Un volumetto, minimo per dimensioni, atmosfere e sommovimenti, di parola e gesto elementari (si badi: non banali), minimali cromatismi. In bianco e nero sin dalla copertina, tra le pagine qua e là punteggiato ora dal rosso scarlatto e vivo del chicco di melagrana, dal verde-azzurro di un divano, appena accennati i gialli, Imbuti di cristallo consegna nella minuzia formale lo sguardo ampio di Lucia Boni, un sentire capace del piccolo ogni riverbero, di renderli nella scrittura, nuovamente concederli al lettore con quella delicatezza che trova la propria potenza nell’accordare lo spazio del respiro e di quello vivere. E lo dichiara:
foglietti
epistolario
pensieri di ogni giorno
minimi scrivo
Il piccolo su cui Lucia Boni si sofferma è quello della quotidianità condivisa, tra la dimensione più personale e quella domestica, familiare, in cui l’«io» si ritrae sempre in relazione a un «tu», anche eventualmente nella sua assenza, spesso a quello fondendosi, minuscoli entrambi, in un sentimento plurale e intimo [«la folla // noi siamo in due // – è “stolida infinità” / gorgo nel buco di un imbuto – // al cospetto con i suoi rumori / lei sorda muraglia (…)»]. E di questa prospettiva pare voler subito fornire la chiave una delle prime tra le numerose soglie che segnano la pubblicazione:
sole nell’ombra
due figure chiare
parlano fitto
Un succedersi di brani esili che non è una frantumaglia. Serbate tra la nota editoriale, la postfazione di Monica Pavani e i diversi eserghi, più che schegge (pur presenti, citate, come altrui, ma «di vuoto»), a parlare sono gocce di realtà colate (non filtrate, piuttosto lentamente fatte scorrere attraverso imbuti, appunto) e conservate in un volume come in uno di quei tanti barattoli di vetro o cristallo in cui ci si imbatte nello sfogliarlo. Un libro che come quei vasetti gioca con il proprio contenuto restituendone a chi lo guarda da fuori un’immagine parziale e tuttavia in grado di lasciare intuire ciò che si pone al di là del sensibile.
Trasparenze, riverberi, perfino un tintinnare che si fa musica ci arriva, di quei contenitori. L’autrice si sofferma e interroga sul loro pieno e vuoto, mutuandoli, entro la dimensione relazionale, nell’eterna dinamica tra presenza e assenza.
Barattoli, bottiglie (più in generale, anche, stoviglie), calici, clessidre, vasi, ampolle e alambicchi, addirittura lampi, di vetro. L’intera raccolta è segnata da una consistenza che si avvicina all’effimero, pur nutrendosi di una concretezza scaturita dalla registrazione di oggetti e dalle imprescindibili percezioni fisiche. Racconta di una realtà doppia, in cui fragilità potenziale e saldezza si fondono e si confondono, dove vitale è la capacità, nell’accezione dell’attitudine, materiale ed emotiva, al contenere liquidi e solidi, così come ciò che è l’altro da sé, l’esistere.
È forse il secondo dei componimenti dedicati al «fine pasto» che racchiude e più immediatamente restituisce l’essenza di questa raccolta in cui sull’aspetto più strettamente tecnico vince la bellezza delle immagini: «noi che siamo cristalli / su di una gamba sola / come gru trampolieri / sottile gamba / forte stabile / ferma / stiamo // brina calice / piccoli suoni tintinniamo / risate acuti / bordi appannati bevo // alla bocca di / vetro / le nostre impronte / pieghe di labbra / fragranze vaghe / di abboccate bevande / bionde di fulvi / o di rubini sensi e / là in fondo dove / inspessisce e si / riduce il cono / di trasparenze // là si rimescolano / ancora / liquidi / limpidi o fondi / e poi si rigoverna / acqua che scorre // restano i suoni / dei nostri nomi incisi / invisibili ai / più per noi indelebili // resta una storia».
Imbuti di cristallo di Lucia Boni La Carmelina edizioni, Ferrara 2009, pp79, Euro 8,00
17 giugno 2010 alle 11:59 |
a Barbarache mi rimanda ancora nuove percezioni e trasparenze, nuovi riflessi e rifrazioni e soprattutto un altro senso della "capacità" fisica dei contenitori.mi ritrovo nuovamente contenuta e al tempo stesso di passaggio nell'imbuto dell'esistere. Grazie per la tua sensibile lettura.