:: Un’intervista con Giovanni D’Alessandro a cura di Giulietta Iannone

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tanaOggi diamo il benvenuto su Liberi di Scrivere allo scrittore Giovanni D’Alessandro che ci parlerà del suo ultimo romanzo La tana dell’odio, edito poche settimane fa da San Paolo Edizioni. Prima di parlare del romanzo, Giovanni, mi piacerebbe parlare di te. Pescarese d’adozione, sei nato a Ravenna da famiglia abruzzese nel 1955. Laureato in legge, appassionato di letteratura anglosassone, oltre che romanziere collabori con il quotidiano abruzzese «il Centro». Presentati ai nostri lettori.

L’hai già fatto tu. Aggiungo solo che da due anni non scrivo più sul quotidiano abruzzese, col quale continuo ad avere un rapporto di amicizia. Ho collaborazioni con quotidiani nazionali che considero preziose, perché intercettano il pubblico nella vita di ogni giorno ed è una frequenza cui tengo molto. Un esempio: il recente, copiosissimo, appassionato ritorno, soprattutto da imprenditori del nord Italia, che ho avuto per la “Lettera a un aspirante suicida” ospitata su Avvenire qualche giorno fa mi ha lasciato senza parole. Ho sentito il polso, ferito e pulsante, robusto e combattivo, teso e pronto a captare nuovi segmenti di mercato, di una fascia sociale, oggi piegata, ch’è stata l’orgoglio dell’hand made italiano. Hanno chiesto i miei riferimenti alla redazione e mi hanno scritto o telefonato imprenditori che fino a ieri avevano 200 operai e oggi vivono in un miniappartamento in affitto. Ho parlato con loro, anzi stabilito rapporti già profondi anche se nati da poco, con loro. Ci incontreremo. Il giornalismo è una scrittura preziosa, è il vissuto reale e quando riesci a sollevarlo verso una dimensione di dialogo, ti accorgi, a volte il giorno stesso della pubblicazione di un pezzo, se hai fatto centro. La narrativa pratica altri pentagrammi. E’ astrazione dal reale, fascinazione, affabulazione, ciò che non esclude possa avere anche valenza di approccio più avanzato alla realtà stessa. Sono due forme di scrittura autonome e  molto importanti per ogni “scrittore”, termine che non dev’essere sinonimo, come avviene di solito, di narratore. Io mi sento scrittore di pezzi per giornali almeno quanto lo sono di romanzi.

Hai esordito nel 1996 con il romanzo Se un Dio pietoso, edito da Donzelli. Un debutto felice, caso letterario dell’anno, tradotto in diverse lingue, finalista al premio Viareggio. Come è nato il tuo amore per la letteratura, specialmente anglosassone, e poi per la scrittura?

E’ nato dal fascino per i libri, maturato fin da bambino. Vengo da una famiglia di lettori, poco intellettualoidi, molto “sostanziali”. Casa mia era una casa di porte che si chiudevano, con gente ritirata a leggere ognuno nella sua stanza. Una tacita tregua di non interruzione delle alchimie magiche che avvenivano dietro quelle porte chiuse era condivisa naturalmente, senza bisogno di essere ricordata o formalizzata: se vedevi  uno sui libri, dicevi a chi lo cercava per telefono: chiama dopo.  Poi – usciti dall’antro delle alchimie- rientravamo nella vita di ogni giorno, con una decisa ironia e con divertimento. Ma restare ognuno col suo libro in mano, nel proprio habitat mentale e spirituale, era una parte della nostra quotidianità: un atto naturale quanto il respirare. Penso avessimo una predisposizione genetica ad affrontare la vita così. Eravamo e siamo, anche quelli che non ci sono più, born reader, lettori nati; con la stessa fascinazione anche per altre forme d’arte come il cinema o la musica. Il lettore nato è come un violino Stradivari o un Guarnieri del Gesù che deve essere scaldato dalla pratica, affinato dalla disciplina, premuto e sollecitato sulle corde per cavare da sé le note, fonde e acute, del buon legno da cui viene; per farsi strumento cioè di veicolazione di armonia, melodia, ritmo. Il lettore nato è come una nave che solo andando per mare entra nel suo elemento naturale e impara a navigare. Noi eravamo maneggiatori di libri. Grandi navigatori di storie – con solido ancoraggio alla realtà, se posso aggiungere. Il mio esordio nella narrativa avvenne in modo casuale nel 1996, con la pubblicazione del romanzo ambientato nell’Abruzzo del 1708 Se un Dio pietoso, il quale prende le mosse dal rovinoso terremoto che aveva devastato la città di origine della mia famiglia, Sulmona (oggi in provincia dell’Aquila) nel 1706, causando mille morti. Prima ero stato solo un lettore, non avevo scritto neanche una lettera d’amore a una fidanzatina o una mezza poesia; soltanto pubblicazioni giuridiche, in cui alcuni rilevavano per la verità un certo gusto per la parola. Ma a parte questo, nulla. Ero preda della classica ritrosia a scrivere del forte lettore. Tuttavia dopo il Classico, nel ’96 erano vent’anni ormai che gli studi tecnici di legge e la mia attività mi avevano allontanato dalla letteratura classica… qualcosa mi spingeva a cimentarmi col rimettere i piedi sul mio terreno di formazione. Risposi alla sollecitazione di un editore che chiudeva un punto vendita in Abruzzo, lamentando l’assenza di proposte narrative da autori abruzzesi. Penso adesso che non si riferisse neppure agli esordienti, ma io lo intesi così e buttai  giù un plot come se fosse stata un’ipotesi di pubblicazione giuridica. Lo faxai a mezzogiorno a lui e un altro notissimo editore nazionale. Il secondo mi chiamò due ore dopo per dirmi che voleva assolutamente pubblicare un romanzo con quel soggetto. Lo scrissi e l’anno dopo, il 1997, prese molti premi, fu lodato dalla critica, popolò le pagine dei media,  venne tradotto dai più importanti editori europei, per essere recensito e premiato anche all’estero. Poi stop. Totale. Per 8 anni. Era stato troppo? Non lo so. Incise anche una fase personale un po’ travagliata, ad allontanarmi da un terreno di bellezza che mi sembrava di non poter o voler ripercorrere in quella fase. Dal punto di vista editoriale, un suicidio, comunque, dopo un esordio del genere.

