:: Un’intervista con Marina Visentin, autrice di Aurora a cura di Giulietta Iannone

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Benvenuta Marina su Liberi di scrivere e grazie di avere accettato questa intervista. Giornalista, traduttrice, scrittrice, parlaci di te, dei tuoi studi, del tuo lavoro.

Non è semplice da sintetizzare la mia vita lavorativa. Ho studiato da filosofa e quello volevo fare da grande, invece mi sono ritrovata a fare la copy-writer in un’agenzia di pubblicità, non mi piaceva e mi sono messa a fare la giornalista. La cronaca mi stava stretta, ho pensato bene di lanciarmi nel mare tempestoso della critica cinematografica. Le parole mi sono sempre piaciute e quindi ogni tanto mi sono anche divertita a tradurle da una lingua all’altra. I romanzi sono venuti alla fine, dopo una lunga strada lastricata di saggistica, tra cinema e filosofia, ma mi hanno dato tra l’altro la possibilità di far rivivere il vecchio e mai dimenticato amore per le sfumature nere della cronaca e della storia.

Hai da poco pubblicato Aurora, un ottimo noir nella collana Calibro 9 di Laurana Editore. Ce ne vuoi parlare? Come è nata l’idea di scriverlo?

La prima idea è nata da uno spunto autobiografico: uno spavento che davvero ho provato alcuni anni fa. D’improvviso, senza alcuna ragione, avevo scoperto che qualcuno mi stava seguendo, prendeva informazioni su di me, mi sorvegliava. Per alcune settimane mi ero sentita vulnerabile, inspiegabilmente sottoposta a un controllo misterioso e inquietante. Come era iniziata, in modo altrettanto repentino, questa esperienza è finita. Non ho mai saputo a cosa fosse dovuta, probabilmente a uno scambio di persona. Da questa sensazione di minaccia, tanto inafferrabile quanto allarmante, è nato il primo nucleo di Aurora, che si è poi arricchito della mia passione per l’arte contemporanea e del mio desiderio di scrivere. Per raccontare delle storie, certo, ma anche e soprattutto per dare voce alle donne, alle loro paure, ai loro desideri, alle loro fragilità, alla loro forza, nonostante tutto.

Partiamo dall’ambientazione, una Milano invernale, grigia, fredda, con puntate al lago e a Venezia. Uno scenario malinconico, triste, come hai definito i contorni nelle cose, degli ambienti?

La vera protagonista di Aurora è l’acqua: acqua che ti avvolge, acqua che ti sommerge, acqua di cui avere paura. Acqua trasparente e al tempo stesso torbida. L’acqua di cui Gemma, la protagonista del romanzo, ha paura. Per un motivo ben preciso, che si ricollega al suo passato, a un evento traumatico che ha tentato di seppellire nel profondo della sua coscienza, ma che ogni notte ritorna sotto forma di incubo. Il lago Maggiore e Venezia sono i due scenari che ho scelto proprio per raccontare l’acqua nella sua dimensione calma – il lago, la laguna – e al tempo stesso minacciosa. E poi c’è Milano, ancora e sempre, la mia città, amata e detestata. E ho scelto di raccontarla in inverno, nelle giornate più corte dell’anno, perché proprio il buio è la dimensione che più di altre può descrivere la paura, il disagio, la vulnerabilità.

Gemma è la protagonista, una donna apparentemente forte, realizzata, anche benestante ma con un segreto che teme che tutti possano scoprire. Come hai costruito questo grumo nero di male, nel cuore di un personaggio per certi versi solare?

In qualche modo ho fatto appello all’ambivalenza che abita tante donne: forti, fortissime, capaci di affrontare a testa alta prove di ogni genere e però intimamente fragili, bisognose di sostegno, incapaci di emanciparsi davvero da una profonda sensazione di inadeguatezza. L’idea del segreto da nascondere nasce proprio da questa esperienza condivisa da tante donne: un senso di colpa che nasce prima di tutto dalla sensazione di essere deboli, dalla paura di non essere veramente all’altezza.

