:: Intervista con Adriano Barone a cura di Riccardo Falcetta

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il_ghigno_dellTendenze recenti della narrativa fantastica italiana – Intro
 
Prima di entrare nel cuore del discorso, urge qualche considerazione preliminare.
 
Prima considerazione: il fantastico letterario è, per propria essenza originaria, il luogo primo e privilegiato della creazione. Lo è dai tempi dei miti: Genesi, Teogonia, Edda cos’erano se non storie inventate per raccontare (spiegare/ordinare) in resoconti simbolici l’origine delle cose? I racconti mitici sono da sempre principio e canone di ogni narrazione, fantastica e non. Va da sé allora che il fantastico, prima di ogni altra forma narrativa, è la ‘letteratura di idee’ per eccellenza. Non ci ingannino, nell’era dell’arte al consumo, desacralizzata e riproducibile, i meccanismi seriali, gli universi condivisi, le migliaia di storie nate da dispositivi paraletterari come i giochi di ruolo o come epigone di modelli esemplari. Il fantastico è una letteratura che non può rinunciare alle radici della narrazione (essendo essa stessa il terreno in cui dette radici affondano), e quelle radici le ripercorre coi flussi di sensibilità storiche e artistiche sempre diverse, spesso del tutto nuove.
 
Seconda considerazione: il racconto fantastico, per tale sua costituzione, è probabilmente la modalità narrativa più potenzialmente autoreferenziale, vale a dire la più incline non solo a produrre miti, ma anchequellapiù orientata a riflettere il valore mitopoietico dei racconti.
 
Terza considerazione: coincidendo coi primordi della narrazione tout-court, e con l’esigenza di rendere comprensibile il caos della storia e del reale, il fantastico è il luogo della narrazione popolare. Cosa sono gli archetipi narrativi se non modelli d’esperienza umana stilizzati, resi universali per essere comprensibili alle masse? Non serve forzare il discorso per arrivare a considerare gli archetipi (l’eroe, la nemesi, l’Ombra, il Messaggero…) come miti pop ante-litteram, caratteri di riferimento per l’immaginario collettivo. Eterni, riproducibili all’infinito, e ogni volta ‘altri’. Ogni volta: ‘creazione’.
 
     I preamboli erano doverosi al fine d’introdurre un discorso su alcunenuove tendenze che si delineano tra i lavori recenti di giovani scrittori italiani. Essendo storicamente accertato il sospetto con cui il mainstream culturale guarda alle letterature che considera ‘di consumo’, era importante ricordare alcuni dei motivi per i quali non è strano ma persino naturale che certi fenomeni si realizzino nell’ambito di un produzione di massa, intrisa di caratteri di genere, come quella fantastica.
     Eccomi al dunque.
     Nella primavera del 2009 Marsilio pubblica “Pan”, un romanzo dello scrittore horror Francesco Dimitri. L’anno dopo l’autore replica con “Alice nel paese delle vaporità” e, qualche mese più tardi, la giovane e intraprendente editrice Asengard lancia “Il sentiero di legno e sangue” e “Il Ghigno di Arlecchino”  rispettivamente di Luca Tarenzi e Adriano Barone.
Urban fantasy, steam fantasy, new weird, le etichette con cui si tenta una ‘sistemazione’ di opere che alle definizioni sfuggono per una sorprendente originalità concettuale. Romanzi diversissimi che per scelte, modalità e procedure denotano una certa coincidenza di intenti.
     La coincidenza principale è che tutti i testi citati, sin dai titoli, fanno rilevare corrispondenze evidenti con classici della tradizione moderna occidentale: sono tutte reinterpretazioni, riletture libere di opere o figure immortali della letteratura fantastica. Un corpus di opere che documenta una profonda conoscenza dei miti, delle favole e degli archetipi di tempi e tradizioni diverse, riletti in modi eclettici, filtrati attraverso idee speculative (biologia, universi paralleli, campi morfici…), la passione per le arti visive (surrealismo, metafisica, astrattismo e biomeccanica), il cinema e fumetto più anarchici e radicali.
     Un approccio comune che denota una possibile evoluzione del fantastico, che su binari molteplici e paralleli, sembra viaggiare qui da noi verso una definiva maturità. La questione merita il tentativo di un dibattito.
     Per questo nostro viaggio prevediamo, tre tappe. Ogni tappa affronterà una discussione con uno degli autori sopra citati. Partiamo dall’ultimo e andiamo a ritroso. Partiamo subito, la nascita di un inquietante buffone ci porta nel vivo della prima discussione.
 
