:: Intervista ad Augusto Grandi

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razzBenvenuto Augusto su Liberidiscrivere e grazie per aver accettato la mia intervista. Iniziamo con le presentazioni. Allora sei nato a Torino nel 1956, sei un giornalista, uno scrittore, ami la montagna; vuoi aggiungere qualcosa? Parlaci dei tuoi studi, del tuo background, della tua infanzia.

Grazie a voi, innanzi tutto. Vista l’età devo fare un notevole sforzo di memoria.. Un’infanzia tipicamente borghese e subalpina. Con una scuola che era identica a quella di fine ‘800: leggevamo libri e racconti relativi agli studenti del secolo precedente e scoprivamo che non era cambiato nulla. Banchi con il calamaio incorporato, medaglie e premi, rispetto ed educazione. Anche l’educazione alla lettura, con libri come Cuore, ma anche tanta avventura, a partire da Salgari e poi Verne, passando per libri come Piccolo Alpino. Dalla Malesia alle nostre montagne. E poi le vacanze tipiche da bravo ragazzo torinese, tra il mare a Finale Ligure e la montagna in Valle d’Aosta, con le puntate in campagna, nel Delta del Po. A seguire liceo classico e una laurea in Lettere con indirizzo storico contemporaneo. Nel frattempo letture nuove, con un’attenzione particolare ai francesi. Da Maupassant a Sue, da Dumas a Hugo, poi Simenon, Céline, Sorel.

Prima di tutto sei un giornalista, sei redattore del quotidinao il Sole 24 ore come corrispondente per Torino, Piemonte e Valle d’Aosta. Quando hai iniziato a fare il giornalista? Più una passione o un lavoro? Cosa è cambiato dagli anni 70 ad oggi?

Ho iniziato per caso, all’inizio degli Anni 80. Un amico che lavorava a Radio Manila mi ha proposto di realizzare il giornale radio due mattine alla settimana. In quel periodo vivevo soprattutto in montagna, ad Ayas, dove lavoravo di sera come buttafuori in discoteca e di giorno sulle piste per le gare di sci. Ma in discoteca eravamo diventati esperti di pettegolezzo, quello che successivamente sarebbe diventato “giornalismo” da gossip. Indubbiamente all’inizio il giornalismo è stato accompagnato da grande passione: finalmente potevo raccontare la verità invece di limitarmi a leggere montagne di menzogne. Ora la passione si è trasformata in lavoro. Anche perché, negli anni, la professione è cambiata radicalmente, e non in meglio. C’era più voglia di scoprire la realtà, i retroscena. Più voglia di raccontare, di partecipare, di coinvolgere e di farsi coinvolgere. Molta più ideologia, indubbiamente, ma anche molti meno interessi economici a condizionare il lavoro. 

Pensi che il giornalismo televisivo con il suo impatto diciamo sensazionalistico, il suo linguaggio colloquiale, abbia cambiato anche quello della carta stampata?

Purtroppo sì. I giornali si riempiono di pagine sulle vicende sentimentali e private di attori, di cantanti, di comparse di un mondo irreale. I lettori, giustamente, puniscono questa informazione-immondizia e comprano sempre meno quotidiani. Ma editori e direttori se ne fregano, vanno avanti a passo di corsa verso il baratro. Quanto al linguaggio, è peggiorato e di molto. Ma forse è colpa soprattutto della scuola. “Te cosa fai?” dovrebbe essere inaccettabile in prima elementare, non solo nell’informazione telesiva. “Di questo se n’è parlato”, è da matita rossa in quinta elementare, invece lo ritroviamo tutti i giorni su quotidiani nazionali.

C’è stato qualche maestro da cui hai imparato molto, faccio dei nomi Indro Montanelli, Enzo Biagi, Oriana Fallaci?

Nessuno di loro. Giorgio Bocca, invece. Sia come giornalista sia come scrittore. Ovviamente non l’ultimo Bocca, livoroso e rancoroso, ma quello che è stato grande sino ad una quindicina di anni or sono. E poi, sicuramente, è stato importante il mio professore di italiano alle medie: è lui che mi ha insegnato a scrivere. Ma, professionalmente, devo molto anche al mio capo al Sole di Torino che mi ha spiegato i trucchi del mestiere. 

