:: Un’intervista con Federico Castigliano a cura di Giulietta Iannone

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flânerieBenvenuto Federico su Liberi di scrivere e grazie di aver accettato questa intervista. Sei Professore dell’Università di Studi Internazionali di Pechino. La tua specialità è la storia letteraria e culturale di Parigi. Hai insegnato per molti anni in Francia e hai fatto parte dell’équipe di ricerca dell’Università di Paris-Sorbonne. Parlaci dei tuoi studi, dove hai studiato, che materie, che ricordi hai della tua vita da studente?

Cara Giulietta, è un vero piacere per me essere ospitato dal tuo blog. Per cominciare ti dico che il mio percorso è segnato da quel nomadismo che oggi caratterizza, per vocazione o per necessità, la vita di molti giovani italiani. Tutto è iniziato all’Università di Torino dove ho studiato Lettere moderne. Sono stati anni di studio appassionato e molto intenso. Di Torino ricordo soprattutto gli aperitivi in piazza Vittorio, i portici di via Po, l’austera eleganza dei suoi palazzi. La città mi ha trasmesso un sentimento di ordine e di vaga grandezza che in qualche modo è entrato a far parte di me. Ho completato la mia formazione a Parigi, dove mi sono trasferito per il Dottorato in Letterature comparate. Ho trascorso nove anni in Francia. In quel periodo ho letto forse di meno e mi sono lasciato trasportare dal clima spumeggiante della città. Ho frequentato persone che venivano da ogni parte del mondo, persone anche molto diverse da me. Ciò mi ha permesso di acquisire una mentalità più aperta e cosmopolita. Approfittando del fondo sterminato di libri e di documenti della Biblioteca Nazionale, mi sono specializzato nella storia letteraria di Parigi.

Ora insegni e per giunta in Cina, un paese ancora lontano e misterioso per noi italiani. Raccontaci qualcosa della tua vita in Cina, come ti hanno accolto, come ti sei ambientato, come i tuoi studenti si immaginino sia l’Italia, amano questo paese, la sua letteratura, le sue usanze?

Quando si arriva in Cina e non si parla cinese ci sono tante difficoltà pratiche da superare. Come leggere o scrivere il proprio indirizzo? Dove trovare il pane? Come comunicare con le persone visto che quasi nessuno in Cina parla lingue straniere? Sono stato obbligato a mettere in discussione il mio stile di vita e le mie certezze, ma questo sconvolgimento mi ha permesso di “ricostruirmi” in un modo più completo e complesso. Per il lavoro mi sono trovato subito bene. In parte per la disponibilità dei colleghi e degli studenti, in parte perché ho saputo adattarmi velocemente alla mentalità cinese. Diciamo che la vita per uno straniero a Pechino non è per niente facile, ma se ce la fai a resistere puoi approfittare del clima effervescente della città: ti nutri dell’energia che circola nell’aria e che ti spinge a “voler fare”.

Cosa consiglieresti ai ragazzi italiani che volessero seguire le tue orme. Studiare le lingue? Leggere libri nella lingua del paese dove si vuole andare a vivere? Imparare gli usi e costumi del posto?

Per intraprendere una carriera accademica o comunque tentare un percorso internazionale occorre in primo luogo saper rinunciare alle comodità di casa propria. Molti ragazzi italiani sanno parlare le lingue straniere. Ho però la sensazione che alcuni di loro, specialmente i giovanissimi, abbiamo una certa difficoltà a interpretare il mondo di oggi. Per vivere nel presente non è sufficiente saper usare Instagram, vedere un telefilm in inglese o scattare fotografie con il cellulare. La vera sfida, quella che i giovani dovrebbe intraprendere, consiste nel rivoluzionare se stessi e acquisire una visione del mondo più flessibile e nuova.

Come è la vita culturale a Pechino. Ci sono tante librerie, fiere del libro, incontri, presentazioni, case editrici?

