:: Un’intervista con Lorenzo Mazzoni, autore di 81280JL, a cura di Giulietta Iannone

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Benvenuto Lorenzo, e grazie di averci concesso questa nuova intervista. Il tuo nuovo libro, edito da Edizioni Spartaco è un romanzo impegnativo, forse il tuo più complesso: l’affresco, seppure alternativo, di un’epoca, una controstoria underground, sotto acido si può dire. Ma non solo, un ritratto corale, con tanti e tanti personaggi, i più disparati. È difficile definire il tuo nuovo romanzo, o imbrigliarlo in una categoria o in un genere, soprattutto guardando alla letteratura italiana, pochi osano tanto. Da dove nasce l’idea? C’è stato un momento preciso che ha fatto scattare la scintilla?

Grazie a voi per l’ospitalità. Dunque, credo che la scintilla sia stato l’ascolto di A day in the life dei Beatles in un pomeriggio di parecchi anni fa, a Ferrara. Ho iniziato a chiedermi: se Mark Chapman non avesse sparato a John Lennon ci sarebbe stata la possibilità di rivedere insieme i Beatles? E se sì, avrebbero realizzato altri capolavori? Da queste domande ho iniziato a cazzeggiare con la mia testa. Cosa realmente mi abbia portato, passo dopo passo, a inserire nella storia così tanti personaggi e così tante situazioni è difficile da spiegare. Un amico scrittore durante una presentazione, anni fa, mi disse che avrebbe tanto voluto conoscere il mio pusher. Non so, se tra le righe, questo possa dipanare la matassa di come funziona il mio cervello. Scherzi a parte: sì, credo che la scintilla sia stata A day in the life… I saw a film today, oh boy/The English Army had just won the war/A crowd of people turned away/But I just had to look/Having read the book/I’d love to turn you on… e via discorrendo.

Partirei dal titolo, un po’ criptico, ma sveliamo subito il mistero: una data, 8 dicembre del 1980. Cosa successe?

Mark David Chapman, “Il più coglione dei coglioni”, come lo ha definito Paul McCartney, si è recato a New York, davanti al Dakota Building, e ha ammazzato John Lennon. Ispirato dalla lettura compulsiva de Il giovane Holden e da omini verdi dentro la sua testa che lo incitavano a compiere l’atto criminoso chiamandolo “signor Presidente”. Personalmente, credo che l’8 dicembre del 1980 sia uno dei giorni più tragici del Novecento.

Hai immaginato una controstoria degli anni ’80: quanto c’è di documentazione storica e quanto di invenzione narrativa in questa ricostruzione alternativa? Il romanzo si muove tra cospirazioni, geopolitica, CIA, droga, controllo mentale, telepatia… Quanto di quello che racconti credi sia vicino alla verità storica?

La documentazione storica è stata importante, fondamentale. È servita per ricamarci sopra la narrazione. La guerra civile libanese, le ingerenze israeliane in Libano, la compravendita di ebrei tra Romania e Israele, i campi di addestramento a Aden, gli ospiti del Chelsea Hotel, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il South Bronx messo a ferro e fuoco: è tutto vero. Ma anche fatti minori, che apparentemente potrebbero risultare di finzione, sono reali. Per esempio, la scena che vede Asher il Depresso fuggire dall’Afghanistan a dorso di un mulo o l’idea di mettersi dentro una cassa per andarsene dall’Asia, sono tratti da un reportage d’annata sulla Via della droga. La CIA ha realmente compiuto esperimenti telepatici e non è un segreto il fatto che i servizi segreti, non solo americani, abbiano usato (e usino) Paesi in via di sviluppo come base per il commercio di droga in Occidente. Insomma, c’è molta realtà storica, seppur i personaggi siano, in parte, inventati.

Quanto tempo hai impiegato a scrivere il romanzo? È stato un percorso lineare o caotico?

Ci ho impiegato circa sette anni. Ho iniziato ad accumulare materiale, a leggere testi inerenti al periodo storico, mi sono fatto lunghe sedute di Beatles e Lennon, ho guardato documentari e film, ho abbozzato diverse scalette. Nel mentre, ho lavorato anche ad altre storie. Diciamo che il percorso è stato inizialmente lineare, poi è diventato caotico nello sviluppo centrale e poi è tornato lineare nell’ultimo anno, quando mi sono concentrato a chiudere tutti i sentieri narrativi che avevo aperto.