La protagonista è una donna forte, razionale, ma nei sogni torna al passato, alla fobia per l’acqua, a un senso di colpa che non l’abbandona. Molto freudiano non trovi? Quanto incide la psicanalisi nel tuo narrato?

Grazie di avermi fatto questa domanda! La dimensione psicologica per me è fondamentale. Più dell’intreccio mi interessano i personaggi, la verità delle relazioni che intrattengono con gli altri, con il mondo circostante. Gemma, la protagonista del mio romanzo, rivive ogni notte – negli incubi che turbano il suo sonno – un evento traumatico che ha segnato la sua vita, che ha costruito la sua personalità all’insegna della paura. Paura che si è cristallizzata in una sorta di corazza che serve a tenere a distanza il mondo, oltre che nel tentativo di rimuovere dalla coscienza tutto ciò che può infastidire e mettere in crisi. Quindi, sì, per rispondere alla tua domanda, direi che la psicoanalisi e in generale gli studi di psicologia hanno – hanno sempre avuto – un notevole influsso sulle mie riflessioni e quindi sulla mia scrittura.

Per un malinteso, non sto a spiegare cosa succede, incontra Vittorio. Ci vuoi parlare di questo personaggio?

Non vorrei parlarne troppo, perché non vorrei svelare troppo della trama a chi ci legge. Però mi sembra importante dire che Vittorio è un personaggio tridimensionale. Può sembrare semplicemente un “cattivo”, perché inizialmente è questa la sua funzione – diciamo così – all’interno dell’intreccio, ma in realtà è un personaggio pieno di sfaccettature. Il suo ruolo può rivelarsi negativo, ma forse più che altro è destabilizzante, rispetto all’iniziale equilibrio della protagonista. Forse incarna solo e semplicemente un’immagine di amore tossico, ma a me sembra importante parlarne, non smettere mai di interrogarci sui motivi che possono rendere un uomo come Vittorio tanto seducente.

Quali autori e opere d’arte ti hanno influenzato nella stesura del tuo libro?

Sicuramente una delle immagini iniziali da cui prende le mosse l’intero romanzo è Ophelia di John Everett Millais, un quadro celeberrimo, simbolo del movimento preraffaelita e perfetta rappresentazione di come bellezza e disfacimento, giovinezza e morte possono sovrapporsi in tanti modi, sotto il segno del fascino e dell’inquietudine. Se devo citare un libro, mi viene in mente Acqua nera di Joyce Carol Oates, che guarda caso, nella vecchia edizione che possiedo da tanti anni, ha in copertina proprio questo quadro che per tanti anni mi ha ossessionato.

Ci sono derivazioni cinematografiche? Film o telefilm che ti hanno dato ispirazione?

Tantissimi, naturalmente. Il mio immaginario si nutre di immagini in movimento da una vita intera. Però, per citare un solo titolo, ti direi Il segno del comando, uno sceneggiato degli anni Settanta che ho rivisto per caso proprio mentre stavo cominciando a scrivere questo romanzo, e a cui voluto in qualche modo rendere omaggio. Non tanto alla storia, quanto alla sua atmosfera – sospesa, inquieta, misteriosa.

Immaginati che una casa di produzione cinematografica ne compri i diritti. Hai carta bianca. Chi immagini potrebbe essere il regista e quali attori vedresti nelle parti principali?

Davvero difficile come domanda, soprattutto a voler tenere i piedi per terra. Allora forse meglio sognare: Roman Polanski come regista, Cate Blanchett come attrice protagonista.

Grazie della disponibilità, nel salutarti mi piacerebbe sapere quali sono i tuoi progetti futuri.

Sto lavorando al terzo romanzo della serie di Giulia Ferro, la mia poliziotta milanese, alle prese con un nuovo caso e con la voragine rappresentata dai complicatissimi rapporti con la sua famiglia. Spero di riuscire a vederlo pubblicato il prossimo anno.

E grazie a te!

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