:: La Notte della Mediarchia Il commissario Elio Gamba, Carlo Vanin, (Panda Edizioni, 2014) a cura di Alessandro Morbidelli

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La-Notte-della-Mediarchia-img1Nessuno mi ha chiesto di scrivere una recensione de “La notte della Mediarchia” di Carlo Vanin, questo conviene precisarlo subito. Ho deciso di sedermi e di pensare al commissario Elio Gamba di mia spontanea volontà. Questo perché sono sempre più convinto che nel panorama editoriale di oggi, soprattutto tra le righe di chi in qualche modo sostiene di rappresentare un certo tipo di scrittura di genere, si possano incontrare due tipologie di autori: la prima, molto comune, è quella del mestierante, dell’artigiano della scrittura (quanto piace, oggi, questa definizione…), del lavoratore schematico, di chi potrebbe scrivere centoventisei romanzi in serie, tutti secondo lo stesso disegno e gli stessi stratagemmi narrativi; la seconda, quella che nove volte su dieci è incline al fallimento, che nove volte su dieci non viene capita, quella che dieci volte su dieci vende poco o niente quando per miracolo viene pubblicata, è quella che preferisco. È questa seconda categoria che ci fa ricordare come le storie che ci vengono raccontate possano evadere dalla banalità di una scrittura piatta e incolore, adagiata nello stile, per svegliarsi nello stilema, nella variazione, nella visione. È questa seconda famiglia di autori che mette la vita nelle pagine. Tra le due, intercorre la stessa differenza che passa tra un Big Mac e un panino al lampredotto. La tragedia è varia: il mondo è pieno di mangiatori seriali di schifezze, ormai assuefatti alle schifezze, e a pochi piace il lampredotto. Ma a chi piace, piace davvero…
Ogni scrittore si trova a un certo punto della sua vita a un bivio: seguire la svolta che porta al McDonald’s o sentire da lontano il refolo che esce dal baracchino fermo sul bordo della strada, perso tra banchine insicure, sdrucciolevoli, e affilati guardrail.
Carlo Vanin sa cucinare bene. E per nostra fortuna ha pure trovato un chiosco, che porta il nome di Panda Edizioni, pronto ad accendergli i fornelli.
La sua è una scrittura pop, variopinta nelle sfumature di riferimenti sempre a portata di mano, mai banale, ridondante senza mai essere barocca, coerente e, soprattutto, viva. Il suo è un romanzo di genere, certo, ma il genere che ci troviamo davanti ribolle, ricorda la furia assetata del primo Glen Duncan, quello di “I, Lucifer”, e la lezione livida e alienata dello Shannon Burke de “I Corpi Neri”. La Marghera descritta si muove su livelli che si intersecano tra l’onirico e il surreale, tra il grottesco e il realista, tra il fantascientifico e il gotico, che solo in rari momenti, in cui il nostro si sente in dovere di mostrare al mondo intero quanto sia buono il suo pane e lampredotto, svirgola nell’inessenziale. Eppure non c’è mai uno sbilanciamento, una perdita consistente dell’equilibrio narrativo. Il fondale su cui si muovono i personaggi, una Marghera isolata dal cielo dall’esplosione della famosa raffineria, è solido, e questo è il primo merito di Carlo Vanin, ma non solo. Il suo contesto non è unicamente un paesaggio fotografico, è anche un cantiere in cui una società estrema annaspa tra pastiglie sintetiche e spot televisivi, tra ingorghi infernali che tanto ricordano scenari cyberpunk, figli di quegli spazi precari che Marc Augé definì nonluoghi: la Mediarchia all’apice del suo splendore, in una vibrante attesa.
Poi c’è lui, il protagonista indiscusso del romanzo, il commissario Elio Gamba, un uomo che ha perso la moglie e il figlio nell’esplosione di Marghera senza mai perderli davvero, un corpo scosso dalla droga e dall’alcool, una mente violenta, disturbata e corrotta da Sole-Occhio, la voce che sussurra, la guida che lo elegge a profeta in una landa di desolazione e violenza, fino a portarlo allo scontro finale con i Ministri della Mediarchia. Ecco, non vorrei svelare di più della trama, perché in realtà questa si sviluppa lungo una serie di flash narrativi in cui i protagonisti si collocano secondo una propria comodità formale. Più che un elemento di tensione, il romanzo diventa un insieme di punture, lo dice l’autore stesso (“Ci sono cose che pungono qui dentro”). Non lascerà indifferenti.
Carlo Vanin è uno preciso. Mi perdonerà se ho attinto dalla tradizione culinaria fiorentina per parlare del suo romanzo, lui che è veneto. Eppure mi sembra l’omaggio adatto a chi ha digerito così bene la lezione cinematografica di Robert Rodriguez e di Quentin Tarantino, la visionarietà di Hans Ruedi Giger e di H. P. Lovecraft, la letteratura fisiologica di Tiziano Scarpa, la metafisica insondabile di Stephen King, l’antropologia sadopornografica degli hentai giapponesi con i personaggi di Nivea e Rexona. Citare Miyamoto Musashi ci porta più a pensare a Takehiko Inoue e al manga Vagabond che al personaggio storico realmente esistito. Così come un vero esperto di fumetti giapponesi non può non godere nella citazione di Berserk di Kentaro Miura, quando lo stesso Musashi perde un occhio e rimane con un braccio maciullato.
Carlo Vanin non ha preso la via per il McDonald’s. Per fortuna nostra e per sfortuna sua. E questo panino al lampredotto ci è davvero piaciuto. Chissà se a lui il lampredotto piace. Una volta mi pare di averglielo pure chiesto.

Carlo Vanin: nasce nel 1977 a Spinea, cittadina veneta di cui oggi si autoproclama miglior scrittore vivente. Lavora come libraio alla Libreria Ubik di Castelfranco Veneto. Dal 2009 è membro del direttivo del movimento Sugarpulp nonché segretario dell’omonima associazione. “Mirko e il mostro”, pubblicato nel 2012 per l’editore L.A. Case, è il suo romanzo d’esordio.

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