Lo ammetto. Quando, diversi mesi fa, le librerie si sono riempite del romanzo ‘La verità sul caso Harry Quebert’ di Joel Dicker pubblicato da Bompiani e pubblicizzato persino nei metrò come un libro mozzafiato da cui era impossibile staccarsi, ho avuto alcune perplessità. Diversi amici e colleghi me ne parlarono benissimo ma… in realtà non erano giallisti e il marchio editoriale non mi pareva specializzato. Perciò qualche legittima riserva l’avevo, e anche il sospetto che si trattasse di qualche polpettone pseudointellettuale appena tinto di giallo. Il prezzo poi non era trai più invitanti (benché a dire il vero si tratti di 700 pagine di romanzo). Però lui restava sempre lì, a occhieggiare nelle librerie come a sfidarmi. Sono passati diversi mesi e l’ho trovato in una edizione praticamente identica all’originale in un club del libro a un prezzo più che conveniente. E allora, ho detto, accettiamo la sfida. E qui devo ammettere di dovermi ricredere su tutto. ‘La verità sul caso Harry Quebert’ non solo è un ‘page-turner’ che mi sono divorato in meno di una settimana, ma riesce nell’intento che sfugge alla maggior parte dei romanzi di questi tempi. Essere un thriller impeccabile con una continua evoluzione dei fatti sino a una conclusione inaspettata e al tempo stesso essere un grande romanzo che ci parla anche di altro. Nella fattispecie di argomenti a me cari. La scrittura, l’essenza di ciò che significa essere uomini e romanzieri, la boxe, l’amicizia, l’amore, la vita insomma senza che tutto questo appesantisca la vicenda con divagazioni inutilmente intellettualoidi.
Il fil rouge della vicenda è tutto sommato semplice e non nuovissimo, ma, come spesso dicevamo, non è il cosa ma il come si racconta una vicenda che fa la differenza. Tutto ruota intorno all’omicidio di una quindicenne, Nola, assassinata nel 1975 in un paesino della costa orientale americana, non lontanissimo da New York. Il corpo, ritrovato casualmente solo nel 2008, rivela però una serie di sconcertanti rivelazioni. Accanto al cadavere in una busta c’è l’originale di un manoscritto di un celebre scrittore, Harry Quebert, proprietario della tenuta. Persino la dedica affettuosa alla ragazza sembra una prova contro l’uomo che ormai ultrasessantenne viene incriminato. Non solo è accusato di aver ucciso la ragazza, ma appare evidente che con lei aveva una relazione chiaramente proibita considerata la differenza d’età, e a quel punto tocca a Marcus Goldman, giovane scrittore di talento in crisi di fronte alla consegna del secondo libro, allievo di Harry, amico, compagno di allenamenti pugilistici universitari che, più dell’agone sono parafrasi della vita, battersi per scagionare l’amico e mentore. E al tempo stesso scrivere quel libro che l’editore lo pressa per consegnare sfuggendo alla tentazione di trasformarlo in una storia torbida di facile vendibilità ma avvilente sotto il profilo umano. Da qui emergono, con un abile incastro di sovrapposizioni temporali condotte però in maniera chiara e mai confusa, i segreti della cittadina di Aurora. Insomma una sorta di ‘Twin Peaks’ che incontra ‘Peyton Place’. Ma tutto è veramente congeniato al millimetro, ogni capitolo (che segue un’inversa numerazioni di regole sulla scrittura che il professor Harry ha lasciato al giovane studente Marcus) introduce colpi di scena, capovolgimenti di fronte, nuove rivelazioni che portano il mistero con intelligenza sino all’ultima pagina, parallelamente la vicenda umana dei personaggi primi tra tutti Marcus e Harry, sempre in bilico tra genio e velleità. Scrivere, come boxare, richiede sincerità, passione, capacità di superare quell’istintiva tentazione di mistificare se stessi che, come accade al giovane Marcus, spingono a diffondere di sé l’immagine di ‘Formidabile’ vaso di ferro tra vasi di coccio. Come la boxe occorre sapersi mettere in gioco davvero, magari perdere. Una lettura consigliata a chi ama i gialli, ma anche semplicemente i romanzi di formazione, le storie che parlano di umanità e quelle che a dispetto di ogni moda editoriale, schivano la tendenza del momento. Perché anche questa è una delle trappole dell’editoria. È anche curioso che una storia che ha vaghissime ma innegabili echi fitzgeraldiane e, alla fine racconti ‘il grande romanzo americano’, sia narrata da uno scrittore svizzero e venga dalla Francia. Ma questo è solo uno dei tanti tasselli che rendono così avvincente la lettura.
:: La verità sul caso Harry Quebert, Joel Dicker, (Bompiani, 2013) a cura di Stefano Di Marino
Joël Dicker è nato a Ginevra nel 1985. La verità sul caso Harry Quebert è il suo secondo romanzo. Il primo, Les derniers jours de nos pères, ha ricevuto il Prix des écrivains genevois nel 2010. La verità sul caso Harry Quebert ha ottenuto il Grand Prix du roman de l’Académie Française 2012 e il Prix Goncourt des lycéens 2012, ed è in corso di traduzione in oltre 25 paesi.
29 gennaio 2014 alle 14:24 |
Concordo. La storia è avvincente e ti tiene incollato alle pagine, fino all’ultima riga. Una piccola critica: alcuni personaggi hanno caratteri inverosimili (es. la sig.ra Goldman, divertente ma… stile soap opera).
19 febbraio 2014 alle 18:18 |
Dopo il parere di Stefano Di Marino non ho avuto più remore a leggerlo. E adesso sono qui a consigliarlo a tutti, è veramente spettacolare e si divora in un attimo. Soprattutto centra l’obiettivo, come l’autore stesso dice nelle ultime pagine, di lasciare un ricordo forte nei lettori. E adesso sono qui anch’io ad aspettare Nola… e senz’altro, almeno una volta guardando a dei gabbiani, penserò ai personaggi del libro…