Benvenuto Michele su Liberidiscrivere e grazie per aver accettato la nostra intervista. Come tradizione, iniziamo con le presentazioni. Sei nato ad Ancona nel 1969 e attualmente vivi e lavori a Milano. Sei innanzitutto uno scrittore, ma anche un giornalista e un autore televisivo e hai collaborato con molti musicisti italiani. Vuoi aggiungere altro?
Avete detto anche più di quanto non fosse necessario. Vivo di scrittura. Ormai solo di quella che finisce nei miei libri, in passato anche di quella prestata a riviste e quotidiani, con una certa specializzazione in "musica" e in "viaggi". Quella televisiva, a MTV, è stata un unicum, credo, irripetibile. Le collaborazioni coi cantanti, invece, sono il frutto del mio essere scrittore e al contempo critico musicale, e sono anche uno degli aspetti più interessanti del mio lavoro.
La prima domanda è d'obbligo: come ti è venuto in mente di scrivere un romanzo come Milanabad, tutto incentrato sull'hip-hop e sulla “rabbia giovane” delle periferie milanesi?
Vivo a Milano. Esattamente nel quartiere dove è ambientato Milanabad. Per dire, la kebabberia dove si svolge una delle scene più forti del libro è la kebabberia dove vado a prendere il cibo turco, quando ogni tanto ci va di mangiare etnico.
Con Milanabad, il mio ritorno alla narrativa dopo circa dieci anni, ho deciso per la prima volta di affrontare la città nella quale vivo da oltre tredici anni. Ho quindi deciso, proprio perché non è la mia città, ma la città dove vivo, di non entrare nella storia che andavo a raccontare. Quindi per la prima volta ho usato la terza persona, e ho scelto un protagonista, Marco detto Pluto, che con me non aveva nulla in comune. Un ragazzino nato e cresciuto nella periferia milanese.
Però, siccome la musica è parte integrante del mio mestiere, e il rap è un genere che ho sempre seguito e di cui sono considerato, non so se a ragione, uno dei principali esperti in Italia, ho scelto di ambientare il tutto nella scena hip-hop milanese. Quando decidi di raccontare il mix "periferia" + "giovani" + "hip-hop" non può che venirne fuori una storia rabbiosa, credo.
Il rap è un genere musicale che sorprendentemente ha valicato i confini dei ghetti afroamericani dov'era nato e si è diffuso in tutto il mondo, perfino nei paesi islamici o dell'Africa più profonda. A cosa ritieni sia dovuta questa fascinazione così potente, che altri generi pur di grande successo come il reggae o il punk non hanno saputo esercitare? L'hip-hop è diventato il codice universale dei giovani per esprimere la loro rabbia e i loro desideri? E per conoscere la gioventù italiana bisogna conoscere l'hip-hop italiano?
Il rap, come il rock prima, il punk poi, ha incarnato un linguaggio in grado di superare le differenze culturali e linguistiche dei cosiddetti giovani di quasi tutto il mondo. Potere della musica, credo, e, anche potere di un genere che non richiede una preparazione classica, quindi classista.
Per poter rappare, infatti, non è necessario aver frequentato il conservatorio e avere un pianoforte in casa, ma basta avere un po' di talento e un microfono a disposizione. Anzi, per imparare a rappare non serve neanche il microfono, basta la propria voce e al limite un quaderno dove segnarsi le rime.
So di farla estremamente facile, ma riassumere in poche righe il successo di un genere come il rap (ripeto, figlio di rock e punk) è impresa degna di un supereroe, che non sono. Io credo che per conoscere la gioventù italiana, bisogna frequentarla, e quindi, in parte, anche conoscere il mondo hip-hop.
Con i miei libri, da sempre, cerco di mappare il contemporaneo, anche a vantaggio di chi, magari, non ha modo di studiare la società. In fondo, a parte intrattenere, credo che scopo dei libri sia anche questo, almeno dei miei.
