“Ti sei mai chiesto perché ha smesso di chiamarci mamma e papà? Ci sta giudicando, inizia a capire e ad esprimere una rabbia che non deve avere semplicemente perché la colpa dei padri non può ricadere sui figli. Il tempo che resta dobbiamo volgerlo al senso e restituirgli quella pace e quell’equilibrio di cui ha bisogno per crescere forte e che fino ad oggi la nostra presunzione gli ha negato”.
Un marito e un padre ripiegato su se stesso, ostile alla vita e alla bellezza di un figlio, rintanato in un dolore fisico e psicologico che lo annienta e da cui non riesce a liberarsi. Una moglie ed una madre rimasta sola a raccogliere i cocci di una vita alla deriva e a salvare le apparenze di una famiglia che non esiste più. Sono loro i protagonisti dell’ultimo commovente libro della scrittrice ferrarese Francesca Boari.
Al disprezzo per l’uomo un tempo amato, si contrappone l’amore incondizionato della donna per il figlio, un bambino già grande nella sua visione del mondo, già consapevole dello sfacelo che sta travolgendo i suoi genitori. Una sofferenza da cui neppure la madre riesce a salvarlo: due occhi attenti e giudicanti a cui nessun genitore potrebbe sottrarsi.
“Mi rendo conto che devo inventare, inscenare, tirare la mia pelle rugosa e rattrappita, asciugare le lacrime, guardare il sole di questa giornata e assorbire l’energia che mi serve per arrivare a sera”.
La malattia diventa la causa e il simbolo del disfacimento di una coppia incapace di affrontarla e di combatterla. Così l’uomo descritto in queste pagine appare come l’artefice della propria distruzione, nonostante la forza della donna che lo affianca e l’affetto del proprio bambino che non vuole arrendersi al pensiero di perderlo.
Un padre senza coraggio e un marito senza prospettive: è quello che ci descrive, in prima persona, la protagonista di questa pagine drammatiche. Una confessione a muso duro che non lascia spiragli all’amore, ma tradisce una necessaria rassegnazione alla fine dell’uomo, un tempo amato, quale unica possibilità di salvezza per ciò che rimane della famiglia.
“Piango, urlo, ti detesto. Non so chi insultare, non so dove contenere questo orrore che mi invade senza difese sufficienti, non so cosa farmene di tutti questi oggetti che mi circondano, che non ho mai chiesto, che non mi hai lasciato nemmeno il tempo di desiderare. Li prenderei e li lancerei lontano. Vorrei picchiarti, insultarti, vorrei non averti mai conosciuto. Vorrei smettere di soffrire. Vorrei fare l’amore e venirtelo a raccontare. […] Vorrei l’abbraccio della gioia. Non lo ricordo più”.
L’autrice ci regala un ritratto impietoso e sofferto della coppia: ancora una volta è la donna a doversi fare carico delle conseguenze dell’amore. Di contro un compagno e un padre inadeguato al proprio ruolo: l’ombra di se stesso e di ciò che è stato. A colmare il vuoto lasciato dal marito, subentra il legame esclusivo con il bambino tanto desiderato e ora vittima egli stesso della pericolosa ingenuità dei genitori. Come accade spesso nella coppia in crisi, i figli diventano capri espiatori, parafulmini inconsapevoli delle frustrazioni degli adulti.
La scrittrice ferrarese è molto brava a dare voce alla delusione della protagonista che, più giovane, aveva osato sognare una vita felice al fianco dell’uomo scelto come marito e padre dei propri figli. All’illusione segue il tempo della consapevolezza e dell’amarezza, scandito da giorni tutti uguali in cui si compie, inesorabile, il loro destino. La scrittura raggiunge momenti di grande liricità, dove la protagonista rivolge il proprio sguardo e le parole sul figlio: “Vorrei chiederti perdono per quello che non ho avuto la forza di risparmiarti. Vorrei giurarti che d’ora in poi i sassi li pesteremo noi e non ci cadranno più in testa”.
Francesca Boari, nasce e vive a Ferrara. Su estense.com, quotidiano d’informazione ferrarese, tiene un blog molto seguito, dal titolo Diventa quello che sei. Già autrice di Il prezzo del riscatto (2008), Aldro (2009).
22 ottobre 2013 alle 12:46 |
c’è cattiveria, delusione, rabbia non certo amore, nè verso un uomo, nè verso un compagno, un amico;
totalemente assente la consapevolezza di una malattia o l’amore necessario per affrontare insieme le varie sfide, e tanto meno verso un figlio
…spero sia una storia inventata, che non esista alcun bambino, che un giorno da adulto possa leggere tali pagine. Pensare di dover ricostruire attraverso delle fredde pagine la propria esistenza di bambino e non avere un padre o una madre a cui chiedere conferme, per ricomporre la propria esistenza, esistenza di essere umano deglno ed affamato dell’amore materno e paterno.
Nel libro si percepisce la certezza di un NON-amore paterno, qualora tale storia fosse vera si avrebbe altrettanta certezza dell’egoismo ed egocentrismo materno, e del suo NON -amore di madre, in primis, e di donna.
è la disgregazione dell’essere umano a cui non viene data possibilità d’appello, che le pagine inchiodano ad una condanna, il cui giudice nel libro è solo la donna. Resta da chiedersi fino a che punto proprio la donna sia causa, complice o vittima della disgregazione di un uomo, forse fragile.
Nella vita reale, qualora fosse il racconto di una storia vera, nel quale i personaggi della storia fossero esseri umani di quella piccola città in cui vive l’autrice e potessero riconoscere professioni, abitudini, nomi e persino cognomi, beh…allora sarebbe un atto di crudeltà verso un bambino piccolo.
fino a che punto la scrittura può, in nome dell’arte e del più alto concetto di letteratura, essere così strumentata?
qualora fosse una storia inventata, è un bellissimo libro, con pagine di alto lirismo, che raccontano la povertà umana… della donna e forse solo dopo quella dell’uomo.
2 dicembre 2014 alle 14:16 |
Mi fa abbastanza senso rispondere a qualcuno che sceglie di chiamarsi “birbona”….Ci provo! Ogni sua osservazione ha una risposta nelle pagine del libro che lei definisce bellissimo solo se inventato….E’ un romanzo e quindi certo che è inventato! La realtà a cui si ispira è molto, molto peggiore da quella che narra questa donna cattiva e complice e causa….Perciò il bambino è salvo e anche l’uomo, se ha letto con attenzione il finale…Solo della vita della “cattiva”, vita emotiva intendo….non si saprà mai nulla!
Birbona….o come vuole chiamarsi, sappia che ogni romanzo parte necessariamente dal reale e lo sublima! Anche il capitolo dei Promessi sposi sulla monaca di Monza è ispirato ad un fatto di cronaca e tutte le fiabe che lei racconta ai suoi meravigliosi e sani bambini, se ne ha, si ispirano ad atroci fatti reali!