Oggi è una giornata particolare, in tutto il mondo si celebra la giornata contro la violenza sulle donne. Per far sì che non scorra come tutte le altre pubblico oggi sul blog, per gentile concessione di Del Vecchio Editore e grazie a Fiammetta Biancatelli, alcuni estratti de I passanti di Laurent Mauvignier. Per riflettere.
Capitolo 2
Nella folla io non sono più esattamente quell’uomo, ma ancora non un’ombra. Non sono ancora qualcuno, ma non sono più esattamente nessuno. È già qualcosa, ma il fatto è che a volte mi annoio così tanto, quando la domenica lasciano la città a chi ne fa parte solo per contrasto, solo per difetto. Come quando di notte, alle quattro o alle cinque del mattino, guardo dalla finestra i semafori all’incrocio che continuano, verde, arancio, rosso, per nessuno, per l’asfalto e per me, per le strisce pedonali, da lassù, dietro la mia tenda, quando di notte guardo i riflessi dei fari nelle pozzanghere, le ombre degli alberi che si riflettono nelle vetrine di fronte perché accanto a casa mia c’è il parco. Gli alberi che danzano, per nessuno. E anche l’acqua della piscina che guizza e sciaborda dopo l’orario di chiusura, e io vado a guardarla come altri vanno a vedere i musei o come la gente seduta fuori dalle brasserie. Io, la piscina quando è chiusa. I piccoli riflessi bianchi rovinati dalle ondine – sono proprio testarde le onde, no, non è possibile, non è così, è tutto il contrario, è tutto piatto, levigato come vetro, poiché i riflessi invece sono precisi, come in uno specchio, nella grande vetrata da dove la sera io vado a guardare la piscina.
Perché io sentirò sempre il mio cuore battere. E sotto le lenzuola avverto cosa succede al sangue nell’acqua quando il cuore batte troppo forte, nelle tempie, sotto la pelle o nell’acqua. Cosa succede a sudare nell’acqua quasi come sotto le lenzuola, a sentire le vene rimbalzare e battere, sì, è quasi la stessa cosa, perché a stare fermi sotto le lenzuola, a guardare, si vedono, come sulla pelle, ma un po’ deformati, i sussulti, come nell’acqua si immaginano i movimenti perché tutto vibra, assorbe i colpi e spesso mi torna alla mente quell’immagine, il corpo di lei sotto l’acqua.
I suoi tratti, come filamenti che disegnano sulla sua pelle arabeschi blu, la percorrono, la disegnano, e il silenzio sotto l’acqua, no, i rumori della superficie che tornano come un’immagine sfocata delle sue gambe e delle sue braccia che si allargano e si muovono. E così, adesso io vado in piscina solo quando è chiusa. Poso le mani sulla grande vetrata. Stringo gli occhi. Quasi li chiudo per scorgere tra le ciglia solo i contorni della mia mano, il chiaroscuro che rende le dita nere, con l’azzurro che diventa così azzurro, così denso, sotto la luce dei neon.
Accade che le persone mi incrocino per strada, ma nessuno ha occhi per vedere che a me è successo qualcosa. Che adesso nella metro io non sono più una massa che tutti urtano per la fretta, tutti quanti, correndo all’uscita dal lavoro, mangiando, sbirciando gli orologi e i telefoni, portando le borse, ma tanto a me adesso non importa che non mi vedano. Che mi lascino senza storia, perché adesso io per loro sono solo una parola, una scheda, una rubrica, non qualcuno, no, non qualcuno, ancora no, non ancora, ma questa volta è un inizio, è molto meglio, sono un pericolo per loro che hanno una meta, per tutti, perché stare sulla pagina della cronaca locale è già qualcosa come quando mi càpita di venire schiacciato da loro nei convogli della metro, stritolato dai masticatori di chewing–gum, dai profumi, dai trucchi, dalle cravatte dei ciccioni, dagli alti e dai bassi che soffocano ma si uniscono agli altri quando insieme lanciano occhiate intorno per vedere se qualcuno si avvicina alla ricerca di uno sguardo.
E poi, niente, gli stessi silenzi in cui ognuno pensa e ripensa alle proprie storielle e ai propri incontri, ai weekend in campagna o in famiglia, gli stessi silenzi attorcigliati, annegati nel convoglio che scuote, che stride sui binari e nelle ossa. Con le immagini dei corridoi che si lanciano sotto le retine come i corpi giù per le scale della metro, nelle ore di punta, nei luoghi di scambio per raggiungere le periferie.
Ma talvolta sono un uomo molto calmo. Potrei fare come loro, starmene a capo chino a scribacchiare parole crociate e alzare gli occhi solo per vedere le stazioni. Sì, è una specie di calma. Come se alla fine di un sogno il giorno fosse qui a confortarci, a mascherare anche le ombre e ciò che fa male, a nascondere gli specchi: perché adesso c’è anche questo, che a casa ho nascosto la mia immagine, e tutte le lettere che ho buttato, lasciamo stare, non pensiamoci più, mi serve più vuoto per vivere il giorno, per non guardare verso di me, come quando di notte non arriva il sonno. Ma di giorno si può imbrogliare. Non ho girato gli specchi, però, per esempio, adesso mi faccio la barba sotto l’acqua della doccia, senza guardarmi come invece facevo prima, come avevo imparato seguendo i miei gesti allo specchio, dedicando del tempo a spalmare la schiuma sul viso, a seguire il contorno della mascella, delle guance, a risalire con la lama e ripulirla dai peli e dalla schiuma sbattendola contro il bordo di ceramica. Adesso invece, è successo così, per stanchezza, neanche per disgusto, solo perché non sentivo più il bisogno di destinare del tempo per me, lavarmi, radermi e poi mettere il dopobarba.