Molti artisti musicali hanno dato un loro contributo a Milanabad, scrivendo dei testi ispirati al tuo romanzo. Liriche che in più di un caso sembrano vere e proprie poesie. Pensi che le rime rap possano essere considerate un nuovo genere letterario, visto anche che ormai le poesie tradizionali non le legge quasi più nessuno?
Premesso che le liriche originali che mi sono state donate per Milanabad non sono tutte frutto di rapper, anzi, sono in prevalenza arrivate da cantautori/cantautrici o da rocker, quelli che io ritengo i migliori in circolazione al momento, e premesso che lo scopo di questi insoliti featuring era quello di creare una musicalità, la stessa che io ho cercato nel costruire un libro quasi tutto basato sui dialoghi, tanto per ricreare la musicalità del rap, posso dirti che non credo che il rap sia un genere letterario, come non credo che i testi delle canzoni di chicchessia, da De André a Bob Dylan, siano poesia.
La poesia è un genere letterario, i testi delle canzoni sono appunto testi di canzoni, scritti per essere cantati. Con questo non voglio assolutamente dire che siano minori delle poesie, o viceversa, sono semplicemente altro. Mi sembra, infatti, che nel definire poesie i testi di canzoni, si tenda a volerli elevare, come se le canzoni fossero fratelli minori dei testi poetici tour-court. Non la vedo così, evidentemente.
In Milanabad descrivi una Milano di periferia, poco conosciuta, in cui ragazzi italiani giocano a pallacanestro con coetanei filippini o egiziani e affronti anche il tema dell'integrazione con l'Islam. Secondo te, nonostante il remare contro di certe forze politiche, l'integrazione tra le varie etnie e culture avverrà di fatto sulla strada, grazie alla conoscenza diretta dell'altro, del diverso, oppure si stanno creando anche in Italia tante banlieue pronte a esplodere?
Non credo che in Italia ci sia il rischio Banlieue, perché noi non siamo la Francia, non abbiamo avuto le colonie e l'integrazione sta seguendo strade diverse. L'integrazione, che ovviamente sta incontrando grandi difficoltà, avverrà nelle strade e nelle scuole, dove le nuove generazioni si imparano a conoscere.
Chiaro, se un bambino sente in casa i genitori parlare degli stranieri in modo ostile avrà problemi a interagire con i suoi coetanei provenienti da altri posti, ma conto molto sulla saggezza dei più piccoli. Che io sappia, infatti, bambini leghisti ancora non ce ne sono.
Sei uno scrittore molto prolifico. Pubblichi almeno quattro-cinque libri l'anno senza contare gli altri tuoi impegni. Come riesci a farti bastare ventiquattro ore al giorno? Puoi raccontarci una tua giornata tipo? E qual è il tuo metodo di lavoro?
Io vivo di scrittura. Anzi, credo di essere uno dei pochi scrittori italiani a fare questo di lavoro. Quindi la mia giornata ruota tutta intorno alla scrittura. Sempre. E per scrittura, ovviamente, intendo non solo l'atto pratico di mettermi davanti al PC a scrivere, ma anche quello di pensare a cosa devo scrivere e di studiare l'argomento di cui andrò a scrivere.
In media lavoro sulle dieci ore al giorno nei cinque giorni lavorativi canonici, e diciamo sulle cinque ore al giorno nei week-end. Concedendomi, vivaddio, delle giornate di vacanze.
Comincio a lavorare verso le 7 e 30, prima di accompagnare a scuola i miei figli, e poi riprendo in maniera più organizzata dalle nove fino a
lle 13. Poi riprendo verso le 14 e finisco verso le 20, con delle pause nel mezzo.
Lavoro a tre, quattro libri alla volta, scrivendone uno e al tempo stesso iniziando a imbastire gli altri. Così posso tenere i ritmi che, vedo, tendono a creare meraviglia negli altri. Dodici libri in dodici mesi, come mi è successo da ottobre dell'anno scorso, quando è uscito il mio “Vale va ancora veloce” a oggi, con l'uscita di “Cantami o diva”, sono tanti, ma lavorando sodo si può.
Valentino G. Colapinto
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