1-     Il Barone e “Il ghigno di Arlecchino”
 
Un Multiverso sconvolto. Devastato da una guerra tra semidei (allusivi i loro nomi: Odin, Apollo) detti Tracciatori, entità che viaggiano tra le realtà del Multiverso e ambiscono al controllo assoluto.
     Nel tracciato di Sophia, il Barone, sorta di Frankenstein con un indice di pazzia all’ennesimo livello, ha già tentato di viaggiare tra le realtà del Multiverso ma i tutori dell’Ordine lo hanno respinto. Nondimeno al Barone rimane ben poco di umano: con la follia di una scienza ormai non più distinguibile dalla magia, dà vita a organismi di improbabile mostruosità, come la cavia con cui potrà sperimentare il passaggio tra i Tracciati del Multiverso. Ma, ontologicamente superiore per potere e mostruosa intelligenza, l’umanoide sfugge al controllo del suo padre/padrone per intraprendere un viaggio tra gli universi, verso il compimento della sua essenza divina primordiale: il trionfo del Caos!
     Adriano Barone, conosciuto per i racconti di “Carni (E)strane(e)”(Epix Mondadori) e per graphic novel come “L’era dei titani”, straccia i decaloghi delle regole del fantastico e li ricompone in modi narrativamente estremi, terminali. “Il ghigno di Arlecchino” è un romanzo che reca il fascino incerto e assillante che ti prende quando sei al cospetto di qualcosa di totalmente nuovo e alieno. Un’opera viscerale, di geniale osticità, a un passo dalla totale autoreferenzialità – che in casi come questo può non essere affatto un limite. “Il ghigno di Arlecchino”  è un racconto allegorico sull’essenza caotica e sul potere della Creazione, quando nasce e si libera dalle redini del proprio demiurgo, per esistere da sé, per sondare possibilità e ricreare interi rivoli di immaginario.
     La prima domanda all’autore viene ovvia:
 
     Per delineare il tuo ‘demone del caos’ ti rifai alla figura di Arlecchino, personaggio tra i più noti della Commedia dell’Arte italiana che però vanta una lunga e curiosa tradizione: la sua origine è infernale. Lo hai riletto come un trickster, un’ombra, con riferimenti estetici a “The Killing Joke” di Alan Moore e alla cultura neogotica. Vuoi raccontarci queste scelte e il processo di nascita di un personaggio tanto composito?
 
     Mi piace l’idea dell’outsider che crea scompiglio in una comunità chiusa. In generale preferisco i rompipalle agli eroi. Il trickster è un casinista, a me piacciono le persone e i personaggi così. La mitologia comparata poi è da sempre uno dei miei interessi e mi intrigava l’idea di far ‘collassare’ in un personaggio solo tutte le idee sul trickster. Tutte queste identità avevano bisogno di un collante e, pensando al racconto “Pentiti Arlecchino, disse l’Uomo del Tic-Tac” (di Harlan Ellison, nda), dove appariva un Arlecchino portatore di disordine in una società iper-organizzata, ho immaginato che la maschera di Arlecchino fosse la più adatta allo scopo.
     Poi, dato che il mio immaginario è prevalentemente visivo, i personaggi che mi sono venuti in mente per primi sono stati il Gatto del Cheshire di Carroll e il Joker. Tuttavia, la filosofia del mio Arlecchino è diversa rispetto a quella del Joker in “The Killing Joke”: lì il Joker proclama che la risata sia la risposta all’assurdità dell’universo. Arlecchino compie una riflessione sul suo ruolo di ‘re dell’inferno’, poi va oltre: decide di non distruggere, ma di creare – in diversi miti il trickster è anche il creatore dell’universo. Creando, Arlecchino lotta contro l’entropia: ogni atto creativo è un atto di ribellione contro l’universo. E la risata e l’atto creativo sono fondanti nella mia vita: ovvio che volessi scriverne.
 
