:: Francesco Dezio racconta “La gente per bene”: cronache di un disoccupato quarantenne del terzo millennio a cura di Pierpaolo Riganti

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la gente per beneCamminiamo io e me stesso su un tapis roulant e la città finta ci scorre davanti, l’attraversiamo rimanendo sempre nello stesso punto. Cambia lo scenario, che continua a svolgersi davanti a noi mentre, con una costanza stoica, allunghiamo le nostre gambe sul nastro di gomma. Passeggiamo e riflettiamo, artificialmente scontornati in questo surrogato di realtà.” (pag. 187).

È la freddezza siderale di un’allucinazione il timbro dell’ultimo romanzo di Francesco Dezio (La gente per bene, TerraRossa edizioni, marzo 2018), pugliese di Altamura, che per la terza volta si cimenta nella narrativa sociale impegnata dopo Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004, ora ripubblicato da TerraRossa edizioni) e Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo 2014). Questa volta l’autore prova ad affrontare un tema tabù: la disoccupazione cronica, lo scippo programmato di qualsiasi possibilità di immaginare un futuro (se non come incubo), l’inerzia motoria, la solitudine che accompagna il protagonista al fantasma di se stesso. Tutto questo in un tessuto sociale claustrofobico ed incancrenito dalle metastasi delle collusioni tra imprenditoria e malaffare, della corruzione, dello sviluppo selvaggio e accelerato ma osteoporotico (non appena si incespichi nei mali globali della crisi e del dilagare dei Cinesi), della speculazione edilizia che metamorfizza i paesaggi rurali del Sud fino a renderli, appunto, allucinazioni irriconoscibili.
Un tema letterariamente sfidante, come non è mai stato trattato in Italia: esso va oltre la narrativa operaistica degli anni Zero, inaugurata dallo stesso Dezio con Nicola Rubino (cui seguirono, solo per citarne alcuni, Emanuele Tonon, Il nemico, Isbn 2009; Massimiliano Santarossa con Viaggio nella notte, Hacca 2013; Stefano Valenti, La fabbrica del panico, Feltrinelli 2013); e va oltre la stessa “letteratura precaria”, che ha trovato l’ultimo e più compiuto sigillo in Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi 2016.
La disoccupazione, con l’incapacità di acquisto e l’isolamento sociale, paralizza ogni possibilità di sviluppo narrativo: “… te ne stai in camera ma ruoti su te stesso sulla sedia, magari così catturi il vento del cambiamento e voli via… non ti sei neppure accorto che le rotelline della sedia su cui stai seduto stanno incidendo il pavimento a forza di ruotare. Pure tu stai scavando, per vedere la luce in fondo al tunnel. Cammini in tondo per la stanza come i matti. Ascolti le pareti in cerca di risposte.” (pag. 190). Al protagonista, scollato da sé, in un mondo che non riconosce più come suo (perché di fatto ne è stato espulso, non partecipando alla dialettica sfruttamento – produzione), non resta altro da fare che aggirarsi per la città con sguardo sbigottito eppure lucido: ex disegnatore meccanico ed ex grafico, può tenere allenata la sua professionalità soltanto osservando interi quartieri cresciuti come funghi senza nessuna razionalità urbanistica e geometrica, rimasti deserti perché invenduti: “Ci erano venuti ad abitare i salottari, chi lavorava nei divanifici e aveva potuto mettere soldi da parte per la dépendance, el buen retiro, in grado di riscattare quelle vite ordinarie in un sogno di riuscita sociale (…). Torno a guardare le palazzine, tutte identiche, a linea retta disegnate in AutoCAD, color grigio cemento e beige (…) innalzate sulla base dello stesso progetto, moltiplicate come in un gioco di specchi…” (pag. 178).
Oppure non gli resta che ascoltare gli sfoghi logorroici di altri individui malridotti come lui, spesso rappresentati senza alcuna solidarietà ed empatia come canaglieschi, qualunquisti, ipocriti, o al contrario come intransigenti idealisti di retroguardia, anche attraverso l’uso del dialetto come mezzo di caratterizzazione psicologica e sociale: “La flessibilità l’hanno inventata loro, altro che i cinesi. La conosci la v’rzell? … È una sottile lamina d’acciaio, come le linguine… le tagliatelle, la pasta che si mangia, con la differenza che la v’rzell la puoi piegare a tuo piacimento e non si spezza. Così ti vogliono, flessb’l’ com’ alla v’rzell.” (pag. 168).
O, al più, può fantasticare sulla vita di altri, immaginarsi di essere Un Altro. Ecco dunque che, nell’impossibilità di raccontare una sua storia, l’io narrante rinuncia all’autofiction e racconta la vita dell’Imprenditore Manucci, il re dei divani: è qui che questo romanzo dalla struttura polimorfica ritrova un ritmo forsennatamente veloce e raggiunge il suo culmine di sperimentazione stilistica, con apici esilaranti di deformazione comica (pag. 146: “ L’Italia era appena uscita dalla fame nera e si piazzava davanti agli schermi dei televisori. Lui trovava di cattivo gusto quegli speciali in bianco e nero sui meridionali che sporgendosi dal finestrino del treno in partenza per il Nord davano baci volanti a moglie e morra di figli al seguito, pronti a pulire le deiezioni del Paese Sviluppato. O di certe selvagge che si rotolavano a terra a ritmo di tamburello (…). Manucci non voleva e non poteva essere per tutta la vita un dipendente, no, lui doveva mettersi a conto proprio…”).
Infine, al protagonista non resta che chiudersi in uno spazio domestico imploso su se stesso, in un contesto familiare tutt’altro che idillico e protettivo, dove i rapporti filiali sono usurati dalla fatica di tirare a campare; ed ecco che la casa si contrae: dallo spazio-finestra dove si può osservare un mondo periferico che ancora si muove, sia pure negli ultimi spasmi (pag. 127:“i vetri della finestra del soggiorno tremano per lo spostamento d’aria prodotto dai TIR che percorrono la provinciale che porta a Corato. La strada attraversa questo quartiere di case popolari, dove c’è sempre qualche pregiudicato agli arresti domiciliari affacciato ad impartire ordini. Dirimpetto c’è il più grande centro edile forse di tutta la Puglia (…). Gli occhi di mio fratello, che di tanto in tanto si sporge dal balcone della cucina, vagano annoiati sul mercato rionale che c’è qui sotto…”), si passa alla cucina, dove si consuma un pranzo a base di rimbrotti e rancori reciproci tra padri e figli, poi alla cameretta, davanti al monitor del computer, quasi sempre sui siti cercalavoro a inviare inutili curricola, fino al letto che assomiglia ad un cataletto funebre.
Un romanzo, dunque, che ininterrottamente si apre, in una forma ibrida, al reportage narrativo, alla satira, alla letteratura no fiction (la storia del nonno, soldato, emigrante e poi di nuovo agricoltore nel secondo dopoguerra; le sempre più saltuarie esperienze lavorative in aziende piccole e fragili negli anni Duemila…) ed imbastisce così un’originale storia dell’industrializzazione del Sud, che smarca l’autore da qualsiasi debito letterario nei confronti degli autori su citati (e di altri ancora), in un’Italia spezzata in due (ne è stata l’ennesima conferma la divaricazione tra Nord e Sud del Paese nel voto del 4 marzo) e che continua a mostrare di avere due narrazioni.

Source: libro del recensore.

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