come lui, erano entrati.
Un perimetro da cui nessuno era mai uscito.
In quel luogo non c’erano uomini: soltanto tedeschi e numeri.
I tedeschi indossavano uniformi scure e stivali.
I numeri non avevano altro che un leggero pigiama a righe bianco e azzurro ed erano scalzi.
I tedeschi impartivano ordini, i numeri obbedivano.
Qualche numero rallentava e per questo veniva punito.
Lui era 71771. Adam era ormai una vecchia parola priva di significato che gli aleggiava in testa: apparteneva ad uno di quei ricordi che aveva dovuto cancellare per sopravvivere.
Teneva il capo chino, come ogni giorno da quando era nel campo. Fissava costantemente i suoi lunghi piedi scheletrici, sporchi e graffiati, con ferite aperte che non aveva intenzione di medicare, consapevole che non sarebbero mai guarite.
Quando era arrivato lì, la fase successiva alla disperazione era stata il tenace attaccamento alla vita, ma adesso, in fila insieme agli altri numeri, non provava più nulla.
Quando due numeri della stessa fila si incrociavano tra loro, avevano la sensazione di specchiarsi. I volti stanchi, rassegnati, sporchi di terra e cosparsi di lividi, gli sguardi appesantiti da occhiaie ogni giorno più evidenti, non erano altro che differenti espressioni dello stesso spirito. Uno spirito grave, colmo di dolore. Un dolore che era remissione, totale abbandono della speranza.
Capitava, ogni tanto, di incrociare occhi furbi, vivaci: numeri come quelli bisognava evitarli. Erano occhi di chi era arrivato da poco, in cui si poteva riconoscere la speranza.
71771 sapeva bene che lì dentro niente era più pericoloso della speranza. Spesso gli speranzosi provavano a fuggire, illusi dal dannato sogno di potercela fare. Coinvolgevano altri in quelle folli imprese che naturalmente fallivano.
La sorte non riservava loro nulla di buono.
Gli uomini animati da speranza portavano in cuore fino all’ultimo secondo l’illusione della libertà. Così tutto il dolore, che i numeri rassegnati avevano accolto e lentamente assimilato, distribuendolo un po’ alla volta nei giorni di permanenza al campo, si riversava invece terribile sugli speranzosi e sul loro finale. Nel momento stesso in cui entravano nelle docce, o in cui lo sportello del forno si spalancava davanti ai loro occhi vivi, la speranza conservata con cura svaniva in un istante.
Era la presa d’atto di un dolore che gli altri da tempo comprendevano bene.
Intuirla in un attimo, prima della fine, era agghiacciante.
Così, una volta arrivati ai forni, c’erano due tipi di numeri: quelli che portavano con loro la speranza, e i rassegnati.
Nel primo caso si trattava di uomini diversi dal resto: lo si notava all’istante.
Erano coloro che la notte riuscivano a dormire, le cui occhiaie erano ridotte. Erano coloro che ogni giorno si medicavano le ferite ai piedi, pur consapevoli che si sarebbero riaperte. Erano coloro che guardandosi intorno, credevano ancora di essere circondati da uomini, non da numeri o da tedeschi. Erano coloro che avevano vivo nella memoria il ricordo del proprio nome, e che continuavano a usarlo, indifferenti delle terribili cifre che marchiavano i loro polsi. Erano coloro che durante le interminabili giornate di lavoro si impegnavano a fare il massimo, mossi da false speranze riguardo i nazisti. Erano coloro che più volte, guardando alla rete elettrica che delimitava il campo, sognavano uno squarcio, una via di fuga. A differenza di quelli che non vi vedevano altro che la maniera più veloce per porre fine alla sofferenza.
Erano coloro che una volta tornati in dormitorio, non si chiudevano nel loro silenzio a riflettere sul male che gli era capitato, ma conversavano e si scambiavano il pane. Erano coloro che ancora credevano di appartenere alla razza degli uomini, non del tutto coscienti di ciò che li circondava.
Quelli così, in fila verso il forno, sentivano il mondo crollargli addosso. Si guardavano intorno e per la prima volta non riconoscevano nulla di umano in ciò che li circondava.
Abbassavano il capo, si esaminavano i polsi e, per la prima volta, vedevano in quel numero tutto ciò che erano: nient’altro che sei cifre.
I nomi che fino a quel momento avevano fieramente ricordato, erano immagini sbiadite di un altro mondo: quello che circondava il campo. Quello prima delle leggi razziali.
John, Isaac, Gabriel, David, Adam: insensate sequenze di lettere vuote. Tutto ciò che erano stava racchiuso in quelle sei cifre, e solo in fila verso i forni se ne rendevano conto.