     Il tuo Arlecchino però non sembra una creazione positiva, ordinatrice, ma distruttrice e caotica. È l’halle konig originario, il re dell’inferno, il serpente cristiano, il Loki norreno. Tutto, dallo stile (a volte semplice e scarno, altre destrutturato, delirante) alle figure narrative (ripescate e reinventate in modo eccentrico), dalla coesistenza di bio-scienze e magia, fino al densomelting di influenze estetiche, ogni elemento sembra veicolare una visione orgiastica, instabile di un Multiverso che appare come un gigantesco verminaio. Fino alle ultime pagine quando il buffone dice alla sua creatura: “non mi interessa portare la morte, voglio solo Caos, ma il Caos come morte è il sogno di un bambino”. E verso la fine “…non c’è più bisogno di essere me ed essere voi, di stare in un luogo o in altro, di essere un corpo o tanti corpi, stare dentro o fuori, essere presente (…), possiamo essere l’una e l’altra cosa (…) l’uomo è l’animale che lega il tempo ma noi libereremo il tempo”. Le immagini successive sono quelle di una profonda catarsi che forse sbeffeggia e annulla quello che era il senso del racconto mitico, la sua funzione ordinatrice sulla realtà. Tutto il senso della Creazione e della libertà sembra generarsi dall’annientamento, dalla distruzione delle categorie preesistenti  – corporee, teologiche, cosmologiche, estetiche, ideologiche, linguistiche, temporali.
 
    Come ho già accennato, il finale di Arlecchino parla di creazione e non di distruzione. La distruzione, se c’è, è dell’ordine pre-esistente e da quella deve nascere qualcosa di nuovo.
     Arlecchino comprende che la distruzione fine a sé stessa aiuta l’entropia, che distruggendo non provoca caos, ma accelera soltanto la fine delle cose. In quel momento Arlecchino capisce che il caos della creazione è un modo molto più radicale di opporsi: è il momento dell’acquisizione di consapevolezza del trickster, come creatore. Il mio romanzo è il racconto di come la figura mitologica diventa tale.
    
     Nella tua raccolta precedente, rileggevi a modo tuo alcuni episodi del “Genesi”. Adesso quelle suggestioni ritornano e paiono il tentativo di fondare una sorta di personale cosmogonia, tanto delirante quanto coerente. Com’è nato questo interesse per i racconti della Bibbia e l’esigenza di rileggerne il senso, gli avvenimenti? Come definiresti le tue ‘riletture’? La citazione di Giorgio Manganelli,  maestro di reinterpretazioni eclettiche, sembra dare indizi sul valore iconoclastico che queste assumono nella tua narrazione: “Non c’è una leggenda extra canonica che parla di una gran risata di Adamo morente? Dio dovette rimanere profondamente sconcertato.”
 