Perché hai scelto John Lennon come figura centrale e simbolica di questo romanzo? Che cosa rappresenta per te? E, per il romanzo?

Perché la sua morte ha significato la fine di una speranza: rivedere insieme i Beatles. I Beatles, più che il solo Lennon, rappresentano una parte importante della mia vita. Non sono soltanto la colonna sonora di uno dei periodi storici per me più interessanti, ma sono stati, e sono, la mia colonna sonora. Non mi stancherò mai di ascoltarli perché mi danno continue suggestioni, mi forniscono risposte. Lennon non poteva non essere centrale e simbolico in un romanzo ambientato nel 1980, culminato appunto con il suo assassinio. Tutto ruota intorno a lui e ai Beatles e a quello che rappresentano anche per alcuni protagonisti del libro.

C’è un autore o un’opera in particolare che ti ha ispirato durante la scrittura di questo romanzo? A me viene in mente Burroughs, per esempio e le sue contaminazioni con la fantascienza.

I libri di Robert Fisk sulla guerra civile libanese e sul Medioriente in generale. Magnifici. Bellissimi. Coraggiosi. Le impalcature letterarie di Paco Ignacio Taibo II. I dialoghi taglienti di Elmore Leonard. Il giovane Holden, naturalmente. E poi Robert Stone, Barry Gifford, James Ellroy, John le Carré, Graham Greene, Tom Robbins, Jabbour Douaihy.

Cosa è rimasto secondo te dello spirito degli anni ’60-’70, e cosa invece si è perso per sempre?

Si è perso tutto perché la Storia non permette repliche, o se le permette le toglie di ogni sostanza, è solo apparenza. Oggi stanno tornando di moda i pantaloni a zampa e si vedono in giro giovani con t-shirt dei Pink Floyd e dei Grateful Dead. Forse uno su cento di quei giovani sa chi fossero. Gli piace la maglietta. Gli piace la camicetta hippie. Finisce lì. La mia generazione ha gravi colpe nel non aver lasciato nulla di quello spirito. Noi, da figli di chi ha vissuto gli anni ’60 e ’70 abbiamo beneficiato dei ricordi diretti dei nostri genitori e fratelli maggiori e abbiamo custodito con stupido orgoglio quello spirito per lasciare i nostri figli solo con l’apparenza. La creatività sta morendo, e un mondo senza creatività è un mondo vuoto. Insulso. E la colpa è solo nostra.

Come hai lavorato con Edizioni Spartaco? Il libro ha richiesto un editing lungo? A chi è stato affidato?

Con Edizioni Spartaco si lavora sempre bene. Sono stati molto onesti. Nella versione consegnata in redazione c’era qualcosa che non andava. La storia gli piaceva, ma era lunga se non il doppio, quasi. C’erano troppi riempitivi, il linguaggio, soprattutto gli slang, era estremo, c’erano fili che andavano recisi. L’editing è stato affidato a Tiziana Di Monaco che ha fatto un lavoro da perderci la testa. A tratti ho pensato che stesse facendo qualcosa che andava oltre la razionalità umana. Sarebbe bello mostrare cosa io le ho dato e come lei lo abbia migliorato senza snaturare il perché della mia storia e il mio stile. È stato un editing eccezionale, impegnativo, strepitoso. Gli sono molto grato. E sono molto grato a Edizioni Spartaco perché 81280JL è stato un investimento immane per un editore indipendente, e realizzandolo hanno dimostrato, concretamente, di credere, ancora una volta, in un mio romanzo.

Hai già in mente un prossimo progetto, o hai bisogno di una “disintossicazione” da questo universo?

Un solo progetto è riduttivo. Sto lavorando a una storia di italiani emigrati in America durante la Guerra civile, a una storia che inizia nel 1945 e finisce nel 1969 alla ricerca di un diamante blu, e a diversi inediti di Malatesta. Indagini di uno sbirro anarchico. Ma sto facendo tutto con molta calma. Già pronti, usciranno l’anno prossimo, una sorta di metaromanzo che verrà pubblicato da Cafféorchidea, e un testo molto particolare dedicato alle figure dei più celebri dittatori contemporanei che verrà pubblicato dai tipi di Prospero Editore.

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