:: Il tempo strappato – Davide Schito

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1r

Ore 7.40
L’aria di dicembre, stamattina, è una lama affilata che graffia il viso e i pensieri.
Lo sa bene Ettore, che in sella alla sua Bianchi ha appena lasciato lo stabile in cui abita, al numero uno di via Gallina, e sta pedalando verso corso Plebisciti, in direzione del centro. Si abbassa sul manubrio, sbuffa nuvolette di fumo ghiacciato e spinge sui pedali più che può, ma nemmeno questo serve a scaldarlo: il freddo ormai gli è entrato dentro, sotto il paltò scuro e la sciarpa di lana scozzese cucita da sua moglie Anna.
“Se non mi prendo un accidente oggi non me lo prendo più”, pensa, mentre Milano, deserta e ancora mezza addormentata, scorre veloce tra i raggi della bicicletta.

Ore 7.59
Mancano solo un paio di settimane a Natale.
A Ettore quella festa non è mai piaciuta. In giro c’è sempre troppa gente, mentre per lui la vera Milano, la sua Milano, è quella che vede all’alba, appena si alza dal letto. Ci sono mattine in cui, durante quei pochi minuti di silenzio, prima che la sua famiglia e la città si sveglino, può addirittura illudersi di essere l’ultimo uomo rimasto sulla Terra.
Sarà che a Natale tutti fingono di essere felici, mentre a lui fingere non è mai riuscito molto bene. Se non fosse per Silvano probabilmente non metterebbe nemmeno l’albero in soggiorno. Lo fa solo per suo figlio: quindici anni sono troppo pochi per smettere di sognare. Non vuole che diventi come lui. Nessuno dovrebbe.
La banca, stamattina più del solito, ha le sembianze di una balena pronta a inghiottirlo. Mentre timbra il cartellino e saluta distrattamente un collega, uno di quelli che in un’altra vita avrebbe potuto considerare un amico, Ettore pensa alle feste che si avvicinano e si sorprende a sperare che quest’anno, a Milano, scenda la neve. La neve che porta silenzio e pace, che ovatta i rumori. La neve che nasconde tutto, anche i peccati, le bugie e gli errori del passato. Persino i brutti pensieri.
Milano con la neve è magica, non sembra neanche più lei. Nello spazio di una nevicata il tempo rallenta fino a fermarsi. Si trovano altri punti di riferimento, angoli smussati che esistono solo il tempo di soffiarli via, e ci si può persino illudere di essere una persona diversa. Nuova.

Ore 12.30
L’ora di pranzo, per Ettore, è il momento peggiore della giornata.
La sirena che annuncia la pausa ha il sapore amaro della sconfitta. Ettore posa sulla scrivania la matita, archivia le ultime pratiche nei loro faldoni, infila il paltò e si accoda ai suoi colleghi. Avanza a piccoli passi, guardandosi le scarpe, ben attento a non incrociare altri occhi. Qualcuno ridacchia e lo spinge da dietro: normalmente la cosa gli darebbe molto fastidio, ma la verità è che ormai ci ha fatto l’abitudine, all’irruenza e alla maleducazione delle persone.
Più passano gli anni e più Ettore si accorge di non essere tagliato per vivere gomito a gomito con altri esseri umani.
«Sei un orso», gli ripete sempre sua moglie. I primi anni lo diceva scherzando, ma Ettore sa che il tempo degli scherzi è finito da un bel po’. Ultimamente litigano spesso: lei si lamenta perché non escono mai e quando torna lui è troppo stanco persino per parlare. Ieri sera gli ha addirittura rinfacciato che quella che fanno non è vita.
Forse Anna ha ragione, riflette. Forse non sta vivendo, non davvero. Ma in fondo cosa può fare un impiegato di banca se non tentare, cercare, strappare, rubare il tempo per riuscire a vivere, in quelle misere tre ore che gli rimangono, ogni sera, prima di andare a dormire?
Strappare il tempo: un’immagine che ogni tanto gli torna in testa, ingombrante come le troppe parole che si tiene dentro. Strappare gli anni che passano, ricominciare da capo, lontano da tutto e tutti.
Chissà se si può.

