Qualche anno fa, residente in Germania, entrai in una libreria decisa a comprare finalmente un romanzo in tedesco. La mia padronanza della lingua era sufficiente a vivere in quel Paese, ma ancora ben lontana da quella necessaria a gustarsi un romanzo. Ma da qualche parte si deve pur cominciare, no? E così cominciai, fissando le pareti ricolme di libri con lo sguardo vago dei bambini, per cui molte sequenze di lettere altro non sono che sequenze di lettere mute, alla ricerca di una qualche indicazione, un punto di partenza, un suggerimento.
Scoprii così, con quel privilegiato punto di vista, che era veramente facile riassumere il contenuto di una libreria. Quella, in particolare, mi mostrò una tendenza che – l’anno seguente, di nuovo in Italia – avrei scoperto essere molto più diffusa di quanto credessi.
La maggior parte dei romanzi in vendita cadeva sotto due grandi categorie: il Liebesroman (il romanzo rosa) e il Krimi, l’equivalente dei nostri romanzi gialli.
In quel momento provai una commistione tra rabbia e frustrazione. L’incredibile varietà potenzialmente offerta dalla parola scritta finiva tutta lì, in due parole? Tale rabbia, per qualche secondo, andò direttamente a rivolgersi ai fruitori dei due generi. Perché tanta gente era ossessionata dai romanzi rosa e gialli, o rosa o gialli, come se un romanzo non potesse essere di valore senza offrire un po’ di sentimento o un mistero da risolvere?
Avrei avuto parte della risposta alla domanda negli anni seguenti. In quattro precisi momenti. Grazie a un saggio sulla crittografia, a un seminario su una missione NATO in Afghanistan, a una serie di foto per ossessivo-compulsivi e, per concludere e tirare le somme, a La promessa: Un requiem per il romanzo giallo di Dürrenmatt.
La prima parte della risposta mi venne fornita da un saggio sulla crittografia (Codici & segreti di Simon Singh). Avete presente? Se scrivo rvftub qbspmb in realtà intendo questa parola, ho semplicemente spostato di un posto in avanti le lettere dell’alfabeto. Così come il solutore di codici sa (deduce) che r in realtà è q, l’investigatore provetto sa (deduce) che l’impronta della scarpa nel terriccio è in realtà un indizio: qualcuno è passato di lì, e quel qualcuno portava quell’esatto tipo di scarpa, numero 42, lo stesso tipo e numero dell’indiziato numero uno. E, indizio dopo indizio, decifratura dopo decifratura, l’investigatore decifra l’intero giallo. Da un accumulo confusionario di segni, esso diventa una trama ben ordinata. Da un testo cifrato, esso diventa quello che viene chiamato un testo in chiaro, ed è leggendo questo testo che si scopre chi è il colpevole.
Il peggior nemico di un creatore di codici è la regolarità. O, detto in altre parole e dal punto di vista opposto, il peggior nemico di un solutore di codici è la casualità.
Se ora vi scrivessi vo’bmusb qbspmb, vi sarebbe semplice decrittare il messaggio: vi basterebbe applicare lo stesso metodo usato prima. Potrei complicare le cose, spostando le lettere di due posti indietro, o addirittura cambiando metodo a ogni lettera, ma per rendere il messaggio decrittabile dal destinatario dovrei trovare una regolarità che il destinatario del messaggio possa riapplicare, e voi – in veste di solutori di codici – non dovreste far altro che cercare quella regolarità. Se il mio modo di crittare mancasse di regolarità, e fosse invece completamente casuale, non avreste modo di decrittare il messaggio – ma non lo avrebbe neanche il destinatario del messaggio.
(Per amor di precisione: per quanto riguarda i codici non è esattamente così. Ma, se la materia vi interessa, oltre a Dürrenmatt potreste comprare anche Singh.)
Quel che dà una speranza ai solutori di codici è che tutti i codici vengono creati per essere decifrati almeno da una persona, sia questa il depositario di una compromettente lettera d’amore o l’ambasciatore stanziato in un Paese ostile. Deve quindi esserci almeno un modo di penetrare nel codice, ed è questo che il solutore di codici deve scoprire.