La speranza, fino a quel momento conservata nei loro cuori, adesso si dibatteva, scalciava, sfregava per uscire; apriva insanabili ferite, voragini destinate a rimanere spalancate. I cuori che avevano osato sperare, in un attimo si ritrovavano dilaniati. Il sogno fuoriusciva, andava via per sempre, oltre la rete elettrica e il filo spinato.
Il loro essere uomini finiva lì.
La loro anima spariva, restava il numero sul corpo che si rannicchiava per l’ultima volta, in attesa di diventare cenere.
Gli altri, invece, coloro che non speravano, avevano già fatto ingresso in quel buio in precedenza, razionandolo durante i mesi passati. Avevano sminuzzato il dolore in così tante piccole parti e senza accorgersene erano diventati numeri.
Il loro cuore era solo il riflesso del numero. E invece di fracassarsi violentemente nel momento finale, si era lentamente danneggiato, sgonfiandosi e ricadendo flaccido su sé stesso. Quell’uomo/numero, ormai privo di anima, non scorgeva più differenza tra la “vita” in quel campo, e la morte nelle docce, o nel forno.
71771, seguendo la fila, fece un passo in avanti.
Ad ogni passo un numero era diventato cenere, liberando il posto a quello dopo di lui. Un passo, un altro passo, il suo turno era sempre più vicino.
Non gli interessava.
Sentì dei rumori alle sue spalle, poi le grida, infine un colpo secco che risuonò nell’aria. Qualcuno aveva provato a scappare.
Non si voltò neppure a controllare.
Era quasi arrivato il suo turno, quando la fila smise di procedere. Un tedesco sbraitò un ordine: si tornava in dormitorio.
Il massacro, per oggi, era finito.
Adam Fondane riaprì gli occhi, doveva essersi addormentato sulla poltrona. Il televisore di fronte a lui dava qualche notizia confusa che non gli interessava.
Guardò sullo schermo in basso a destra, lesse “Gennaio 2020”.
“Lo era davvero?” si chiese distogliendo lo sguardo.
Come uscito improvvisamente da uno stato di estasi, si rese conto della figlia che lo chiamava dalla cucina: doveva essere pronta la cena.
Si posò sul bastone poggiato di fianco al bracciolo, e con uno sforzo immane si alzò.
“Come sono riuscito a raggiungere questa età?”.
Tutti i suoi amici erano morti. Sua moglie era morta. L’ultima volta che l’aveva vista era stato quando un nazista gliel’aveva strappata urlando: “Sinistra! Tu sinistra!”.
Era passato un tempo incalcolabile, ma quel momento non si era mai cancellato dalla sua memoria, così come il volto della sua sposa.
Uscì dal salotto, e con movimenti estremamente lenti, intervallati da gemiti di dolore, imboccò il corridoio verso destra.
Quella casa era troppo grande per un uomo della sua età.
Proseguendo fiacco verso la cucina, gli tornò in mente il pensiero che aveva cercato di evitare: quello che gli sembrava così nitidamente di aver vissuto, non era un sogno, ma un ricordo. Un ricordo nel quale era rimasto intrappolato anni prima e da cui non era mai riuscito a liberarsi.
Nel momento in cui era entrato in quel campo, nell’istante stesso in cui era diventato un numero, già sapeva che non sarebbe potuto tornare indietro.
Forse, se i Russi fossero arrivati con un giorno di ritardo, nel forno sarebbe stato il suo turno.
Camminando lungo il corridoio di casa riviveva quella terribile fila.
Era rimasto nel lager. L’illusione non erano i brutti sogni che lo visitavano mentre dormiva nel suo letto di città. L’illusione era il suo letto, la casa, la città.
Solo Auschwitz era reale.
Tutto il resto era finzione.
Ripensò al campo e ai malati di speranza, quelli che aveva evitato e che gli apparivano come ciechi e folli.
D’improvviso comprese che avevano ragione loro.
Se anche lui ne avesse conservata un briciolo di quella speranza, oggi sarebbe meno difficile sopravvivere.
Edoardo Francesco Grassi è nato a Foggia il 4 ottobre 2004.
Frequenta il Liceo scientifico, nel suo indirizzo sperimentale che prevede i tradizionali 5 anni in soli 4, infatti va a scuola anche il pomeriggio. Il suo indirizzo si chiama Quadriennale.
Vive con i genitori e suo fratello di 17 anni.
È un ragazzino tranquillo che ama la compagnia, ma non trova molti ambiti di condivisione con i suoi coetanei, che non amano come lui la lettura e la scrittura. Si è abituato a mediare un po’ tra la sua sensibilità e il suo ambiente, che purtroppo qui al sud ha meno stimoli culturali rispetto ad altri luoghi d’Italia.
Frequenta qualche festival di genere tipo il Lucca Comics e non ama i video giochi.
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