Intervista ad Andrea G. Colombo a cura di Valentino G. Colapinto

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cover_DIACONOLiberi di Scrivere intervista Andrea G. Colombo 

“Ho visto il futuro dell'horror italiano e si chiama Andrea G. Colombo.” Parafrasando Stephen King, potremmo così definire lo sfolgorante esordio costituito dal Diacono, un libro importante che dimostra quanto sia vivo e talentuoso l'horror letterario italiano. Ecco a voi “Libertini” un'intervista monstre (e poteva essere altrimenti?) all'Autore. Dieci domande dieci per metterlo sotto torchio. 

Grazie Andrea per aver accettato la nostra intervista; iniziamo con le presentazioni. Sei nato a Legnano nel 1968, hai praticato per molti anni arti marziali e da tempo sei uno dei più attivi promotori dell'horror sia letterario che cinematografico in Italia. Hai creato il primo sito web italiano dedicato, Horror.it, e sei stato l'ideatore e direttore del mensile Horror Mania e del suo cugino Thriller Mania. Hai già scritto numerosi racconti, ovviamente horror, e curato diverse antologie. Il Diacono è il tuo primo romanzo. Vuoi aggiungere altro?

Non senza il mio avvocato… Grazie per la bella introduzione, Valentino. Ho deciso che ogni volta che sarò giù di morale, ti chiederò di farmi un'intervista così mi tiri su subito! È strano per me essere intervistato: di solito le interviste le faccio io. Ora so come ci si sente. Una specie di esame a scuola. Posso partire con l'argomento a piacere? 

Dopo aver letto Il Diacono, la domanda sorge spontanea: credi nel Diavolo o in altre forze maligne soprannaturali? Sei cristiano? In ogni caso, immagino che l'Esorcista sia uno dei tuoi film preferiti.

Ci ho creduto ciecamente, finché non ho messo la parola “fine” in fondo al manoscritto. Non puoi pretendere di riuscire a sospendere l'incredulità del lettore, se tu per primo non ti metti in gioco. Per quasi due anni ho cercato di essere assolutamente ricettivo, ho alzato le antenne e ho lasciato che i personaggi del romanzo (dei sociopatici, lasciamelo dire) fossero per me reali, persone fisiche delle quali mi limitavo a raccontare la storia, senza inventare nulla. Molte delle scelte operate in corso d'opera sono state del tutto inaspettate e dettate solo dal susseguirsi degli eventi e dal profilo psicologico dei personaggi. In poche parole, sono stato un biografo, niente di più. 

Sul fatto che io creda o no nel diavolo, posso solo dirti che ho appena preso un micino tenerissimo, che adoro da morire: è nero, ha gli occhi gialli e l'ho chiamato Lucifero. I casi sono due: o sono un insidioso adoratore del demonio, o non me ne può fregare di meno… 

Del resto la Chiesa stessa non ha ancora deciso se credere o no a Satana. Gli insegnamenti ai sacerdoti sono all'insegna del razionalismo, e Satana è stato declassato allo status di allegoria delle umane debolezze. Che fine ingloriosa per il Principe delle Tenebre. Posso solo immaginare quanto starà rosicando. 

Detto questo, lasciami aggiungere che – a mio avviso – le tematiche affrontate dalla religione sono il materiale più interessante in assoluto per un autore di horror. Per me l'horror teologico/apocalittico è l'horror tout court, non faccio distinzioni. Parliamo di anima, di bene e male, di vita dopo la morte, di lotta per la salvezza del genere umano o della sua dannazione, di creature soprannaturali terrificanti, di metafisica, vita e morte… Si può chiedere di più? 

Com'è nato il personaggio del Diacono? In qualche misura ritieni che ti rispecchi?