     Parto dal fondo: la citazione di Manganelli ha una doppia funzione. Innanzitutto è contestuale rispetto al mio personaggio, buffone cosmico che deride ogni cosa, perfino Dio. Manganelli lo tiro in ballo perché certi critici utilizzano il suo “Il rumore sottile della prosa” come un manuale di scrittura e di vita, dimenticando che l’ironia era una delle doti principali di Manganelli, il quale non stava scrivendo un testo prescrittivo/normativo, ma descrittivo (e soggettivo). E visto che si tratta di critici e scrittori estremamente accademici, che il fantastico non se lo cagano nemmeno di striscio, mi faceva ridere l’idea che in un romanzo come il mio, che certa critica considera automaticamente ‘inferiore’, venisse citato uno dei testi sacri di riferimento della letteratura ‘alta’. Insomma, la mia è una presa in giro. In perfetta linea con lo spirito del romanzo e del protagonista, no?
     Il motivo per cui riscrivo la Bibbia è semplice: la Bibbia è il libro. Un’opera fondante culturalmente e narrativamente, al pari dell’Epopea di Gilgamesh, dell’Iliade e l’Odissea. Per rifondare un’idea del mondo e un’idea di narrativa è quindi il libro da riscrivere. Comunque, nel racconto in cui riscrivo la storia di Caino e Abele, cito testualmente alcuni brani della Bibbia. Quindi la mia non è sempre ‘riscrittura’, a volte mi limito a citare parti della Bibbia che non sono note, ma che sono parte integrante del testo accettato canonicamente dalla Chiesa. Parti solitamente molto, molto, molto crudeli…
 
      L’impressione è che il discorso sia lungi dall’essersi esaurito o forse, è volutamente annegato nell’oceano di simboli. Arlecchino si riconosce nel serpente, il Male biblico. Poi introduci un ‘melaserpente’, facendo coincidere il frutto del peccato originario con il male stesso. Arlecchino afferra il melaserpente e lo costringe a mordersi la coda, dando origine a una sorta all’Oruborus e il contatto con l’essere divide  l’androgino originario in due parti – presumibilmente l’uomo e la donna. Ti va di spiegarci un po’ meglio il senso di questa tua visione?
 
     Ah, questo è un trip visivo, prima di tutto: il serpente senza la mela non avrebbe potuto avere effetti sull’umanità, la mela, da sola, senza un ‘agente provocatore’ sarebbe rimasta lì fino a che non fosse caduta sulla testa di Newton (questo ragazzo è un piccolo genio del male! Ndr J). Chiaramente, i due elementi avevano ragione d’essere soltanto se combinati, io adoro il principio di sintesi, quindi perché non applicarlo anche ai miti? Un ‘melaserpente’ è più efficiente di un serpente che fa mangiare una mela.
     Il mito dell’androgino esiste in diverse mitologie (e in alchimia) come simbolo della coincidenza degli opposti, una sorta di ‘perfezione originaria’ che mi sembra un mito molto più interessante della cacciata dall’Eden. Che probabilmente doveva essere un posto noiosissimo.
 
     Circa mistura di scienza e magia che hai attuato nell’Arlecchino: per autori che hanno precorso strade simili, (pensiamo al Jack Vance de “La terra morente”) la scienza regrediva fino a coincidere con l’antica magia. Nel tuo romanzo complessi apparecchi tecnologici e scienza di confine coesistono con il mito e gli incantesimi. C’è un confine tra le due dimensioni?
 
     Masamune Shirow in “Appleseed” faceva dire a uno dei suoi personaggi: “Che differenza c’è tra scienza e magia?” La risposta era: “Nessuna. Dipende dall’utente.” Concordo.
 
     La Genesi non è l’unico riferimento ai miti antichi. I Tracciatori sono divinità come Apollo e Odin, rispettivamente del periodo Ellenico e della mitologia Norrena. Ah Puk, parto di Arlecchino, si riconosce come Hel, la divinità infera dell’Edda. Lo stesso Arlecchino  parla, ragiona e da un certo punto in poi agisce come una divinità: è contemporaneamente maschio e femmina, è in grado quindi di partorire; inoltre per lui le categorie temporali e spaziali non hanno molto senso. Tu che senso dai ai concetti di ‘mito’ e di ‘divino’?
 