Ore 16.33
Ettore ha appena spento la sigaretta nel posacenere e sta sbirciando fuori dalla finestra dell’ufficio che condivide con altri quattro colleghi. Una piccola pausa, dopo ore di lavoro ininterrotto: non ama distrarsi, lui, non è come gli altri che passano ore a chiacchierare di niente. Non si inserisce mai nei loro discorsi, li trova vuoti, privi di interesse: calcio, donne, noiosi racconti di famiglia. Si concede solo due pause da tre minuti, una alle undici e una alle quattro e mezza, per fumarsi in solitudine una Nazionale, il suo unico vizio.
Due piani più sotto, piazza della Scala inizia a popolarsi di paltò scuri troppo simili al suo e berretti ben calcati in testa. Contravvenendo alle sue ferree abitudini, Ettore indugia qualche minuto in più sui passanti che entrano ed escono dalla Galleria. Ne segue i movimenti disordinati. Più che uomini, gli sembra di guardare tante formiche che cercano disperatamente di sopravvivere. Ne osserva le ombre allungate, prive di volontà e spessore, confondersi col grigio dell’asfalto e farsi sempre più deboli.
Il sole, intanto, sta per sparire del tutto dietro le tegole rosse dei palazzi del centro. Tra poco sarà già notte: è il destino degli impiegati, d’inverno, quello di non respirare mai un raggio di luce. Ti svegli col buio, abbassi la testa sulle carte e quando la rialzi sembra non sia passato che un minuto. Salti le ore di otto in otto ed è così che a un certo punto, nel riflesso sbiadito di una finestra, ti scopri improvvisamente vecchio.

Ore 16.37
Il boato coglie tutti di sorpresa quando ormai il pomeriggio è quasi finito. Lo spostamento d’aria fa tremare i vetri e i pavimenti, l’eco rimbalza impazzita sulle pareti e le vibrazioni fanno cadere per terra alcuni fogli, impilati gli uni agli altri sulle scrivanie.
D’istinto Ettore abbassa la testa e si copre le orecchie con le mani. Per un attimo è come se il desiderio di poco prima si fosse realizzato, come se il tempo si fosse davvero strappato. Come se gli ultimi venticinque anni fossero stati solo un sogno agrodolce e lui fosse ancora in mezzo alle montagne, vestito di grigioverde, la baionetta e un fiasco d’acqua come unici compagni. Prima che il mondo rovinasse come una slavina addosso ai suoi ventidue anni. Prima di scoprire di essere stato ingannato.
Il tempo di guardarsi intorno basta però a Ettore per capire che non è così. Il tempo è ancora al suo posto, il passato è passato e non può cambiare, il futuro ancora non esiste.
La guerra – quella guerra – è finita. Hanno perso tutti, soprattutto quelli come lui che ci credevano, ragazzini col cervello infarcito di belle parole e la smania di fare gli eroi.
Ora di quel ragazzino partito volontario non è rimasto che un nome spiegazzato su una carta d’identità scaduta. L’Ettore impiegato di banca è una creatura diversa, di fare l’eroe non ha più voglia, vuole solo sopravvivere. Cosa ci sia di così speciale in quella sopravvivenza, poi….
Forse Silvano.
È sempre e solo per lui che il suo cuore accelera i battiti alla ricerca di un telefono, mentre tra le mura di quella banca divenuta prigione il boato lascia posto a un silenzio che sa di fango, schegge, spettri e ricordi così reali da poterli quasi toccare.

