Non mi importava del freddo, non mi importava della fame che ancora, soprattutto a fine mese, mi faceva sognare un panino col tonno o col prosciutto. Non mi importava di niente, non mi preoccupavo di niente: direi che ero felice, benché la parola suoni anche a me eccessiva. Ero piena di me. Poter dire casa mia. E poi lì, a via Ripetta, la strada dove avevo trascorso il primo Capodanno adulto, di scoperta e di politica […]. Il futuro era un cantiere aperto, molte e grandi cose da fare. Senza timore di infortuni.
Questo è uno di quei libri che sanno farti star bene. Sì, perché finalmente in un’epoca di individualismo imperante e di totale assenza di partecipazione, che altro è dalla condivisione del tutto e a ogni costo sui social network, si ritorna a parlare di quando davvero si era parte di qualcosa. Di quando le idee erano la base, il punto di partenza – almeno nelle intenzioni – del cambiamento, perché le cose si potevano ancora cambiare; di quando la lotta non era il fine, ma il mezzo per affermare, contestare, abbattere, sovvertire, creare. In cui i luoghi di riunione e confronto erano reali e non virtuali e dove si guardava al presente proiettati al futuro. E forse pensavamo che nulla sarebbe accaduto comunque, di nuovo quel senso di stare dalla parte giusta, di invincibilità.
Ritrovarsi a Roma mentre leggevo il nuovo libro di Clara Sereni è stata una piacevole coincidenza. Ho guardato la città oltre il peso di quei ridicoli addobbi e lustrini che la ricoprono come una vecchia baldracca, cercando di riconoscervi l’aspetto che poteva avere ben oltre quarant’anni fa. Ho provato a ritrovarvi i segni lasciati da quella tensione positiva che la rendeva viva e pulsante.
Con l’autrice è stato bello ripercorrere un decennio significativo della nostra storia – dal ’68 al ’77 –, anni in cui, poco più che ventenne, Clara Sereni scoprì in via Ripetta 155, l’indirizzo della sua nuova casa: il luogo del riscatto da una famiglia ingombrante e l’inizio della sua crescita umana e politica. Via Ripetta al civico 155 non è ancora via della Scrofa ma è a cinque minuti a piedi da Piazza Navona dove tutto succedeva, ci si incontrava si discuteva si cantava.
Gli eventi più significativi di quegli anni fanno da sfondo all’autobiografia di un’intera generazione in movimento, spinta dalla incontenibile forza delle idee e dalla necessità di rivoluzione.
Lotta continua aveva cominciato la sua battaglia contro il commissario Calabresi: delle colpe della polizia eravamo certi, non solo Piazza Fontana ma Pinelli e anche Valpreda erano ferite che non potevano rimarginarsi. E tutti gli altri morti ammazzati nelle manifestazioni e negli scioperi, una lunga teoria di lapidi. […] La vittoria del referendum sul divorzio era ancora calda, presente. Alla manifestazione per ricordarla non andai, avevo un lavoro urgente da finire. Poi la polizia di Cossiga sparò, morì Giorgiana Masi a ponte Garibaldi, poco lontano da casa mia dove io me ne stavo tranquilla: mi sentii in colpa. […] la rabbia per Giorgiana Masi ci toglieva ogni timidezza.
I cortei, le riunioni, le proteste erano la forma più naturale di confronto: erano momenti significativi di aggregazione, capaci di avvicinare i più giovani ai meno giovani, per condividere pensieri che erano più che sogni e trovare insieme le modalità per dare loro concretezza, nonostante tutto.
Scioperi e scioperi. Le manifestazioni di piazza […] i cortei improvvisati nei reparti. Dunque malgrado le minacce la lotta non si fermava, gli operai non erano mai stati così forti. […] Insomma era chiaro, da ogni parte provavano a fermare le lotte, il progresso, il mondo.
La storia personale di Clara Sereni è solo il pretesto per raccontarci molto più di un pezzo di vita: si tratta di dieci anni di storia saturi di eventi e occasioni mancate, soprattutto per chi poi è rimasto a guardare il crollo di ideali che sembravano non poter fallire e ad assistere all’imbruttimento e impoverimento umano e politico di un Paese che non ha più niente da dire.