In seguito sono venuti i grandi editori: nel 2004 hai pubblicato con Mondatori I fuochi di Kelt, vincitore dello Scanno 2005; due anni dopo con Rizzoli La puttana del tedesco, vincitore del premio Fenice Europa 2007. Una carriera costellata di premi e riconoscimenti. In che misura il talento e il duro lavoro incidono in un successo? Di quali autori, italiani e stranieri, ti senti debitore?

La disciplina è il talento della costanza. Ripartire a scrivere dopo otto anni me l’ha insegnato. Una volta ripreso, non ho smesso più. O non entri in palestra o ti alleni costantemente. O non fai venir su i muscoli o li tempri, sennò si afflosciano. Gli autori italiani e stranieri di cui mi sento debitore? Tanti. Troppi per fare alcuni nomi, senza recar offesa agli omessi. Una certa predilezione c’è per i classici, perché nel classico c’è l’appeal universale, c’è la scintilla del genio nascosta in questa o quella pagina. Oggi si spacciano per classici dei non-scrittori che hanno pubblicato per contiguità e contatti, non sempre confessabili, con la grande editoria; non-scrittori che, dopo aver afflitto magari svariate generazioni di lettori, si autocelebrano in raccolte consuntive, postume o, com’è oggi invalso, in vita. Così la non-scrittura protratta per decenni si musealizza… in operazioni in “parallelo” (intelligenti pauca) e simili. E’ l’apoteosi del grottesco. Lo spaccio della bestia trionfante. Torno alla domanda: ho letto gli anglosassoni dal 1800 in poi. Ma anche i francesi. I tedeschi. I russi. Anzi no, non li ho letti. Li ho amati. Non importa quanto si legge, importa quanto si ama. Un rigo che da una pagina ti entra, e ti dilaga, nell’anima per accompagnarti tutta la vita, vale più di cento libri scorsi ma non posseduti, non fatti propri. Tra gli italiani come si fa a non amare Manzoni?  E’ così inquieto e inquietante. E la commossa profondità di Pomilio? La visionarietà di Bufalino? Il sognante desiderio di oblio di Tomasi di Lampedusa? L’incandescente distacco di Fenoglio, la panica magia di Buzzati, la lunare eleganza di Landolfi, l’appassionata asciuttezza di Magris… basta, ci fermiamo qui, sul limitare della selva selvaggia degli omessi in cui non dovevamo metter piede.

Quest’anno hai pubblicato La tana dell’odio, un romanzo doloroso su una ferita aperta dell’Europa, la guerra nell’ex Jugoslavia. Quando si parla di guerra la si immagina sempre lontana, in Iraq, in Afganistan, separata dalla nostra quotidianità. Invece Sarajevo è ad un passo da noi, solo varcato l’Adriatico, il suo lungo assedio, documentato dai mezzi di informazione ci ha presentato un dramma che avveniva nel cuore dell’Europa. Come hai trattato questo tema nel tuo romanzo?