Devo andare indietro di almeno venticinque anni. L'idea mi venne mentre ero in vacanza, sulla riviera romagnola. C'era un tempo schifosissimo, ma andai lo stesso in spiaggia: mi piacciono i temporali e vederli scatenarsi sul mare è uno spettacolo unico. I fulmini che scoccano tra un mare di piombo e il cielo di ardesia… i tuoni che ti vibrano dentro da tanto sono forti e vicini. Era uno scenario potente, esaltante e oscuro. Immaginai lì l'idea alla base del romanzo, la rivelazione finale. Per questo ne Il Diacono piove sempre. 

Sul come e perché mi venne quell'idea, però, non ho spiegazioni. Arrivò e basta. Spesso succede così. Davanti a quel mare in tempesta mi venne un pensiero lucido: “Cosa succederebbe se…” 

Da lì in poi ho continuato a modificare, aggiungere, ripensare, cancellare e rifare daccapo, ma non mi sentivo pronto ad affrontare l'impresa del romanzo. Così ho iniziato a scrivere e pubblicare racconti, considerandoli una palestra per arrivare ad acquisire la “resistenza” necessaria a calarmi nell'universo che avevo creato senza venirne spappolato. Non volevo sprecare l'occasione, così ho lavorato a testa bassa fino a quando decisi di testare il personaggio su Horror Mania. Dovetti modificare un po' di cose per renderlo più semplice e gestibile dai lettori, e non svelai mai il segreto custodito alla base della storia. Segreto che, ovviamente, nel romanzo diventa il fulcro centrale della vicenda. 

Ho aspettato che Horror Mania chiudesse, ho lasciato decantare un po' le cose e quando Paolo De Crescenzo mi ha convinto che era tempo di buttarsi, mi sono buttato. Ritengo che scrivere un romanzo debba essere un atto consapevole, e volevo che tutto fosse pronto per quello che considero un “evento” nella mia vita. Sapevo che scrivere questa storia mi avrebbe provato e così è stato. Però sono sopravvissuto ed è quello che conta, no? 

Riguardo alla seconda parte della tua domanda, credo che ci sia qualcosa di me in ogni personaggio. Magari solo un granello di sabbia, ma buoni o cattivi che siano, c'è. Forse io sono tutti loro, mentre nessuno di loro è me. Quindi, da oggi, puoi chiamarmi Legione.

Non è molto rassicurante come risposta, vero? Come puoi vedere, quando poco fa ti dicevo che scrivere Il Diacono mi ha provato, non scherzavo. 

Come scrive giustamente Paolo De Crescenzo nella prefazione al Diacono, hai uno stile molto cinematografico ed essenziale, privo sbavature e inutili fronzoli e degno di un autore maturo. Quali ritieni essere i tuoi modelli e maestri, se ce ne sono?

Certo che ce ne sono, e ce ne sono tanti, perché da ogni autore si può imparare qualcosa. Si deve leggere tantissimo, autori diversi e non solo autori tradotti. La maturazione di uno stile è un processo lungo e difficile; sono solo all'inizio del mio percorso, un viaggio che credo non debba finire mai, perché quando ci si ferma, quando si smette di studiare e imparare, allora tanto vale smettere. Tutti i grandi della narrativa horror e thriller contemporanea mi hanno dato qualcosa; chi in termini di stile, chi per il ritmo o per l'uso dei dialoghi, ma sto cercando di metabolizzare ogni spunto per proporlo seguendo la mia sensibilità, lasciando a briglia sciolta la mia creatività per ottenere un unico risultato: prendere alla gola il lettore sin dalla prima riga e non mollarlo finché non scrivo la parola fine.  

Non può esserci altro m
odo di scrivere per me. Impatto diretto, velocità e ritmo, nessuno sconto, nessuna censura, ma nemmeno nessun compiacimento per inutili scene di bassa macelleria. Per ottenere questo risultato, ne Il Diacono ho fatto diverse scelte “drastiche”. 

Mi piace rischiare. 

Sei uno dei maggiori esperti italiani di horror. Secondo te, è ancora possibile riuscire a spaventare un lettore smaliziato con un romanzo dell'orrore, dopo tutta l'abbuffata di splatter e horror più o meno estremo che abbiamo assimilato in questi decenni al cinema, in tv, nei fumetti e nei videogiochi?