Nel caso dei crimini, però, il colpevole desidera tutt’altro che fornire all’investigatore un giallo risolvibile. (Tranne nei casi, molto amati nella fiction, in cui il colpevole vuole essere scoperto dall’investigatore, anzi, vuole che l’investigatore si danni l’anima pur di scoprirlo, in un gioco gatto & topo che fa somigliare il colpevole a un passivo-aggressivo in cerca di attenzioni.) Il colpevole geniale, anziché architettare un giallo elegantissimo e barocco che si svelerà completamente non appena trovata la chiave giusta, cercherà piuttosto di confondere le proprie tracce nel caos generale che compone la realtà. E non è che sia poi così difficile. Quanti modelli X di scarpa numero 42 vengono venduti all’anno? In quanti di questi può andare a perdersi il fatto che l’indiziato porta quel modello e quel numero, e che nel terriccio c’è l’impronta di quel modello e di quel numero?
E questo è proprio il problema al centro de La promessa di Dürrenmatt: la molteplicità e la casualità con cui la realtà si dispone.
Il quadro del colpevole all’interno del romanzo indica un uomo che guida un’auto X e veste di un certo colore Y e ha percorso più di una volta la strada che va da una città Z a una città J. Quanti individui del genere esistono? (Senza contare che due di questi stessi dati – l’auto X il colore Y – sono deduzioni, ipotesi, e quindi probabilmente fallaci.) Se questo fosse un messaggio cifrato, bisognerebbe provare un numero enorme di chiavi, producendo un numero enorme di testi in chiaro insensati, prima di trovare quella giusta. Una vita non basterebbe, probabilmente. E neanche due. Per trovare la chiave di alcuni messaggi criptati, pensate, non basterebbero migliaia di anni – e un messaggio criptato è incredibilmente più facile da decriptare della realtà, in cui il messaggio criptato – il giallo – si mescola indistintamente a variabili che nulla hanno a che fare con il crimine ma sembrano in tutto e per tutto indizi. Aggiungeteci il fatto che, nel caso del nostro giallo, anziché provare chiavi producendo testi in chiaro insensati, bisognerebbe fermare tutti gli individui che corripondono al quadro di cui sopra e sottoporli ad altre verifiche. Non solo ciò non è verosimilmente realizzabile dalla polizia – che nel frattempo ha altri casi da risolvere – ma se anche fosse possibile, la polizia non avrebbe altri dati in mano che una verifica potrebbe confermare.
E allora come si fa?
Leggete il romanzo e scopritelo: è il giallo che Dürrenmatt crea per voi, e che vi svelerà, ma svelandovelo vi mostrerà quale risicata probabilità abbia la polizia di risolverne uno simile.
Il problema dei gialli – o perlomeno della tipologia di giallo che funziona, tira e vende, e quindi viene riprodotto – è che hanno solo due strade per uscire dalla frustrante complessità casualmente ordinata che compone la realtà. O – e questa è la soluzione che viene più criticata – ricorrono a un deus ex machina, creando provvidenzialmente connessioni nodali tra elementi altrimenti troppo distanti (Toh, guarda caso l’assassino è il vicino di casa dell’investigatore, che può quindi osservarlo nella sua quotidianità); oppure semplificano quella complessa realtà, eliminando le variabili che confonderebbero l’investigatore (Toh, in quel punto è passata solo una persona che indossava quel modello e numero di scarpe, e quella persona è il colpevole). Il giallo ideale – quello che avvince il lettore per la sua complessità iniziale, ma che alla fine viene sbrogliato – deve poter essere come una cifratura complessa: per quanto casuale e complessa essa possa sembrare, sarà comunque incredibilmente più regolare e semplice della realtà.
Ed è questo, proprio questo, che Dürrenmatt critica.
La nostra ragione rischiara il mondo non più dello stretto necessario. Nel bagliore incerto che regna ai suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale. Dobbiamo guardarci dal considerare questi fantasmi come fossero qualcosa “in sé”, come se si trovassero fuori dello spirito umano, o, peggio ancora: non commettiamo lo sbaglio di considerarli come un errore evitabile, sbaglio che ci potrebbe indurre a condannare il mondo in una sorta di morale caparbia e dispettosa, qualora tentassimo di imporre una visione perfettamente razionale delle cose, giacché proprio la sua perfezione assoluta costituirebbe la sua menzogna mortale e un segno della peggiore cecità.
