:: Un’intervista con Giuseppe Merico a cura di Giulietta Iannone

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Ciao Giuseppe e bentornato su Liberi di scrivere. Pugliese, classe 1974, scrittore e curatore della rivista Argo. Mancavi sul nostro blog dal 2009, data della nostra ultima intervista. Stilaci un bilancio. Cosa è cambiato da allora? Come si è evoluto il tuo stile di scrittura? Quali sono le conquiste più significative di questi anni?

Ciao e grazie per l’ospitalità. Ho iniziato a scrivere nel 2007 e dopo un approccio divertente e nemmeno tanto impegnativo che ha portato alla luce la raccolta di racconti Dita amputate con fedi nuziali (Giraldi), ho scritto il romanzo Io non sono esterno (Castelvecchi, 2011), durante la stesura di quest’ultimo non mi sono chiesto nulla, ho tirato dritto come un fuso, era ed è una storia molto sentita, scritta di getto in una manciata di mesi e presa in nemmeno dieci giorni dalla casa editrice romana, quest’anno è stato pubblicato Il guardiano dei morti (Perdisa Pop). Questa è una breve illustrazione del mio lavoro che chiarisce un po’ le idee innanzitutto a me in modo da rispondere alla tua domanda. Bilanci, non credo di volerne fare, nel senso che al di là dei lettori conquistati credo che la mia scrittura serva innanzitutto a me per sciogliere dei nodi che mi porto dentro, quindi non è il caso di usare strumenti di peso, al posto di questi preferisco le lenti di ingrandimento, diciamo che ho adottato una lente sempre più precisa che mi ha permesso di vedere meglio e di conoscere ciò che mi muove nelle relazioni e nel comportamento. Per quel che riguarda lo stile invece credo di esser passato da una forma “ingenua”, passami il termine, di narrazione, quella di Dita amputate con fedi nuziali a una forma più decisa, ben visibile in Io non sono esterno, dove le frasi sono brevi e anche i periodi lo sono, il tutto è stato funzionale alla durezza della storia e ancora a un’altra forma leggermente più complessa  dove alterno periodi di ampio respiro a tempi concitati soprattutto nelle scene pulp del Guardiano dei morti.

Sei nato a San Pietro Vernotico in provincia di Brindisi. Ci hai vissuto? Che ricordi hai dei luoghi della tua infanzia?

Il mio paese non è solo il luogo dell’infanzia ma anche il posto dove trascorro quasi tutte le estati e ci torno spesso anche durante l’inverno, una parte della mia famiglia d’origine è ancora lì, dunque non rappresenta un ricordo ma una cosa viva che vedo mutare negli anni, è il posto delle radici ed è il posto che amo di più, nonostante le sue brutture ben identificabili nel Guardiano dei morti. I luoghi della mia giovinezza sono strade piene di polvere e vento o con l’asfalto che si scioglie sotto un sole fortissimo, pomeriggi sospesi a dormire anche quando non ne avevo voglia, spremute d’arancia alle sei del pomeriggio, odore di miscela del Mini Chic di mio padre, panni stesi su terrazze piatte, campi incolti e cani randagi, lo schianto del pallone Tango contro i garages usati come porte durante le partite di pallone, pistole o proiettili trovati per caso durante i giochi nei pressi della ferrovia e ancora chiodi messi sui binari ad aspettare che passassero i treni e ne ricavassimo poi delle piccole lance, quegli stessi treni sui quali ho viaggiato centinaia di volte e che mi hanno portato via dal mio sud per una scelta radicata fin da subito nella mia testa e poi quel mare e quel cielo che riconosco come miei. Quindi se dico di amare tanto la mia terra, perché ho deciso di lasciarla? Mi chiedo e credo che questa domanda nasca spontaneamente a chi legge quest’intervista. Una specie di disagio, come se sapessi che per realizzarmi in qualche modo sarei dovuto andar via, un posto più grande dove poter scomparire e riaffiorare a piacimento, la città dunque, Bologna, il posto in cui vivo da più di quindici anni.

Se ti va mi piacerebbe parlare con te del tuo ultimo romanzo appena edito da Perdisa, Il guardiano dei morti. Inizierei col chiederti come è nato. Quale è stato il punto di partenza del tuo processo creativo?