Raccontami un episodio bizzarro o divertente dei tuoi esordi, i primi tempi che frequentavi le redazioni dei giornali?

Più che divertente, preoccupante ma anche significativo. La prima volta che ho partecipato ad un importante convegno, per il Sole, non conoscevo nessuno. Eppure, appena entrato e prima ancora di presentarmi, il capo ufficio stampa di un grande gruppo mi ha salutato con un cordiale “Ciao Augusto”. Ho poi scoperto che quando un giornalista cominciava a lavorare per un quotidiano importante, veniva immediatamente schedato da appositi uffici. Con tutte le informazioni su curriculum, opinioni, provenienza e persino foto. Tanto per chiarire i livelli di controllo che esistevano in questo Paese.

Oltre che giornalista sei anche scrittore. Un mestiere apparentemente simile ma implica anche una struttura mentale molto diversa. Il giornalista innanzi tutto deve avere il culto della verità, dell’aderenza ai fatti, della testimonianza diretta, lo scrittore può creare, dare spazio alla fantasia. Ti senti più giornalista o scrittore?

Il primo libro è del 2000, dunque mi dovrei sentire molto più giornalista. Ma, ormai, è proprio nei libri che si ha la maggior possibilità  di raccontare la verità, più diretta nei saggi e solo poco trasformata dalla fantasia nei romanzi. Per cui preferisco l’attività di scrittore.

Quali libri leggevi da ragazzo? Quali sono stati i tuoi maestri letterari?

A parte gli autori francesi, di cui abbiamo parlato prima, da ragazzo ho letto di tutto, spesso a caso, senza un filone preciso. Dai classici europei sino a romanzacci americani di pessimo livello. Come formazione per la scrittura, comunque, i francesi hanno inciso di più. Per la formazione culturale e politica (sono un figlio del ’68) hanno avuto più peso altri autori, da Evola a Guenon, da Adriano Romualdi a Codreanu. Ma forse il libro che ha inciso di più è stato “La disintegrazione del sistema”, di Franco Freda.
 
Parlaci della tua Torino, che luoghi ami frequentare? E’ ancora una città industriale o la crisi la sta penalizzando cambiandone il suo volto?

Torino è  indubbiamente cambiata, e molto. Ma francamente non impazzisco di fronte alle legioni di turisti che sciamano per il centro per andare a vedere la Sindone o che affollano il Salone del Gusto. La mia Torino è quella che dall’asse di corso Francia –  dove sono nato, cresciuto e dove abito tutt’ora, con spostamenti di poche centinaia di metri in oltre 50 anni – arriva al Po passando per via Garibaldi. Mi piace cammianre su queste strade, possibilmente al mattino, prima che arrivi la folla. Amo il Po, soprattutto quando fa freddo e non c’è nessuno. Non frequento locali notturni. Mi piace mangiar bene e bere meglio, e in questo Torino è cresciuta molto. Vintage, Cambio, Marco Polo, c’è solo l’imbarazzo della scelta tra i locali più noti. E tra quelli meno famosi mi piace il Parlapà.
 
Ci sono errori che hai commesso nella tua carrira, scelte difficili che oggi grazie all’esperienza ti spingerebbero ad agire diveramente?

Errori? Sicuramente. Ma francamente non ne correggerei neppure uno, a parte quelli di un nome sbagliato o di una frase da agg
iungere o da togliere. Ho vissuto benissimo la mia carriera da giornalista, meglio di quanto mi aspettassi. Va bene così. Non cambio nulla.

Definiscimi il concetto di libertà. Pensi che in Italia la tanto dibattuta libertà di stampa esista o c’è molto opportunismo, asservimento ai poteri forti?

Innanzi tutto non credo alla verità oggettiva, tantomeno nell’informazione. Ciascuno ha esperienze che formano una sorta di lente deformante nella percezione della realtà. E questo a prescindere da una eventuale malafede. Si è spesso convinti di una realtà che il vicino vede in modo opposto. Libertà sarebbe comunque la possibilità di raccontare ciò che si è creduto di vedere. E raramente accade. In Italia la libertà di stampa è estremamente ridotta, ma non a causa dell’intervento dei poteri forti. Molto più semplicemente per vigliaccheria, per opportunismo. Si ha paura del potente di turno a cui, in genere, non frega assolutamente nulla di quello che viene scritto. È un’autocensura, non una censura. Si è più realisti del re. Ma indubbiamente, serve per la carriera interna. 