     Guarda, il nome di Ah Puch è azteco. Le mitologie delle civiltà pre-colombiane mi hanno sempre affascinato, anche perché all’università ho studiato letteratura ispanoamericana. Solo che è un nome maschile, quindi ho ‘ricordato’ la natura femminile della figlia di Arlecchino con il nome Hel, tratto dalla mitologia nordica, abbastanza inequivocabile. I miti nordici sono molto suggestivi e sempre molto vivi per un nerd dei fumetti Marvel, e quelli ellenici, per un nerd che ha fatto studi classici, sono un riferimento altrettanto presente.
     Ho “scelto” coscientemente alcuni miti piuttosto che altri perché le vicende del trickster in quelle mitologie erano episodi di acquisizione di esperienza e consapevolezza che volevo vivesse anche il mio personaggio. Nel romanzo ci sono riferimenti anche ai miti Navajo, e in generale a quelli dei nativi americani. Solo che avevo una storia da raccontare e il mio libro non è un saggio di mitologia comparata sulla figura del trickster, quindi ho evitato di metterci tutto quello che trovavo sul trickster solo per il gusto di far vedere quanti libri avevo letto sull’argomento.
 
     Si parla dell’etichetta di new weird, cui afferirebbero sia il “Ghigno” sia “Il sentiero di legno e sangue” di Tarenzi. Lo scrittore inglese Jeff Vander Meer definisce il new weird come un tipo di racconto “ambientato in un ‘mondo secondario’ e caratterizzato dalla fusione di elementi fantasy, fantascientifici e, talvolta, horror”.  Ti faccio notare come questa etichetta sia davvero limitante per i vostri romanzi. A mio avviso si tratta di sottoetichette acquisite dall’ambito anglosassone che dividendo non aiutano a far rilevare i caratteri ricorrenti di queste opere.
 
Mah, tanto in libreria finiamo tutti sullo scaffale fantasy, al massimo su quello dell’horror che solitamente è a fianco (in effetti l’Arlecchino, assieme agli ultimi citati romanzi di Tarenzi e Dimitri, sono tutti quanti finiti nella sezione fantasy del ‘Premio Italia 2011’, ndr). In teoria certe etichette aiutano i lettori a capire cosa trovi dentro ai romanzi: spiegare che una storia è ambientata in una città contemporanea piuttosto che in un ipotetico medioevo o in passato alternativo da almeno un’idea minima dei contenuti di un romanzo. Non della sua qualità, certo.
 
     La prima tendenza comune è l’evidente attitudine alla reinterpretazione/commistione di caratteri e fabule preesistenti, pratica che esiste da sempre nella narrazione ma che qui diviene cifra stilistica consapevole, dichiarata e comune tra autori di uno stesso ambito letterario e della stessa generazione!
 
Affrontare la scrittura di un archetipo, rende inevitabile il fatto che la tua scrittura sia in realtà ‘riscrittura’. Non so dirti perché ci sia questo punto in comune con le opere di alcuni colleghi. Forse perché si è consapevoli che si sta in un certo senso fondando una ‘nuova’ tradizione italiana del fantastico, inscrivibile in un contesto ‘internazionale’, e non solo erede del fantastico nazionale, per cui esiste un bisogno di appoggiarsi ad archetipi molto forti. Forse.
 
     La seconda costante rintracciabile è il nutrirsi, da parte di queste opere, ossessivamente di arte tout court. L’Arlecchino contempla una quantità impressionante di riferimenti all’arte figurativa (surrealismo, metafisica, astrattismo, biomeccanica, fumetto), investendo non solo i fondali, ma intere scene e il senso della narrazione, conferendole un’eccezionale qualità simbolica e tentando una visione cosmica totalizzante.
 
