:: Recensione di Esercizi sulla madre di Luigi Romolo Carrino (Perdisa, 2012)

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carrino per aspMadre devi dirmelo che non sono un bambino guasto, rotto, una cosa brutta, una cosa cattiva. Dimmelo una volta, una notte, un anno in un sogno, un anno in un letto, mentre mi vieni in mente in un giorno qualunque, in un parco, in una casa nel parco dell’ospedale, davanti ad Allocca, insieme all’infermiera Anna e io seduto sulla panchina davanti alla quercia, mentre vivo l’infanzia dei suoi rami appena nati, vedo che arrivi all’improvviso e me lo dici tutto il bene ca ‘ e voluto a mme, dimmelo Madre, e io te lo giuro, Gesù Giuseppe Maria, ti giuro che io stavolta ci crederò.

Potremmo definirlo un romanzo sperimentale, Esercizi sulla madre di Luigi Romolo Carrino, un tentativo di plasmare il linguaggio destrutturandolo da impalcature logiche e grammaticali, per raggiungere un livello di coscienza superiore, prossima al delirio della follia. Già potremmo, ma perché parlare difficile quando ci si può avvicinare a questo libro per altre vie che esulano la sterile e fredda logica. Ci si può per esempio lasciare attraversare dalle sensazioni, dalle percezioni, dal disagio che ti assale alla gola e non ti lascia nemmeno all’ultima pagina, dopo aver letto l’ultima chiarificante parola. Per parlare di follia con pudore e sensibilità bisogna essere un poeta, e Carrino questo onere, questa condanna la possiede e ci fa partecipi, senza privarci della sensazione di annegare in un mare di dolorosa angoscia, in un mare di strazio senza fine, del suo dono. Non è una lettura per animi distratti o incostanti, leggere Esercizi sulla madre è un impegno serio con i propri limiti, con la propria capacità di empatia, con il proprio coraggio. Ebbene sì bisogna essere coraggiosi per leggere questo libro, e privi di pregiudizi o venefiche preclusioni intellettuali ed etiche. Si parla di follia, di un bambino, poi uomo, che deve confrontarsi con l’abisso che si porta dentro, che si scortica, sanguina nel tentativo di polverizzare l’amnesia che l’affligge e fare i conti finalmente con la realtà, la verità, nuda e cruda. L’esito di questo processo di regressione e immersione, mi perdonino gli esperti della materia che passassero di qui se non uso le parole appropriate e scientifiche, è terrificante, non c’è altro modo per definirlo. Il legame, l’amore, l’edipico rapporto tra una madre e un figlio viene distorto dall’inenarrabile. L’origine della follia viene portata alla luce come una gemma preziosa su uno scrigno di velluto, viene osservata, analizzata, metabolizzata. E Carrino per farlo usa la sua anima di poeta appunto, esponendosi ben oltre i limiti usuali di uno scrittore. Ci sono persone che tra sé e la realtà non frappongono barriere, difese, impalcature, la sensibilità di questo autore le spazza via e ci presenta un personaggio capace di ricoprire il ruolo di uno specchio, di un riflesso, lontano dalla nostra vita comune, dalla nostra sensibilità eppure misteriosamente vicino. L’immagine potente di un bambino di otto anni, seduto ad aspettare la madre che non tornerà più, il dolore dell’abbandono, della perdita, dell’atto mancato, ci accompagna nella vita di adulto del personaggio nel suo ricovero in una struttura psichiatrica giudiziaria per un fatto che non ricorda. Non voglio depistarvi, per impedirvi di vedere il finale, di solito si dice così, a sorpresa, ma io l’avevo percepito netto e inquietante già molto prima. Che dire di più non è una lettura usa e getta, non sarete più gli stessi alla fine del libro, sarete passati oltre. Magia delle parole, magia della scrittura quando si incarna e si trasforma in verità su noi stessi e sugli altri. Uno dei romanzi più sinceri e laceranti che abbia letto.

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