Il fascino della Pechino di oggi risiede nel contrasto tra tradizione e modernità. Si può trovare chi fa un barbecue improvvisato ai piedi di un grattacielo. È una città dove confluiscono persone da ogni regione della Cina e si può dire in un certo senso che si tratta di una metropoli multi-etnica. La vita culturale è interessante perché a Pechino ci sono soprattutto tantissime università. È possibile assistere a conferenze, collaborare con ricercatori e partecipare a molte attività accademiche. Questa è una delle ragioni per cui amo Pechino. Per quanto riguarda le librerie, invece, devo dire che in città sono davvero pochissime: un po’ perché la gente lavora tanto e non ha tempo per leggere, un po’ perché i libri qui si comprano quasi esclusivamente on line e vengono consegnati a casa.

Quali sono i libri cosiddetti bestseller attualmente in Cina? Si pubblicano libri stranieri? Anche italiani?

Ci sono diversi libri italiani famosi in Cina, dal Decameron ai romanzi di Calvino e di Elena Ferrante. Purtroppo però nei paesi asiatici i libri in inglese prevalgono rispetto agli altri stranieri: e questo avviene non perché la letteratura anglo-americana sia migliore rispetto alla nostra – o a quella francese, portoghese, araba ecc… – ma solo perché tutti studiano l’inglese e la gente finisce per credere, erroneamente, che i libri in quella lingua abbiamo un’importanza maggiore. Ciò accade purtroppo anche in Italia. La missione di un professore di cultura italiana e francese in Cina consiste anche nel mostrare agli studenti che non si può appiattire la cultura europea o “occidentale” a quella americana.

Hai pubblicato da poco un libro dal titolo Flâneur. L’arte di vagabondare per Parigi. Questo lavoro, che si situa a metà strada tra il saggio e il racconto auto-biografico, è il frutto di anni di ricerche e di avventure a Parigi. Il libro giunge al seguito di diverse tue pubblicazioni universitarie e racconti sul tema della flânerie e del rapporto tra letteratura e storia urbana. Ce ne puoi parlare più approfonditamente?

Durante gli anni passati a Parigi ho scritto molte cose sulla flânerie: saggi accademici, ma anche racconti e narrazioni delle mie avventure urbane. Avevo tutto sul mio computer e, quando sono partito dalla Francia, ho pensato che fosse giunto il momento di dare un senso a quel lavoro. Ho pensato a un libro che fosse al contempo teorico e romanzesco, secondo il modello usato da Benjamin per il suo lavoro sui passages parigini. Ho quindi ideato una struttura che alterna capitoli narrativi (numeri dispari) e saggistici (numeri pari). Ho immaginato così che il lettore potesse muoversi liberamente nel mio libro, come un vero flâneur.

Come mai hai scelto l’autopubblicazione?

Per l’edizione italiana, così come per quella inglese e per quella francese che uscirà in primavera, ho provato la via dell’auto-pubblicazione. È stata un’avventura appassionante, ma di certo non un’improvvisazione, almeno nel mio caso. Sono arrivato a questa scelta dopo aver scritto una tesi di Dottorato e dopo aver pubblicato articoli e saggi su importanti riviste accademiche francesi, italiane e inglesi. Ma soprattutto mi sono avvalso dell’aiuto di eccellenti collaboratori: un ottimo editor e un designer per la produzione del libro in formato cartaceo ed e-book. Per le traduzioni mi sono rivolto a professori universitari conosciuti e di esperienza. Devo dire che la mia è stata una scelta vincente, sia per i tempi rapidi di pubblicazione, sia per le vendite che sono state davvero importanti e hanno superato ogni mia previsione. Auto-pubblicarsi significa prendere in mano il proprio destino e non attendere che siano altri a decidere per te quando, dove e come le tue parole e le tue idea verranno rese pubbliche. Tuttavia è un strada impegnativa e insidiosa, che consiglio solo agli autori che hanno già qualche esperienza editoriale e qualche soldo da investire.

La parola flâneur deriva dal verbo francese flâner che significa «gironzolare», «perdere il proprio tempo». Cosa distingue il flâner dal semplice turista?