     Questo è semplice: molti dei lettori di fantastico sono dei nerd. Questo è un aspetto che ogni critico che vorrà dare un’immagine precisa della nuova letteratura fantastica italiana dovrà tenere in considerazione. Certo, potranno essere trovati punti di continuità con il fantastico italiano precedente, da Buzzati a Calvino, ma la verità è che i nostri romanzi potranno essere capiti solo in un’ottica comparativista: non si potrà prescindere da Stephen King, da Clive Barker, da Neil Gaiman (faccio solo qualche nome), in generale dai grandi narratori anglosassoni e dalle letterature di cui ciascuno di noi è appassionato.
     Se si legge “Carni (e)strane(e)”, uno dei riferimenti sono “I racconti di pioggia e di luna” di Akinari Ueda, ma anche Angela Carter, Julio Cortàzar.  In “Arlecchino” è fondamentale l’influenza di William Burroughs. Quale italianista, mi chiedo, sarà mai in grado di parlare di competenza di libri che partono da letterature così diverse, sia diacronicamente che diatopicamente?
     Non si potrà prescindere, inoltre, dall’estetica dei cartoni animati giapponesi e delle serie TV americane.
 
     A proposito di Giappone: dalla visceralità delle immagini e della ‘scenografia’ generale del romanzo, cupissima, ho dedotto un amore per certo cinema estremo e underground giapponese. Osservando il tuo Arlecchino in azione, la violenza espressiva, i fluidi, le mutazioni, mi è venuto in mente un film come “Pinocchio 964”. Non mancano nemmeno i robot giapponesi in una zona tra le più oscure del tuo romanzo…
 
     I film orientali sono gli unici che guardo. Conosco Shinya Tsukamoto, adoro Takashi Miike (che non mi sento di definire ‘estremo’). In generale, come già detto, la mia immaginazione è ‘visiva’. Quindi: fumetti, telefilm, film, fotografia, arte, tutto entra nel calderone marcio del mio cervello ed è portato al punto di fusione. Le sperimentazioni linguistiche di Arlecchino hanno origine, tra le altre cose, anche come tentativo di tradurre in linguaggio le sperimentazioni registiche di certo cinema giapponese e hongkonghese.
 
     Nella produzione orientale però le innovazioni viaggiano alla stessa velocità della violenza espressiva che propongono. A questo punto allora mi interessa anche sapere il tuo parere di autore sulla necessità di una simile radicale carnalità in un romanzo fantastico che presumibilmente può facilmente essere acquistato anche da ragazzini non ancora ‘mature readers’. Che attenzione dai quando scrivi alle questioni di vendibilità, mercato e target, in un genere che a sembra vivere di certe precise fasce di pubblico?
 
     Mah, sinceramente sono convinto che abituare i lettori a immaginari alternativi sin da giovani sia una cosa molto sana. In Arlecchino c’è sesso, c’è violenza e un sacco di volgarità. È esattamente quello che vogliono i ragazzini, che sono molto più mature readers (= ‘sgamati’) di quanto si pensi. So per certo che il libro è stato letto da un’insegnante di scuola superiore a Trento e che i ragazzi sono stati entusiasti. Quindi no, non ho in mente specifiche fasce di pubblico. Per un grosso editore le politiche di target sono molto più specifiche e lì sicuramente dovrei pormi il problema.
 
     Tra le caratteristiche che ti accomunano ai tuoi colleghi c’è infine l’impulso speculativo e meta-letterario. “Il Ghigno” è narrazione che si interroga apertamente sui meccanismi creativi, sulla natura dell’opera d’arte e sul ruolo del creatore. Arlecchino è il magnus opusche permetterà al Barone di esplorare nuove possibilità attraverso la sua immaginazione. Ma la Creazione sin dalla sua nascita è consapevole, dotata di intelligenza propria, si conosce e cerca di sottrarsi alle angherie del proprio creatore e al Tracciato di Sophia – anche qui un concetto speculativo. La Creazione vuole rendersi autonoma. E il Caos, forza propulsiva e motore del racconto; elemento essenziale, necessario, della (tua) Creazione. Scrivi pensando ai molteplici livelli di lettura?
 

