La poesia è un genere letterario sicuramente complesso che merita all’interno della critica letteraria un discorso a parte. Io in questa sede mi limiterò a porre l’attenzione sul ruolo della lingua, ruolo fondamentale, tanto che molto spesso al testo tradotto viene posto accanto quello originale, per l’ovvia ragione che per quanto la traduzione sia fedele al testo, ritmo, rime e giochi di parole vengono inevitabilmente perduti o più che altro interpretati e ricreati. Tenendo presente questa premessa analizzerò un testo tradotto dal russo da Evelina Pascucci di uno dei poeti, ancora viventi, più significativi del Novecento, e cercherò di delineare gli elementi creativi che lo animano, affidandomi alla mia personale sensibilità e interpretazione.
Il palazzo di Evgenij Evtušenko è una poesia tratta da una antologia poetica in tre volumi che raccoglie la produzione poetica di quest’autore dal 1952 al 1983. Sobranie Socinenij v trech tomach- Stichotvorenija i poemy: 1952-1964- 1965-1972 1973 –1983, Moskva, “Chudozestvennaja Literatura” 1983-1984. La poesia è datata 1952 e quindi appartiene al periodo giovanile di Evtušenko.
Prima di analizzare il testo, tra l’altro esteticamente di enorme impatto visivo, traccerò un breve profilo dell’autore per nulla esaustivo, rimando per chi volesse approfondire all’Autobiografia, Flegon Press, London, 1964. Evtušenko nacque in Siberia, a Zima, nel 1933. Sin da giovane si trasferì a Mosca e divenne uno di più conosciuti poeti russi contemporanei. Temi centrali della sua poesia la derisione dei carrieristi e burocrati e l’amore. Il suo impegno civile e politico trasmesso dalle sue poesie non esclude il fatto che abbia scritto poesie d’amore di notevole lirismo.
Il personaggio centrale di questa poesia è un umile e povero contadino a cui lo zar ordina di costruire sull’acqua un palazzo e un giardino. Il contadino si tormenta perché sa che con le sue sole forze umane in una notte non potrà riuscire nell’impresa e al mattino lo zar gli chiederà conto con la vita. La salvezza gli giunge inaspettata tramite l’apparizione di Vassilissa la Saggia, personaggio fatato delle antiche fiabe popolari russe. Il palazzo è senz’altro una dichiarazione d’amore, non a una persona, ma alla poesia stessa, che permette in una notte di creare palazzi, verdi giardini, facendoli apparire dal nulla. E il poeta accoglie con umiltà questo dono
La gente non sa, dal prodigio abbagliata,
che non io sono di esso il reale creatore,
che non io li ho piantati i verdi giardini,
né il palazzo ho innalzato, di pietra bianca…
consapevole che il suo merito è ben poco e si trova a essere celebrato per qualcosa che supera la sua umana abilità. In prima persona il poeta si rivolge alla poesia stessa ricordando un sogno fatto: si trova vicino al mare e si dispera vedendo la limitazione del suo essere e l’incapacità di essere lui stesso origine di tanta bellezza. La poesia è la vera dispensatrice di bellezza e meraviglia, il principio creatore da cui potrà sorgere appunto il palazzo del titolo.
Il ruolo fondamentale della memoria, della favola, si associa a quello del sogno, della fantasia e l’effetto è di una bellezza antica e struggente. Il tono è sognante, melanconico, lievemente ironico. Evoca sentimenti di pace, di meraviglia, di rimpianto per la poesia che come un’ombra subito svanisce e abbandona il poeta. L’apparente struttura di una fiaba (mantiene la struttura di 13 quartine) nasconde significati più profondi che spaziano dall’amore per la bellezza, la poesia, la natura, fino all’amore stesso canale di ogni percezione.
I temi principali.
Innanzitutto l’arroganza del potere, simboleggiata dallo Zar, che dispone della vita della gente con ben scarsa benevolenza e dispone di servi che eseguono i suoi ordini inderogabili. Strumenti di potere le promesse di ricchezza, e i successivi meccanismi spietati di controllo e punizione.
Poi il potere della poesia, simboleggiata dalla Saggia Vassilissa, ombra leggera che subito scompare, calma, quieta, crea isole con un sorriso. E infine l’elaborazione poetica, che stupisce il poeta stesso che osservando la poesia all’opera rimane sbigottito e meravigliato mentre contempla la sua opera e la gente che lo considera non meritatamente il creatore.
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