:: Recensione di Morte in Aprile di José Luis Correa a cura di Riccardo Falcetta

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   morI cliché tanto deprecati dai critici sono in realtà un bene ricercato e inseguito da tanti fruitori di fiction per via della loro funzione rassicurante, ordinatrice. Buona parte del pubblico quando sceglie l’intrattenimento preferisce “andare sul sicuro” rivolgendo la propria attenzione verso le storie che paiono affini alle esperienze già acquisite, sperando di trovarvi anche del nuovo, vale a dire nuove risposte ai rompicapi di sempre. Se ben dosati allora, non necessariamente i cliché sono inutili o dannosi.
   In Muerte en abril l’autore, lo spagnolo José Luis Correa, attinge senza remore eppure in modo non banale agli stereotipi e ai tormentoni del giallo-noir, genere esso stesso ormai largamente “formalizzato” e abusato. Il suo detective privato è Ricardo Blanco di Las Palmas, Canarie, torbida e assolata provincia d’Europa, il caldo tropicale, la vita a rilento, le notti di festeggiamenti perenni che tacciono squallori tragici di solitudini e marginalità. Come Mario Bermudez, primo di tre uomini brutalizzati e abbandonati come bizzarri manichini nelle desolazioni dei propri alloggi, in lingerie femminile; e come l’umile studentessa «il cui nome era Raquel, o Sandra o Maria Luisa… Il suo nome era Lola» sospettata di quel primo omicidio, per cui Blanco s’impegna a indagare.
Detective Blanco, quaranta percento Spade/Marlowe, sessanta Pepe Carvalho (tutti citati, non a caso, in fase di promozione) è l’io-narrante romantico e un po’ scanzonato di una quotidianità operosa, fatta di personaggi che sono mix perfetti di banalità e unicità umane, persone vere, insomma. Come l’indolente commissario Alvarez (la moglie Susana «simile a quella del commissario Maigret: sembrava che Simenon avesse pensato a lei per tratteggiare il suo personaggio.[…] Lei sì che sa capire suo marito») e il saggio Colacho Arteaga che puntualmente trasforma le visite di suo nipote in divertenti e istruttive dispute generazionali, e poi le “vecchie fiamme” non estinte: Malena, «Malena triste come l’armonica […] canta il tango con voce d’ombra». Nostalgico d’amore, buona musica e cinema d’annata, il nostro è altresì un segugio ostinato e un fiuto finissimo non tarda a metterlo sulla pista giusta. L’atmosfera da giallo classico inizialmente prevale ma presto cambia, vira al nero: le nebbie si diradano, gli odori si intensificano mentre, complice la stoltezza di giornalisti e politici in cerca di visibilità, le informazioni fuggono, la posta in gioco si alza, e il gioco del cacciatore e della preda rischia a ogni passo di rovesciarsi, fino a al teso epilogo hard-boiled in cui il segugio Blanco dovrà mostrare i denti. Queste le premesse a un narrazione che per dovizia di convenzioni (codici in bella mostra sulla scena del crimine, sequenzialità rituale dei delitti, testi antichi, donne e gatte dal fascino obliquo e incontri ravvicinati con l’assassino) saprebbe a ogni riga di già letto e straletto.Dunque, un compito di genere ben eseguito? Sì, ma non solo questo.
   Correa ha dalla sua la capacità di rendere preziosa la materia del narrare.Ha una voce che senti quandoda sapiente affabulatore infarcisce la vicenda di digressioni meste e di dialoghi che sono soliloqui, il tutto intriso di quella musicalità che è tipica della lingua e di tanta buona letteratura ispanica. Blanco racconta e descrive citando il jazz, i personaggi e le pellicole del cinema classico («arrivai a dire a Charlie Parker giocatore che per anni avevo creduto di essere la metempsicosi di Charlie Parker musicista, perchè ero nato nel cinquantacinque, due giorni dopo la sua morte […] Alla fine ricordammo suo padre e arrivammo a brindare a lui cinque volte […] pura scena bogartiana…»). Attraverso l’autore (docente di cinema all’Univerisità di Las Palmas), il personaggio è testimone diuno spirito e di tutto un immaginario d’antan  che ti accarezza, ti fa sorridere e sognare, e intanto ti racconta una modernità cupa e svilita, «che ha sempre meno tempo per gli altri», che «è triste proprio come sembra ». Una realtà dove «non c’è più tempo per le conquiste» e dove ormai si ricerca «amore alla carta», passioni da consumare fugacemente, senza impegno, con gli incontri su Internet, le chat e le pagine di annunci sui giornali. Sono proprio quelle solitudini sciagurate, quindi, il discorso che questo romanzo reca neanche tanto in filigrana, l’ombra di una contemporaneità che tutto deprezza, confonde e annichilisce e si allunga persino in quegli interstizi di mondo che ancora ci appaiono incontaminati e dove invece la purezza resta come semplice residuo iconico, il mito scomparso e favoleggiato dalle guide turistiche. La purezza e la bellezza, sembra dirci Correa, sono ormai dote esclusiva della buona arte e della sua poesia. Lo sa bene Ricardo Blanco che a un certo punto si rivolge a un sempre più perplesso Colacho Arteaga, dicendogli «non tutti entrano nel giro, guarda me, perché credi che collezioni dischi? È un buon surrogato delle linee erotiche e credo, più economico».
   A che serve urlare contro ai cliché? È un noir oltre il noir questo “Morte in Aprile” (secondo della serie, dopo il fortunato e premiato “Quindici giorni di Novembre”), un bel romanzo, che grazie a una scrittura prodiga di suggestioni latine e non scevra di tensione etica, merita anche l’attenzione dei non avvezzi al genere. E come sempre un plauso ai tipi della Del Vecchio per la scelta e la consueta cura dell’edizione.

Riccardo Falcetta

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Una Risposta to “:: Recensione di Morte in Aprile di José Luis Correa a cura di Riccardo Falcetta”

  1. Avatar di Sconosciuto maria34 Says:

    Buona Domenica a tutti  Maria

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