     Purtroppo ho una formazione accademica, il che vuol dire che c’è uno snob fighetto dietro la mia spalla che parla con la R moscia e mi fa pensare a sperimentazioni stilistiche a cui non vorrei/dovrei pensare. Mentre scrivo una storia, che resta il mio obiettivo principale, i sottotesti vengono fuori. Se hai una visione del mondo, è chiaro che con la storia emergerà anche ‘altro’, senza che per questo il testo sia appesantito da quella cosa che alcuni chiamano “Messaggio” (con la maiuscola). Insomma, devi essere prima un essere umano per essere uno scrittore, non viceversa.
     Essendo il trickster  un archetipo di figura creatrice, non potevo esimermi dal non ragionare sul principio di creazione, che per uno scrittore è rappresentato dalla scrittura stessa. Quindi quando il romanzo ha cominciato a sfuggirmi di mano, ho pensato che fosse logico che il creatore del personaggio (un essere che lui non riesce a controllare) fossi io. È un gioco meta-narrativo che ho già compiuto nel mio fumetto “Tipologie di un amore fantasma”, dove il protagonista ha la mia faccia (ma in quel caso non sono io).
 
     Non c’è quindi nessun tipo di ‘piattaforma programmatica’ tra voi autori, una discussione in atto sul vostro lavoro? L’impressione è che queste pratiche stiano portando a un movimento squisitamente autonomo, forte di caratteri propri e adulti, ormai ai confini tra le nicchie.
 
     Uhm, non che io sappia. Io mi confronto su base quasi giornaliera con Luca Tarenzi e anche con altri scrittori come Samuel Marolla, perché siamo prima amici e poi colleghi. Chiaramente, essendo sia amici che colleghi che grandissimi nerd, si finisce a parlare dei prossimi libri, poi però ciascuno di noi ha in mente piani e strategie diverse. No, direi che il movimento, se si formerà, sarà più un’operazione di marketing, perché di piani comuni non ne vedo proprio. Il tipico egotismo autoriale italiano.
    
     Nel racconto acquista particolare importanza simbolica il ghigno del protagonista. Il suo sorriso beffardo si configura come principio di sovvertimento dell’ordine.
 
     Come dicevo all’inizio, la risata possiede una forza incredibile: non risparmia nessuno, neanche i potenti. La risata sfida l’autorità e il principio di autorità. E io ho grossi problemi con chiunque voglia impormi un qualsiasi tipo di autorità. La risata ha (anche) un profondo valore politico.
 
     Voglio provocarti: qualche esperto della ‘vecchia guardia’ ritiene che “roba del genere non porterà a nulla, che si tratta di polpettoni intellettualoidi, sterili, velleitari che faranno involvere il fantastico, allontanando il pubblico, che avrebbe ben altre esigenze quando sceglie di leggere un certo tipo di cose”. Insomma per qualcuno quella qui delineata è una tendenza troppo autoreferenziale. Al di là delle idee di ognuno, la domanda necessaria è: come mai tanta urgenza teorica? Pensi che un certo grado di auto riflessività nelle opere possa dare al fantastico una sua dimensione piu adulta e consapevole?
 
     Boh, in realtà non ho nessuna urgenza teorica. Come ha scritto un collega sul suo blog, quando ho un’urgenza, vado in bagno (qui l’autore attinge alle altezze auliche della sua ‘formazione accademica’ , d’altra parte l’intervistatore ammette di essersela cercata! Jndr) Scherzi a parte, se avessi urgenza teorica scriverei dotti saggi sull’argomento. Io invece scrivo romanzi, racconti e fumetti. E spero film, prima o poi. I saggi li lascio agli accademici. L’auto riflessività non credo sia fondamentale. L’importante è raccontare buone storie e avere molta immaginazione per creare mostri fighissimi.
 
     Darai un seguito all’Arlecchino?
 