Ore 16.44
La sirena antincendio è un lupo affamato in una notte di luna piena.
«Tutti fuori, forza!» grida il capoufficio, indicando la tromba delle scale. Gli impiegati raccolgono alla meglio la loro roba e si incamminano disordinatamente verso l’uscita. Ettore è lì, tra loro. Ha l’espressione tirata e il colorito pallido, lo stesso della maggior parte dei suoi colleghi.
Per la prima volta sente di avere qualcosa in comune con loro: la paura. Non è riuscito neanche a chiamare a casa: ci hanno provato in troppi, le linee sono intasate. Qualsiasi cosa sia successa è di certo qualcosa di brutto.
Troppe bombe hanno sfiorato i suoi timpani per non riconoscerle.
Anche gli altri lo sanno. C’erano anche loro, magari su sponde diverse, ma c’erano. Nessuno ne parla mai, le ferite sono ancora troppo fresche.
E di questo passo, una bomba alla volta, Ettore è sicuro che non si rimargineranno mai.

Ore 16.51
Due Alfa Romeo color oliva della Polizia sfrecciano su via Manzoni, di fronte al Teatro, seguite da tre ambulanze, una dietro l’altra.
«Andate, andate a casa», annuncia il direttore, allargando le braccia in segno di resa. La settimana è finita in anticipo, ma nessuno ha voglia di festeggiare. Di sicuro non Ettore, che in silenzio, senza salutare, si annoda la sciarpa al collo, inforca la bicicletta e inizia a pedalare verso corso Matteotti. In corso Monforte incrocia almeno altre quattro ambulanze, proiettili verdi col simbolo della Croce Rossa tatuato sulle fiancate. Le osserva bruciare i semafori, in direzione del centro. All’altezza di piazza Tricolore si accorge che le sirene sono ormai diventate un sottofondo costante, un lamento di morte, rigurgito di vecchie catastrofi.
Approfitta di un semaforo rosso e si sistema meglio la sciarpa sul viso. Fa addirittura più freddo rispetto a stamattina, si ritrova a pensare. Sotto al paltò le costole spingono sulla pelle ed Ettore si accorge di tremare. Non saprebbe dire se per la temperatura o per altro.
Quando scatta il verde, Ettore riprende a pedalare, senza mai voltarsi, e non si ferma più finché non è a casa.

Ore 17.18
Quando vede Silvano corrergli incontro, sulla porta, Ettore per un attimo riesce quasi a cancellare ogni paura, ogni preoccupazione, ogni memoria dell’inferno appena passato. È solo grato di esserci ancora.
Forse, pensa, qualcosa di buono è rimasto, persino qui, in quest’epoca estranea e insoddisfatta. Anche senza strappare il tempo, senza accartocciarlo e gettarlo dalla finestra, un pizzico di felicità non è così irraggiungibile come credeva.
L’unica speranza, per lui, è quel ragazzino con i riccioli neri che abbraccia il suo papà, in un pomeriggio di dicembre di fine decennio che nessuno potrà mai dimenticare.

In memoria di Ettore Schito
16/7/1923 – 13/7/2013

Davide Schito è nato e vive a Milano. Ha pubblicato il racconto “L’uomo spaventato” con la casa editrice digitale Milanonera, oltre a diversi altri inseriti in siti web, riviste e antologie sia cartacee che digitali, tra cui “365 storie d’amore” e “Writers Magazine Italia n.70” (2013, Delos), “Ore nere – Otto racconti del terrore” (2014, dbooks.it), “Racconti mondiali” (2014, Autodafè), “Delitti d’estate” (2014, Novecento). Ha autopubblicato i racconti “Il tram del tempo” e “Blackout”, e la raccolta “Punto di non ritorno”. Insieme a Serena Bertogliatti ha fondato su Facebook il gruppo “Scrittori che danno del tu” per diffondere l’uso della Seconda Persona Singolare al Presente nella narrativa. Dall’esperienza del gruppo e da una selezione letteraria è nata l’antologia gratuita “Seconda – 15 racconti che danno del tu”.

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