L’ultimo tuo libro Razz. Politici d’azzardo è un fortissimo atto d’accusa contro la classe politica italiana.Vuoi parlarcene? Quanta verità contiene?

Contiene solo verità, purtroppo. Il libro è stato ispirato da personaggi veri, da storie vere. Ambientato a Torino, ma avrei potuto collocarlo ovunque in Italia. In realtà l’atto di accusa non è solo nei confronti di una classe politica squallida più ancora che disonesta, ignorante, arrogante, priva di ideali. È la società italiana nel suo complesso che è così. Giornalisti, magistrati, imprenditori. I politici non nascono dal nulla ma sono espressione di un’Italia moralmente allo sfascio. 

Quanto incide il coraggio nella vita di un giornalista o di uno scrittore? Pensi di aver detto o fatto cose che in un certo senso ti hanno penalizzato. La diplomazia e l’opportunismo in senso buono sono doti da tener presente al giorno d’oggi?

Il coraggio dovrebbe essere la prima dote di un giornalista. Purtroppo è una merce sempre più rara. Indubbiamente ho pagato per certe scelte, per certe posizioni, per certe inchieste. Ma non rinnego nulla e non rimpiango nulla. E non vedo nessun senso buono per l’opportunismo. Credo che la società, non il giornalismo, avrebbe bisogno di maggior educazione, anche di quella sana ipocrisia piccolo borghese molto subalpina. Un sorriso, quando si tiene aperta la porta per far passare una persona più anziana o una signora, non costa nulla e migliora la qualità della vita di tutti. Ma nel giornalismo nessuna cortesia, solo la realtà. 

Ho letto un’ intervista che hai rilasciato a Giorgio Ballario in cui ti chiede il motivo per cui hai utilizzato un linguaggio così sgradevole e diciamolo pure volgare che ha scosso anche molti lettori. Pensi che se avessi usato un linguaggio più “castigato” avresti tradito il tuo intento di denuncia? O meglio esiste un intento di denuncia?

Esiste il disgusto, più ancora che la denuncia. E un linguaggio edulcorato non avrebbe reso bene lo squallore generale. Maleducazione, mancanza di fantasia, assenza di cultura sono le caratteristiche di questi personaggi. Assurdo trasformarla in un linguaggio castigato. Anche i termini volgari si ripetono, perché i personaggi non hanno neppure la vivacità che caratterizza un giornale come Il Vernacoliere. I protagonosti di Razz hanno un vocabolario estremamente limitato, sia che si tratti di parlare un italiano corretto sia quando si tratta di imprecare.

Che rapporto hai con la critica? Quale recensione ti ha fatto più felice?

Ritengo che la critica sia fondamentale. E che debba essere totalmente libera di esprimersi, di attaccare, di guidicare anche negativamente. Solo che quando si tratta di un collega giornalista, spesso le critiche sono più benevole, per una sorta di solidarietà quando non di pura amicizia. Ci si conosce e ci si promuove a vicenda. Per questo la recensione che mi ha fatto più piacere è stata quella dedicata dal Corriere della Sera a “Baci e Bastonate”, uno dei miei libri precedenti. Perché non conoscevo il collega che l’ha scritta e perché, quando gli ho scritto per ringraziarlo, mi ha assicurato che gli era piaciuto davvero e che l’aveva fatto leggere a suo figlio perché capisse cosa erano stati gli anni di piombo.

Che consigli daresti ai giovani che volessero intraprendere la carriera di giornalista o di scrittore?

Di essere onesto innanzi tutto con se stesso. Di leggere molto, di non aver paura di nulla e di nessuno. Di non inchinarsi mai di fronte ad un potente. E di non mollare.

Quale libro stai leggendo adesso, quello aperto sul classico comodino?

Inevitabilmente un francese, Claude Izner, L’assassino del Marais. Sto finendolo e dopo sarà il turno di Claude Izzo, Casino totale.

A quali progetti stai lavorando in questo momento?

Sto scrivendo un saggio, molto faticoso, sulla storia dell’economia italiana dall’Unità ad oggi. E due racconti da inserire in altrettante raccolte, una di gialli e l’altra di storia.

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