     Direi proprio di no. Mi interessava raccontare di un personaggio quasi onnipotente, ma troppo stupido per sfruttare poteri che tra l’altro non controlla e con un forte deficit emotivo: un personaggio profondamente imperfetto. “Il ghigno di Arlecchino” è un po’ l’archetipo del ‘Trickster Year One’, un personaggio ancora nella condizione di rookie, che non ha ancora compreso come usare i suoi poteri. Un personaggio totalmente onnipotente e perfetto sarebbe stato noiosissimo! Come disse Warren Ellis parlando del suo speciale su Solar, un personaggio a fumetti che era in definitiva Dio, chiese: “How can you tell the monthly adventures of God? Mi piacerebbe prima o poi dedicare uno spin-off ad Ah Puch, magari solo un racconto breve.
 
     Nell’ideale divisione tra coloro che scrivono ‘per sé’, assecondando le proprie ossessioni (“cosa può significare per me raccontare questa storia?”) e coloro che scrivono con un occhio al pubblico (“cosa può significare per la gente questa storia? Cosa aggiungerà a quanto già detto da altri?”), sebbene il fantastico penda da sempre verso la seconda categoria, questo tuo libro dimostra di voler stare per forza nella prima, ma per starci del tutto, nel cosiddetto ‘mainstream’, potrebbe risultare troppo estremo, di confine. Cosa è per te la scrittura? Perché hai scelto il fantastico, anzi questo tipo di fantastico – radicale, d’avanguardia, ultra contaminato – per raccontare?
 
     In realtà, ho scritto Arlecchino pensando che lo stile dovesse andare di pari passo con la stranezza degli eventi narrati. Forma e contenuto sono imprescindibilmente connessi. Pensa a un Arlecchino scritto in maniera tradizionale: forse sarebbe stato meno oscuro, avrebbe richiesto meno sforzo al lettore per entrare nel suo mondo. Mentre io volevo un mondo che disorientasse. E per disorientare doveva essere raccontato come l’ho raccontato.
     Quindi sì, scrivo ‘per me’, nel senso che scrivo libri che non trovo in libreria, ma come dicono gli scrittori di ‘bizarro fiction’, vorrei che i miei libri finissero in un’ipotetica sezione cult delle librerie (le quali, tra poco a causa degli e-book, probabilmente spariranno, anche se con un processo più lento di quello che sta avendo luogo in USA). Quindi scrivo anche per i lettori, ma per lettori curiosi di roba strana. Di gente che fa mainstream (di buona qualità o meno) ce n’è già.
 
     Tu hai anche lavorato nel campo del videoclip e del fumetto. Vuoi parlarci degli aspetti di quelle esperienze connesse alla tua produzione letteraria? Ritieni ci sia qualche legame tra quanto stai realizzando nella scrittura e quanto hai realizzato in quei campi?
 
     , il legame c’è perché sono sempre io che scrivo.
     No, perché in campo video non ho ancora prodotto niente di cui mi senta soddisfatto. Poi non percepisco differenze nella scrittura di prosa o per il video. Certo, per il video c’è la limitazione del budget, ma non ne percepisco altre.
 
      So che hai appena concluso la stesura di un nuovo romanzo breve. Vuoi dirci qualcosa a proposito, anche in relazione a quanto dibattuto? Come mai la preferenza di una forma breve in un periodo in cui il volume dei libri è direttamente proporzionale all’attenzione da essi ricevuta?
 
     Prima di tutto ‘breve’ è il formato della collana in cui apparirà. E poi perché come al solito con le idee con cui altri autori ci fanno una trilogia di libri ‘ciccionissimi’ io ci faccio un romanzo breve.
     Il titolo è “Zentropia” ed è un romanzo che ho fatto fatichissima a scrivere, perché, fondamentalmente, si tratta di un romanzo realistico. Cioè, come vedo io il reale, quindi non proprio la realtà generalmente condivisa. Comunque uscirà per la collana “Inchiostro Rosso” (http://rivoltanoir.wordpress.com) di Agenzia X e se dovessi definirlo in sintesi, direi che si tratta di un romanzo ‘distopico-zen’, come l’avrebbe scritto Tarantino: molto tamarro, spero anche divertente, che faccia ridere, o almeno che lasci un ghigno sul viso del lettore.
 
(a cura di Riccardo Falcetta)

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