Il Guardiano è nato subito dopo aver saputo che Castelvecchi mi avrebbe pubblicato Io non sono esterno. Covavo dentro ancora molta rabbia e amarezza per come la vita finiva, uscivo da una situazione normalissima eppure drammatica, ovvero la malattia di mio padre e la sua conseguente morte. Decisi quindi di afferrare questa spinta intessuta di disagio e angoscia e mi chiesi come buttare tutto fuori. C’era un modo, violentare la morte, ucciderla. Così è nato il personaggio di Mimino che rappresenta una parte nera di me e del mio vissuto. Era lui che si sarebbe ribellato alla morte, che l’avrebbe sfidata, che si sarebbe ammalato per colpa di lei, che avrebbe giocato con lei  la sua partita a scacchi nel mio personalissimo e non tanto più privato Settimo Sigillo.

Quanto tempo hai impiegato per creare e ideare la trama, trasferirla sua carta, limare i dialoghi, correggere le imperfezioni? E’ stato nelle mani  di un editor?

Il romanzo pur essendo corposo, 380 pagine, è filato via bene, sapevo cosa stavo scrivendo e non ho tentennato mai, nel giro di quattro o cinque mesi l’ho terminato e sì, alla fine, prima della pubblicazione come tutti i libri è stato nelle mani del mio editor che si è limitato ad aggiungere qualche virgola e non perché non sappia fare il suo lavoro, anzi, ma proprio perché andava già bene così. Devo dire che in entrambi i romanzi, sia la Castelvecchi che la Perdisa Pop non hanno ritoccato il mio lavoro, né mi hanno chiesto di farlo.

Il guardiano dei morti ha per protagonista Mimino, Mimì, un giovane che lavora in un cimitero. Spoglia i cadaveri ed è l’ultimo a vederli prima che la bara sia chiusa. Vive ancora con la madre e il padre è appena morto lasciandolo ad affrontare questa assenza, questa privazione affettiva, che lui somatizza compiendo gesti estremi e ripugnanti. I suoi comportamenti sono una forma di ribellione contro la morte? Quale è l’interpretazione più autentica di questi atti?

Credo di averti risposto prima. Assolutamente sì, una forma di ribellione.

Mimino cerca nella famiglia e negli affetti l’unica via di salvezza. E’ dotato di grande umanità, è un uomo fondamentalmente buono anche se danneggiato. Ama Carmela, che non giudica e rispetta, vuole bene a Mirko non ostante sospetti (e poi ne ha la conferma dal prete) che abbia compiuto una cosa terribile, cura e accudisce la madre malata. La sua idea di famiglia non è proprio convenzionale, comunque. In che misura questa necessità, questa fame di sentimenti caratterizza il personaggio?

Direi che ne è intriso, Mimino è corda vibrante, tutti i suoi movimenti sono dettati da una grande emotività e fragilità e fame di affetto, è un perdente per nascita ed educazione ma cerca in tutti i modi di ribellarsi a questa sua condizione. Cerca il contatto con la madre, lo ha cercato con il padre e la negazione di questo senso di unione, proprio fisica col genitore ha creato in lui un vuoto, un pozzo dal quale a fatica cerca di emergere, lotta in tutti i modi per far capire alla madre che lui ce la può fare, è in grado, ha la capacità di dar vita a qualcosa di buono e vuole trasmettere questo messaggio anche al padre, figura dalla quale riesce a staccarsi con fatica tanto che in una parte del romanzo sente la voce del genitore che gli parla nella testa dal mondo dei morti, da qui la sua idea di costruzione di un tessuto familiare che lo liberi da quello malato nel quale è cresciuto e dal quale vuole scappare.

Carmela, la donna amata da Mimino, è una creatura ferita e vittima di abusi nell’infanzia; fa la prostituta ma in un certo senso ricorda quei personaggi felliniani, sognanti, ingenui e inconsapevolmente diventa lo strumento con cui Salvatore, un mafioso del luogo vuole dare una lezione a Mimino, per uno sgarbo, per una ragione non chiaramente identificabile. Parlami del personaggio di Carmela, delle sue luci, delle sue ombre.