Il flâneur è un personaggio storico, una delle figure tipiche della Parigi ottocentesca, ma può essere anche inteso, oggi, come il simbolo di un atteggiamento nuovo rispetto alla città. Il flâneur – e usando questo termine mi riferisco a un soggetto che può essere sia maschile che femminile ovviamente – abbandona il punto di vista ristretto del turista che ha imprigionato la città nei cliché della televisione, del sentito dire, dei giornali. Il flâneur si sottrae alla macchina del consumismo che tende a ridurci a passivi ricettori di uno spettacolo, ad automi. Il flâneur mantiene un atteggiamento ambiguo rispetto alla città: un certo distacco critico proprio del detective che analizza le facce e le andature dei passanti, e, al contempo, una volontà di immergersi nella folla fino a confondersi con essa.

Parigi la conosco, ci torno almeno due volte all’anno, ma per me la Cina è un grande amore, anche se non l’ho mai visitata. Ci descriveresti un itinerario tipo per chi volesse vederla per la prima volta?

Ci sono tante città interessanti in Cina. Alcune sono famose anche in Italia, come Canton, Shanghai o Xi’an, altre sono davvero molto belle ma misconosciute, come Xiamen, Qingdao o Tianjin. Se dovessi consigliare una sola città in Cina, per chi avesse davvero poco tempo, consiglierei però Pechino: per la sua centralità storica, politica e culturale e perché permette in un solo colpo di vedere il lato più moderno e quello tradizionale della Cina.

Il tuo sito internet, per chi fosse curioso è : federicocastigliano.com. Ricevi tanti messaggi dai lettori? Come possono contattarti e come interagisci con loro?

Si, ricevo diversi messaggi di lettori che mi contattano attraverso il mio sito o la mia pagina Facebook. Alcuni mi scrivono per farmi complimenti e ciò fa sempre piacere. I consigli e le critiche anche sono utilissimi. Il contatto con i lettori è indispensabile per migliorare e per dare un senso al proprio lavoro. La scrittura deve essere intesa come un processo piuttosto che un risultato imperfettibile. Cerco quindi di ascoltare i giudizi e i desideri di chi mi scrive, perché dal confronto con loro posso imparare molte cose.

Grazie Federico, è stato un vero piacere conversare con te, come ultima domanda ti chiedo, ringraziandoti della disponibilità, se hai in progetto altri libri, autopubblicati o meno?

Con la mia collega Sunshuang dell’Università di Studi Internazionali di Pechino stiamo lavorando alla versione cinese di Flâneur, che sarà pubblicata da una casa editrice di Pechino. Si tratta di un lavoro complesso, non solo sotto il profilo strettamente linguistico. Bisogna spiegare ai cinesi questo concetto di “vagare senza una meta” che, di primo acchito, potrebbe sembrare assurdo. Devo ammettere che tradurre un libro in diverse lingue straniere è un impegno molto duro, ma necessario vista l’aspirazione cosmopolita del mio progetto. Un libro mai tradotto, disponibile solo in italiano, mostra chiaramente la sua dimensione locale e in un certo senso “provinciale”. La traduzione è per così dire la “prova del nove di un testo”: ti costringe a confrontarti con altre mentalità, con altre persone (a partire dai traduttori). È una prova difficile nella quale gli orpelli, ma anche le trovate e le bellezze stilistiche di cui lo scrittore andava fiero, si sfaldano e sbiadiscono e rimane così solo il significato nudo del libro. Credo però che un testo ben costruito possa e debba resistere al “terremoto” della traduzione. A parte ciò, sto lavorando allo stesso tempo a un nuovo libro che rappresenta in un certo senso lo sviluppo o il seguito di Flâneur. Per il momento non posso dire di più. Però devo ammettere che questo secondo lavoro mi impegna ancora di più rispetto al primo. Forse è per tutti così: quando scrivi il libro di esordio lo fai quasi per gioco, ma una volta che hai ottenuto un certo successo e ti sei creato un pubblico che ti segue, allora non puoi più permetterti di sbagliare.

 

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