Anche i miei vestiti li cambio poco, perché la mia idiozia è di aver ucciso. Perché io credo di averla uccisa. E per questo ci si deve sbrigare a lavarsi, a mangiare, per poter uscire e non restare soli con se stessi – perché il corpo trema sempre, perché a volte sento la sua forza e l’ebbrezza che dà, anche se non è il fatto di avere ucciso che mi rende forte, ma solo il fatto di non poter essere diverso da quello in cui ciò mi ha trasformato. Potrei anche lanciare tutte le urla del mondo, perfino uccidermi, tormentarmi o dimenticare, dimenticare davvero ciò che ho fatto, in buona fede; e anche se un giorno io dimenticassi o addirittura pagassi, se mi beccassi vent’anni, mille anni o niente, o anche se tutto venisse dimenticato e mai più si sentisse il minimo respiro della mia vita – ebbene, fino alla vertigine, sì, anche senza di me ciò che conta sarà quello che ho fatto.
Nel complesso, io e la mia vita saremo un cuore nell’acqua. Un cuore che batteva troppo forte, e i polmoni come le guance, gonfi d’aria, con anche l’acqua che a volte entrava nel naso – quel sapore di cloro che rimane in bocca, sulla pelle, nei pori. Nel complesso, io non sarò stato altro che due occhi fissi su di lei. Due occhi che non avranno detto al cervello ciò che avevano visto, ma che la divoravano già, cedendo a ciò per cui sono fatti gli occhi, guardare, tutto, lei, il movimento dell’acqua, le bolle sotto i suoi colpi, come una spuma; i colpi e l’acqua che faceva le bolle e poi i suoi piedi, le caviglie, i polpacci e allora quella forza nel gesto da cogliere con un’occhiata sola, con la ferocia degli occhi perché gli occhi quando guardano lo fanno per prendere.
E io non nuotavo più. Chissà da quanto tempo tremavo nell’acqua, so solo che a un certo punto, sì è così, ho avuto freddo. Credo sia stato il freddo a farmi ritornare in me, a farmi capire che non stavo più nuotando e poi, soprattutto, che l’avevo vista.
Lei. Prima i suoi movimenti. Poi la sua figura, la forma del suo corpo. Il costume da bagno blu e poi lei che nuotava e, percorrendo le vasche, si avvicinava a me. Il suo corpo spingeva l’acqua verso di me e io ero come le rocce del mare, quando le onde vi si infrangono contro. Vacillavo. Non ero come le rocce. Ho dovuto bloccare le cosce, tendere i muscoli delle gambe, allargarle e poggiare bene i piedi sul fondo tanto l’acqua urtava il mio corpo quando lei tornava verso il bordo, verso di me, e faceva un giro su se stessa e prendeva la spinta sul bordo con un movimento delle gambe, con la punta dei piedi, solo con la parte superiore della pianta dei piedi. Era terribile. Lei nuotava e dire cos’era vederla nella corsia, lì, mentre tirava dritto senza mai oltrepassare il galleggiante, lasciando una scia, immergendosi nell’acqua che in due secondi riempiva lo spazio del suo corpo, là dove lei spariva, no, niente, io non sarei capace di dire cosa provavo. E lasciava ai miei occhi il tempo di riposarsi da lei, mentre si immergeva nell’acqua che scivolava sul suo corpo e la ricopriva, e poi riappariva due o tre metri più lontano, la testa per prima, con il busto che risaliva alto per la forza del movimento. E la pelle luccicava. Lei spariva e io cercavo la forza ascoltando i rumori dei bambini. Volevo le grida e le risate perché avevo freddo, perché avevo paura; e lei ritornava verso di me. Forse mi è passata troppo vicina, tanto che le nostre pelli si sono quasi sfiorate. Non succede mai nulla, e all’improvviso è successa questa cosa così nuova, l’impressione di vedermi per la prima volta nello stesso spazio delle cose da guardare. Sbarcare qui è stata la mia più grande avventura, e poi, basta, ed è per quello che mi piace guardare i marciapiedi e le persone da casa mia, scambiare i ruoli e guardarli senza che mi vedano, nessuno di loro. Mi piace molto seguire dall’alto tutto ciò che ci agita quando siamo in basso, e penso, che strano, dall’alto si ha l’impressione che gli altri si guardino in faccia. E invece no. Corrono, vanno, cantano anche quando portano a casa il pane sottobraccio, o quando i più giovani in gruppo aspettano il sabato sera e vanno a riempire i bar, o quando affrettano il passo perché il panettiere e l’arabo all’angolo stanno per chiudere.
Per gentile concessione di Del Vecchio editore
Laurent Mauvignier è uno degli scrittori francesi più apprezzati dal pubblico e dalla critica. Ha all’attivo sei romanzi, tra i quali Apprendre à finir (Editions de Minuit, 2000, Prix Wepler e Prix Livre Inter nel 2001), e Dans la foule (Editions de Minuit, 2006, Prix Fnac). Di Mauvignier sono usciti in Italia: La camera bianca, Zandonai 2008, Lontano da loro, Zandonai 2009, Degli uomini, Feltrinelli 2010, Storia di un oblio, Feltrinelli 2012.
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