Ci tengo a precisare che il signor Salvatore è innamorato di Carmela, per quanto il suo amore sia più un insieme di movimenti che lo portano a non renderle la vita facile, soprattutto dettati da una forma di brama, di sete di possesso, è un uomo abituato a prendersi ciò che vuole, non parlerei di ragione non chiaramente identificabile come suggerisci tu. Di lei posso dire che è una donna sostanzialmente forte e bella e che quando cede chiede aiuto a Mimino, riconosce in lui un’onestà che non riesce a trovare e che forse nemmeno cerca negli altri uomini. Serba dentro di sé il desiderio di trovare una via d’uscita dalla vita che conduce e Mimino questo sembra saperlo. Nel romanzo una scena chiave che indica la completa realizzazione di Carmela come donna è quando viene accettata dalla madre di Mimino che dapprima la rifiuta, ha la benedizione di questa donna e l’amore di Mimino e del piccolo Mirko.

Ambienti la storia in un piccolo paesino del Salento. Un luogo arretrato e degradato, in cui il tempo è cadenzato dalla festa del patrono, dal mercato coperto, dai morti per mafia che richiamano due poliziotti da Roma. Uno di essi ti permette di avere uno sguardo esterno. Cosa vede?

Il poliziotto che viene giù da Roma assieme al suo collega che ho chiamato “il malato” e che ho voluto fosse un po’ una spalla tragicomica del primo, mi ha permesso di utilizzare la terza persona che si addice, come suggerisci tu a uno sguardo un po’ più distaccato negli eventi laddove lo sguardo di Mimino è molto più addentro, con lui uso un Io narrante. Mimino e il poliziotto si assomigliano molto, entrambi inquieti e tutt’e due solcati da una sorta di malinconia che è proprio del Salento che ho voluto descrivere. Il poliziotto è anche il tentativo di descrivere l’avvicinamento a un luogo, il Salento appunto che a primo impatto trova ostile e che non capisce ma che impara ad amare e sono proprio i fatti che gli accadono che lo portano a questa scoperta o epifania.

Ritornando all’ambientazione: come hai deciso di ricrearla? Quali sono i particolari ai quali hai voluto dare maggiormente risalto?

Il romanzo è completamente intriso di sud, mentirei se dicessi che ho cercato di focalizzare l’attenzione su un particolare piuttosto che un altro. Quando ho iniziato il Guardiano venivo fuori da un’esperienza narrativa estremamente claustrofobica, il precedente romanzo, Io non sono esterno, nel quale togliendo le descrizioni della spiaggia nella parte finale e del posto desolato nei pressi della ferrovia dove viveva la famiglia del bambino protagonista della storia, mi riportava sempre in un luogo angusto, chiuso e dove c’era poca luce o nessuna luce, la cantina dove era tenuto prigioniero dal padre, avevo quindi bisogno di spazio, molta aria, libertà di descrizione di paesaggi che in qualche modo ho voluto riportare nelle pagine del Guardiano dei morti.

E’ un romanzo pulp, con venature horror, caratterizzato da una scrittura molto emozionale. Quali scrittori pensi abbiano influenzato il tuo stile?

Ti rispondo dicendo che non riesco a discernere, è un po’ come chiedere, quali alimenti tra quelli di cui ti sei nutrito hanno fatto di te quello che sei come persona. Ogni libro che ho letto ha lasciato un po’ di sé nel mio modo di scrivere, ci sono poi elementi che appaiono più evidenti e altri che rimangono “covert”. Da Bret Easton Ellis a Jonathan Coe a Cormac McCarthy a Raymond Carver e  non solo, una fonte di suggestione me la forniscono la musica e il cinema.

Alcune scene sono estreme, veramente disturbanti. Non hai mai avuto il dubbio di aver travalicato qualche limite, di aver infranto qualche tabù?

Guarda, non credo si possa come dici tu “travalicare limiti” nella fiction, ovvero nella narrazione tutto è possibile, non mi sono posto quasi nessun problema nello scrivere le scene di necrofagia o violazione dei corpi dei morti, tranne una che non dico e che ho tolto dalla versione che è stata pubblicata, non tanto perché ho immaginato o mi sono posto il problema di come avrebbero potuto reagire i lettori o la critica, ma proprio perché non mi “suonava” più, era una scena che nella prima stesura reggeva e nelle successive letture non più. Ne ho parlato anche con l’editor riguardo al possibile taglio di alcune scene cruente e entrambi siamo stati d’accordo che il romanzo andava bene così.