Tornando verso via Ripetta la luna splendeva sul Gianicolo e illuminava tutta Roma, stesa davanti a noi che sembrava di poterne toccare ogni via, ogni palazzo, ogni chiesa: la città l’avevamo già presa, ora la speranza concreta era nel sorpasso del Pci sulla Democrazia cristiana alle elezioni politiche. […] C’era la convinzione che l’Italia potesse cambiare, anzi che fosse già cambiata, e che del mutamento fosse ora possibile cogliere i frutti. […] Solo che il sorpasso non ci fu: di fronte al pericolo comunista gli italiani si tapparono il naso, e la Democrazia cristiana si confermò, seppure di poco, il primo partito. […] La piccola borghesia affilava le unghie senza più vergogna di sé, e ancora ci raccontavamo di una rivoluzione possibile.
Non ci sono giudizi in questo libro, non ci sono recriminazioni o prese di posizione. Ci sono i fatti così come raccontati da chi li ha vissuti in prima persona. In quegli anni tutto era possibile e necessario. Insomma, erano i tempi in cui bastava essere sull’agendina di qualcuno perché polizia e carabinieri costruissero sospetti di congiure, di terrorismo. […] La polizia massacrava alla stazione Termini quelli che tentavano di ripartire con il treno, ma massacrati eravamo tutti da quella svolta violenta che non avevamo voluto, e che ci travolgeva. Non con lo Stato, non con le Brigate rosse, non con l’Autonomia, non con i provocatori quali che fossero: soli con noi stessi. […] Discutevamo poco, non trovavamo più le parole. Dubitavamo ormai di tutto, delle parole dei dirigenti come di quelle dei giornali.
Camminando su via Ripetta ho alzato lo sguardo al 155 e mi è sembrato che qualcosa ancora ci fosse da vedere. Forse i quattro piani di scala a chiocciola o il soffitto a cassettoni dell’appartamento, il tinello o lo scaldabagno montato in orizzontale anziché in verticale per via della scarsa pressione dell’acqua, o qualche incontro interessante.
Elegantissimo nel lungo soprabito imparato a Londra […], per grazia o per smemoratezza Mario Monicelli mi chiamava Esmeralda; Nanni Loy si scelse come nuova compagna una mia amica; con Sergio Amidei ebbi l’unico scontro verbale da cui – in tutta la mia vita – sia uscita vincitrice […]. Attraverso di loro amavo il cinema, anche quello più difficile, accanto a loro mi indignavo per gli interventi della censura, attraverso i loro racconti entravo nei meandri delle commissioni culturali del Psi e soprattutto del Pci: […] la mia formazione culturale e politica veniva da lì.
C’è questo e altro nel libro di Clara Sereni: si parla anche di amori, di cinema, di figli e di non-matrimoni. Soprattutto si parla di Roma in un modo che molti di noi non ricordano neppure. E’ un viaggio lungo le sue strade di allora che non sono più quelle di oggi, ma in cui – come un tempo – è bello soffermarsi a guardare e a pensare.
Un’alba limpidissima e rosata, attraversando il Gianicolo per scendere da Monteverde a via Ripetta, regalò una vista lunga verso i Colli, ancora senza smog: ci stringemmo forte, un momento di pace solitaria in cui una grande futuro era a portata di mano. Ci sentivamo a buon diritto dentro le magnifiche sorti e progressive.
Clara Sereni è nata a Roma nel 1946 e vive a Perugia. È una delle più importanti scrittrici italiane contemporanee. Da anni impegnata nel mondo del volontariato, è stata per oltre un decennio presidente della Fondazione “La Città del Sole” – Onlus, che costruisce progetti di vita per persone con disabilità psichica e mentale. Ha pubblicato: Sigma Epsilon (1974), Casalinghitudine (1987), Manicomio primavera (1989), Il gioco dei regni (1993), Eppure (1995), Taccuino di un’ultimista (1998), Passami il sale (2002), Le Merendanze (2004), Il lupo mercante (2007) e Una storia chiusa (2012). Ha curato anche le raccolte di testimonianze intorno al tema della disabilità e della diversità: Mi riguarda (1994), Si può! (1996) e Amore caro (2009). Dirige per l’editore Ali&no la collana “le farfalle”.
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