Il giallo ideale, quindi, sarebbe quello che riesca a mantenere l’effetto thrilling dato dalla risoluzione di una cifratura complessa senza però, per far questo, sminuire la complessità della realtà.
Mi viene in mente, a tal proposito, un corso sulle Organizzazioni Internazionali a cui partecipai in Inghilterra. Divisi in gruppi, nel corso dei seminari avremmo dovuto preparare una presentazione di una missione di un’organizzazione internazionale. Avendo nel gruppo un ex militare che era stato in Afghanistan, ci concentrammo sull’ISAF (International Security Assistance Force), missione appena conclusasi. La maggior parte dei nostri incontri, ricordo, venne spesa ascoltando i tentativi dell’ex militare di farci capire il problema della complessità nel disegnare strategie per la ricostruzione post-conflitto in luoghi come l’Afghanistan. Ci parlava degli infiniti elementi da considerare per prendere una singola decisione su una singola istituzione. Ad esempio: come evitare che gli afghani continuino a coltivare oppio? Bisogna considerare una varietà di elementi che raramente coesistono nella mente di un esperto, in questa società delle specializzazioni: le condizioni economiche, la microeconomia dei contadini e quella macro dell’Europa che compra oppio, e quelle culturali, la fiducia e sfiducia dei contadini nei confronti dei talebani e delle varie forze straniere presenti sul territorio (che a loro volta si dividono, perché un americano non viene visto come un italiano che non viene visto come un tedesco), gli interessi politici locali e quelli nazionali e quelli internazionali, e la religione, ovviamente, anzi, le religioni, e poi un sonoro e sincero boh, perché non sono stata in Afghanistan né ne sono un’esperta, ma ricordo ancora il complessissimo schema che quell’uomo ci piazzò sotto gli occhi, e che potete trovare a questo link.
L’ISAF si è conclusa e le scommesse sul suo lascito sono aperte. Se andrà male, ricorderà uno di quei casi in cui si scopre che in quel punto sul terriccio di persone ne sono passate due, non una, e quindi che in prigione c’è la persona sbagliata.
Questo è quello che accade nella realtà.
E nella fiction?
Perché amiamo leggere gialli – i gialli canonici, eleganti e con una conclusione, non i gialli alla Dürrenmatt?
Dopo questo lungo elogio alla complessità e alla casualità, per non parlare della multicausalità, non posso certo darvi un’unica, certa, risposta. Non ce l’ho. Ma, mentre leggevo La promessa di Dürrenmatt, mi è venuta in mente una serie di foto di Ursus Wehrli (svizzero come Dürrenmatt) in cui ero inciampata aprendo un link intitolato 12 pics that will satisfy your obsessive compulsive disorder .
Trovare un senso e un ordine alle cose è rassicurante. Un po’ artificioso, a volte – come nel caso di queste foto e di molti gialli – ma rassicurante. E, se non si può fare in questa caotica realtà di gente imprigionata per sbaglio e contadini afghani che continuano a coltivare oppio, lo si può sempre fare nel tempo libero leggendo un libro.
Ho risolto il giallo dei romanzi gialli?
Non credo. Né quello di Dürrenmatt è stato un requiem per il romanzo giallo. Ma rileggerlo ora, dopo più di cinquant’anni, ci permette di osservare quanto poco certe cose siano cambiate: la complessità dei drammi umani e la semplicità con cui, a volte, viene esorcizzata.
Friedrich Dürrenmatt (5 gennaio 1921 – 14 dicembre 1990) scrittore, drammaturgo e pittore svizzero. E’ stato esponente del teatro epico le cui opere riflettevano le recenti esperienze della Seconda Guerra Mondiale. Autore attivo politicamente, raggiunge la fama ampiamente dovuta alle sue opere avanguardiste, i romanzi criminali profondamente filosofici, e spesso alla sua satira macabra.
Tag: Serena Bertogliatti
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