Partendo proprio dalle tue parole, dalle interrogazioni sul mistero del male – centro di ogni teologia e  filosofia, inesausta domanda che l’uomo rivolge a se stesso dagli albori della storia, anche il più vulnerato agnostico, anche il più fervido credente – perché questa assurda guerra colma di atrocità ne è un simbolo. Si è svolta nel cuore dell’Europa pochi anni fa, dal ’92 al ’95, con uno dei suoi epicentri nel martirio della capitale della Bosnia-Erzegovina Sarajevo, città iconica di una secolare integrazione  multietnica, multiculturale, multireligiosa, sulle cui bellissime montagne solo otto anni prima, nell’84, tutto il mondo era convenuto per le olimpiadi invernali. La storia non è magistra vita, non ha insegnato niente, né quella remota né quella recente; è maestra di rimozione, semmai. Le tane dell’odio sono sempre attive, sono tra noi, ma noi disimpariamo di volta in volta a individuarle e cercarle. Disimpariamo a riconoscere l’odio al suo stanarsi e prendere a strisciare tra di noi  perché non ripete mai le forme assunte in passato, le diversifica. Diabolico, cangiante, il male assume forme sempre più avanzate di quelle che può cogliere la labile percezione prodotta in noi dalla rimozione, dall’abbassamento del livello di guardia e dalla colpevole ignoranza, mascherata da informazione, che caratterizza questa società.

Protagonista de La tana dell’odio è Giuseppe Vegagni, nato Jusuf Samirovic. Allo scoppio della guerra era solo un bambino, anni dopo lo troviamo in Italia, adottato da una famiglia italiana, diventato medico. Parlaci del tuo personaggio, si ispira ad una persona realmente esistita? Assistere alla distruzione della sua famiglia di origine incide dolorosamente nella sua coscienza. In che misura la vendetta e il perdono si fanno largo nella sua anima?

Non è un romanzo sulla vendetta e lo avrebbe ucciso essere un romanzo dal facile accesso al  perdono: sono dimensioni troppo intime perchè uno scrittore possa violarle trasferendole in una narrazione. La tana dell’odio è un romanzo-monito sulla reviviscenza del male, sulle mortali ferite che produce nell’anima e sulla esigenza di sopravvivere ad esse per tornare a vivere. E’ una storia  sulla difficile mediazione tra memoria e cancellazione, dinamiche entrambe vitali. E indomabili.

Alla ricerca di se stesso, di un equilibrio che sembra incerto, minato dall’assassinio dei suoi genitori, decide di ritornare nei luoghi della sua infanzia in cerca della verità. Cosa trova?

Trova il passato, destinato però a rovesciarsi nel suo presente in un modo particolarissimo e crudele, come se fosse sempre stato in agguato per lui. Un passato che il protagonista sperava sepolto coi suoi cari, sulle cui tombe torna per la prima volta dopo vent’anni, dopo avere assistito alla loro tragica uccisione; mente non era affatto seppellito con loro. Ciò rende per lui più drammatica la mediazione di cui parlavamo prima.

Rimozione e memoria, in che misura questo binomio influenza la vita del protagonista?

Totalmente; rimozione, immagino intenda tu, non nel senso di allontanamento della memoria, bensì di riemersione da essa: il protagonista Jusuf-Peppe, nelle mie pagine è animato, lacerato, mosso da questo binomio.

Ricordare è dolorosamente necessario, penso per esempio alla tragedia della Shoah. Che relazione c’è tra il bisogno di cancellare il male e il perdono?

Secondo me? Il perdono (che  – torno a  dire – non è tema di questo mio romanzo politematico) nasce dalla coscienza del male subito e quindi dalla memoria. Il vero perdono se è tale, vale a dire dimensione finale di un approdo spirituale trascendente, non giustificato da logiche umane, non può che nascere, umanamente, dal doloroso ricordare che tu dici. Di più: dal coltivare il ricordo.

Se dovessi pensare ad un adattamento cinematografico del tuo romanzo, che regista sceglieresti, quali attori?

Giacomo Battiatio, autore del bellissimo Résolution 519, film poco distribuito in Italia e molto lodato all’estero dov’è stato prodotto e realizzato, sulla tragedia della Bosnia-Erzegovina: prende  nome dalla risoluzione dell’ONU la cui inapplicazione portò all’eccidio di Srebrenica e alle altre centinaia di stragi ed  efferatezze di questa guerra.

Nel finale c’è spazio per la luce della speranza?

Sì. Thanatos  – odio violenza morte – non prevale su Eros, forza vitale

Parlaci del titolo: come l’hai scelto, nasce da un proverbio?

Nasce da un proverbio prodotto dalla dolorosa saggezza dei Balcani, che funge da leitmotiv del romanzo : “L’odio dorme in una tana di neve, temi ogni giorno che si leva il sole”. L’odio nella sua tana dorme un sonno leggero, sotto un esile strato di neve che il sole, ogni giorno senza colpa sorgendo, può sciogliere, ridestandolo.

Grazie della tua disponibilità, nel concludere questa intervista, permettimi un’ ultima domanda: progetti per il futuro?

I muscoli vanno tenuti tonici! La palestra di cui parlavamo prima è aperta h24. E’ una dura palestra. Dopo la quale ci vorrà un po’ di riposo, dopo. Ma siamo già quasi a metà del nuovo romanzo che uscirà tra le strenne del ’14 e le prime settimane del ’15 con un nuovo editore. Sempre che l’editoria italiana sia ancora in piedi tra due anni.

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