Credo che la narrativa non possa né debba inseguire il cinema nello spavento della porta che sbatte o dell'urlo improvviso. Si possono usare come espedienti – non dico di no – aggiungono un pizzico di sale, ma non reggono la distanza. Il cinema ne fa largo uso, perché non ha i mezzi della narrativa, mentre nel romanzo – viceversa – non hai colonna sonora né gli effetti speciali: gli unici effetti speciali sono la testa dello scrittore e quella del lettore. Si lavora in coppia, quindi non puoi barare, né lasciare che la tua vanità ti porti a mostrare quanto sei bravo perdendoti per strada il lettore. Se si accorge che reciti, sei fottuto e si distrae.   

Per questo non amo i fronzoli, per questo detesto sentire la voce dell'autore. La lingua che si usa è importante. Mentre scrivo, io non esisto, ci sono solo loro, i miei personaggi. L'autore è un'inutile, noiosa zavorra; si deve levare di mezzo e lasciare che i personaggi volino, sfreccino come missili dritti al cervello e al cuore del lettore, o resteranno solo fantocci di carta. Quando in una pagina la voce dell'autore sovrasta quella dei personaggi, provo un senso di fastidio. La percentuale di libri che sto mollando a metà lettura a causa di questo vizio, si è alzata drasticamente.  

La narrativa horror, oggi, deve fare i conti con cinema e videogame: montagne russe emotive che svezzano i ragazzini, creando macchine da guerra pronte a tutto. Se non si capisce questo, se si va avanti a scrivere horror come lo si faceva venti o trent'anni fa, la scommessa è persa. Tanti saluti, game over. I meccanismi della paura sono sempre gli stessi, ma sono cambiate le modalità per metterle in atto e ne Il Diacono ho provato a forzarne i limiti.  

Credo che ci siano ancora margini per fare di peggio. Molto peggio. Vedremo col mio prossimo esperimento fin dove riuscirò a spingermi… 

Passiamo all'horror cinematografico. Non ritieni altresì che i film dell'orrore – troppe volte, purtroppo, stereotipati e indirizzati a una platea di teenager – siano stati forse superati in “orrore” dalla realtà stessa, vedi l'11 settembre, le decapitazioni in diretta tv o le torture praticate dall'esercito americano? Qual è il senso dell'horror oggi e a quali obiettivi deve puntare?

Come sostengo da qualche tempo, l'horror cinematografico è schiavo del fardello del budget, per questo campa di remake o di teen movies. Una stanza, due personaggi e tanto sangue finto. Questo è il film che viene fatto e rifatto all'infinito, cambiando dettagli e riscaldando la minestra. L'horror al cinema è una macchina per soldi, perché con poco realizzi un film che puoi vendere in tutto il mondo. Però non significa che se incassi tanto hai fatto un bel film… 

Poteva ancora funzionare nei gloriosi anni '80, ma per la miseria son passati trent'anni: quanti Evil Dead, Chainsaw Massacre, Venerdì 13 e Amityville dovremo rifare, prima di capire che non si può stiracchiare all'infinito lo stesso canovaccio? L'ultimo vero evento di cui abbia memoria è stato il The Ring di Gore Verbinski. 

L'errore madornale – più o meno incidentale – è stato quello di voler a tutti i costi proporre un horror sempre meno soprannaturale, sempre più concreto, ed è qui che iniziano i guai, perché sai che c'è? A me terrorizza di più un telegiornale che Saw. Saw mi diverte, il TG mi crea ansia.  

Non potrai mai sorpassare le nefandezze della realtà, perché da una parte c'è gente che muore davvero, dall'altra no. Facile e terribile al tempo stesso, non credi? 

Se la platea fa il tifo durante le torture degli sfigati di turno, come regista – mi spiace – ma hai fallito il tuo obiettivo. Stai mettendo in scena un Luna Park, non un horror movie. Solo che adesso si fanno film per far sghignazzare le platee… Io le voglio ammutolite dalla paura, agghiacciate di terrore, altro che sentire sgranocchiare il pop corn! 