Ogni lettore leggendo un libro dà una propria personale interpretazione del narrato. Avendo l’occasione di parlare con lo scrittore del romanzo mi piacerebbe scoprire se le mie conclusioni sono corrette. E’ vero che, non ostante l’apparente sconfitta, Mimino incarna una speranza, una luce, un atto di amore per la vita?

Direi di sì, la tua lettura del personaggio finora è stata la più centrata. Invito quindi i lettori a leggere la recensione apparsa su Liberi di scrivere.

Quale è il personaggio che ti ha creato maggiori problemi nel delinearlo?

Forse Aldo, il poliziotto che entra nel romanzo nella parte finale o superata la metà della storia, dopo la morte del “malato”. Volevo intervenire con un personaggio che sostituisse la sua dipartita così ho pensato a una possibile altra spalla del poliziotto, Aldo rimane un personaggio non ben definito, dapprima sembra un tipo spavaldo che ci sa fare con le donne, si diverte e ci tiene a farlo sapere in giro, un po’ leggero quindi, poi però in lui si scopre un’anima più profonda ed estremamente altruista, infatti quando non lavora fa volontariato in una casa di riposo. Probabilmente con lui ho voluto suggerire al lettore l’ambivalenza caratteriale delle persone, cosa che faccio anche con Mimino, credo si possa essere in un modo ma contemporaneamente in molti altri e vivere in un mondo ma nello stesso tempo in molti altri. Tramite Aldo, il poliziotto entrerà in contatto con gli anziani della casa di riposo e troverà uno scopo inaspettato e che lo spingerà ad andare avanti nella sua permanenza in questo sud profondo.

Passi da un punto di vista esterno a quello interno, alternandoli in maniera funzionale e naturale. Parlaci di questa scelta.

Sì, credo di averti risposto prima quando ti ho parlato del poliziotto e del ruolo che gioca nella struttura del romanzo, attraverso lui e aggiungo anche con l’intervento di Carmela ho potuto diluire la storia, allungarla, volevo allontanarmi dalla prima persona molto presente nel precedente romanzo, dove la terza è stata funzionale soltanto a raccontare i ricordi del ragazzino quando viveva nel mondo di sopra, e volevo spingermi a scrivere molte più pagine delle 120 di Io non sono esterno. Nel Guardiano l’Io narrante di Mimino resta il punto di vista più vicino alla parte biografica e si presta a una lettura psicologica laddove il punto di vista esterno mi è servito per creare una sovrastruttura nella quale mescolo fiction e descrizione del paesaggio.

Grazie della disponibilità. Nel salutarti mi piacerebbe sapere se stai lavorando ad un nuovo romanzo e se puoi anticiparci qualcosa?     

Ho da poco iniziato a scrivere una nuova storia, in questi mesi ne ho provate almeno tre, ma il risultato non mi sembrava soddisfacente non tanto per la qualità della scrittura, rileggendo questi tentativi di storia lunga ho trovato parti buone in tutto quello che ho scritto, le storie tenevano e mi dispiace aver dovuto abbandonare il materiale buttato giù, ma mi son chiesto se ero veramente onesto, se quello a cui stavo lavorando era veramente ciò che volevo dire o che mi portavo dentro o mi tormentava. Ho questa spinta a partire da una base profonda, inconscia quasi, solitamente sono nodi irrisolti nella mia personalità e li uso per dare avvio alla narrazione e così è stato in questo nuovo tentativo di scrittura che ha già un titolo e ci tengo a precisare, provvisorio, che è Maternalia. A grandi linee e per quanto ne posso capire fin dove sono arrivato, tratta della parte nera, oscura del Femminile o delle interpretazioni che può fornire il protagonista, giuste o sbagliate non lo sappiamo, una sorta di nigredo che è costretto ad attraversare per realizzarsi come uomo nella sua interezza. Credo di aver in parte preso l’ispirazione dopo aver letto Madreferro, il bel romanzo che la narratrice e poetessa Laura Liberale ha pubblicato con Perdisa Pop nel 2012, poco prima dell’uscita del Guardiano dei Morti.

Grazie a te per queste domande attente che mi hanno permesso di confrontarmi ancora una volta con questa storia.

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