Il caso Halloween è per me emblematico: il cult di Carpenter, nelle mani del pur capacissimo Rob Zombie, è diventato uno slasher qualsiasi. Troppe spiegazioni, troppe giustificazioni, troppa macelleria, poco coraggio. Occorre lasciare zone oscure, parlare di cose che non potremo mai spiegare, creare il disagio, non spiegarlo! Il mostro deve restare mostro e non me lo devi psicanalizzare, sennò diventa un disadattato qualsiasi e bruci tutto il fascino dell'ignoto. 

L'horror è buio e mistero, inspiegabile e sublime terrore. Se non lo capisci, se non lo accetti per quello che è, il thriller è il genere che fa per te allora. È un genere degno che funziona benissimo. Ma occorre decidere da che parte stare. 

Scendendo più nei particolari, preferisci l'horror viscerale e materialistico del torture porn (Hostel, Martyrs, À l'intérieur…) oppure quello più sottile e psicologico dell'estremo oriente (The Ring, The Grudge, Two Sisters…)?

Non amo i torture porn, perché mi annoiano. L'idea del primo Hostel era stimolante, ma il seguito mi ha deluso. Vedere una sequenza di morti, più o meno creative, non mi trascina. Mi disgusta, magari, mi disturba, ma non colpisce la mia immaginazione e io sono uno che si stufa in fretta. Sono film “bidimensionali”: se ti occupi solo del mio stomaco e non del mio cervello, non stai facendo bene quello che fai. Vorrei vedere più film come The Ring (quello USA), come quelli di Carpenter (su tutti Il Signore del Male), oppure L'Esorcista (il primo), L'avvocato del Diavolo, Angel Heart, 30 giorni di buio, Alien, Punto di non ritorno, Hellraiser… Chiedo troppo? 

Tra vampiri, licantropi, zombi, fantasmi o altro, qual è il tuo mostro preferito e perché?

Spettri. Sono gli unici di cui ho scritto tra quelli che hai nominato. 

I vampiri li hanno conciati davvero malissimo, poveracci. I Licantropi non hanno mai davvero avuto un vero pubblico; tornano fuori ogni tanto, ma non sono delle “star”. Al massimo dei comprimari. Gli zombi mi piacciono: conservano una loro integrità (a differenza dei vampiri), ma sono forse un po' troppo sfruttati. Mi sta piacendo The Walking Dead, mentre la saga di Resident Evil mi ha davvero esasperato. 

Quali sono i tuoi prossimi progetti letterari e non?

Un documentario per la TV sul cinema horror, poi una cosa che ha a che fare con gli zombi e che coinvolgerà molta gente (un progetto un po' strano, vedremo se e come si concretizzerà) e un nuovo romanzo. Quale sarà il romanzo a cui lavorerò di qui a qualche mese ancora non lo so. Ci sono tre trame che sgomitano: quella che mi convincerà di più, la p
iù definita che la spunterà nel momento in cui mi pruderanno i polpastrelli, vince. Tra queste, c'è anche il ritorno dei miei monaci… 

Un'ultima domanda, che è ormai diventata un vero e proprio tormentone: secondo te è Alien è un film fantascientifico o piuttosto horror? Motiva la tua scelta!

È un horror. L'horror non ha ambientazioni obbligate. È un parassita che infetta le realtà, deformandole. Per questo ci sono i western-horror, i fantasy-horror, ecc. ecc. 

La prova è che la stessa trama in un castello medioevale o in un ospedale abbandonato avrebbe funzionato ugualmente. L'astronave è del tutto accessoria. Solo un espediente scenografico. 

E poi Ripley va in giro in canottiera e si sa: se a un certo punto del film, c'è una ragazza mezza nuda o in canottiera, non ci sono santi. È un horror… 😉 

Valentino G. Colapinto

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