Daniele Zito, autore de La solitudine di un riporto, edito da Hacca edizioni (2013), ha risposto a qualche domanda sul suo originalissimo romanzo d’esordio. Lo scrittore sarà a Milano il prossimo 14 novembre, al Gogol & Company di via Savona, per la presentazione del libro e, prossimamente, anche a Torino (15 novembre – Libreria Trebisonda), a Cagliari ( 22 novembre – Pazza Idea) e a Matelica (30 novembre – Kindustria).
D. Antonio Torrecamonica, il libraio del tuo romanzo, odia i libri. Non è sempre stato così: la sua drammatica vicenda personale ha generato in lui un rifiuto rabbioso nei confronti della carta stampata. Il destino beffardo, però, lo ha portato a trascorrere le proprie giornate tra scaffali di libri. Un paradosso intorno a cui ruota tutta la storia. Da dove è nata un’idea tanto originale?
R. E’ nata da un’insofferenza. Ho trovato spesso figure di librai nei libri che ho letto. Per lo più si tratta di personaggi secondari, descritti come persone colte, sagge e carismatiche, capaci di condurre il protagonista verso una comprensione più elevata del proprio percorso esistenziale. Per quando mi riguarda, considero personaggi di questo tipo “bidimensionali”, figurine di carta completamente avulse dalla realtà.
Antonio Torrecamonica è nato come reazione a tutto questo. Volevo creare un libraio differente, un libraio che odiasse libri, lettori e letteratura, scorbutico, misogino e bombarolo. E’ una figura grottesca – me ne rendo conto – eppure plausibile. Anche il suo rapporto con la sua libreria è differente da quello consueto. Non c’è nessun amore o attaccamento possibile in esso, né tanto meno un rapporto simbiotico, come spesso accade in tanta letteratura. Lo spazio all’interno del quale si muove il mio protagonista è uno spazio angusto, privo di luce e di vie di fuga reali o immaginarie. In esso, l’unica possibilità è la prigionia. La libreria del mio romanzo non è altro che una gabbia, percepita come tale. Tra l’altro non è neanche una gabbia dorata. E’ una gabbia brutta, sporca e cattiva. Come tutte le gabbie.
D. Antonio, con la sua rabbia esistenziale, è il prodotto di una società spietata: rinchiuso e isolato in un manicomio, vessato dalla malavita organizzata, usato da una polizia corrotta e senza scrupoli. In un mondo dove il confine tra il bene e il male è labile o addirittura inesistente, l’onestà e la coerenza rischiano davvero di diventare una chimera, o addirittura roba da folli. Il tuo “folle” libraio è forse un eroe dei nostri tempi?
R. A dire il vero, io non penso di avere ben capito com’è fatto un eroe dei nostri tempi. Me lo domando spesso, senza mai trovare una risposta univoca.
A occhio e croce, direi che il precario è una figura iconica di questi anni; anche i rivoluzionari senza rivoluzione, o meglio dentro un conflitto parcellizzato che non riesce mai a esprimersi in modalità condivise, costretti, loro malgrado, a un individualismo indotto, probabilmente lo sono; lo stesso vale per gli esodati: pure loro, volenti o nolenti, sono eroi dei nostri tempi. Suppongo che ce ne siano anche molti altri. Siamo dentro una mutazione profonda delle strutture che regolano la società e la sua compagine economica.
Il libraio, a suo modo, esprime alcuni dei tratti caratteristici di tutte queste figure. Nel libro provo a descrivere una rabbia che è sia personale che collettiva; ciò consente al libraio di essere fratello sia del precario, che del ragazzo che sogna il riot, che dell’esodato.
La vicenda del libraio tenta anche di descrivere un possibile arco esistenziale di figure come queste, proponendo anche una soluzione di fuga, diciamo così, abbastanza estrema. Non mi sembra che la realtà, nel nostro paese, stia evolvendo verso scelte di quel tipo, per cui, ad oggi, mi sa che il mio libraio più che essere un eroe dei nostri tempi, sia al contrario un antieroe. Certo, ora che l’ho detto, ora che mi sono sbilanciato, la realtà farà di tutto per smentirmi.
D. E’ proprio un libro a spingere il protagonista verso la libertà. A spalancare la porta della sua libreria per inseguire il suo sogno d’amore. Assistiamo, quindi, ad un trasformazione improvvisa e quasi miracolosa dell’uomo cinico e rassegnato delle prime pagine. Potere della cultura?
R. Potere di quel gesto tanto apparentemente insignificante che è aprire un libro per leggerlo. Io sono convinto che nell’esperienza di ogni lettore ci sia sempre un libro di partenza, il primo libro che ti spezza il cuore, facendoti entrare nel tunnel della lettura. Per molti questo primo amore letterario arriva presto, nell’infanzia o nella prima adolescenza; per il libraio arriva a cinquantotto anni. Per certi versi il mio libro è un romanzo di formazione stravagante, dove il protagonista, piuttosto che essere un giovanotto inesperto, è un uomo maturo detentore di un riporto agghiacciante. Quasi un romanzo di deformazione.
D. Nel tuo libro si respira tutta l’amarezza di un uomo che scopre di aver sprecato la sua vita. “Ci sono momenti in cui tutta la miseria di una vita diventa improvvisamente chiara. Un attimo prima stai guardando un tramonto, e un attimo dopo capisci di aver sciupato tutta la tua vita dietro a una stronzata. E la cosa peggiore è che non si torna indietro”. Spesso questo non è il pensiero di un singolo uomo, ma quello di un’intera generazione: quella dei sogni accantonati, delle aspettative deluse, degli ideali traditi, quella dei “nessuno in mezzo a milioni di altri nessuno”. Nel tuo romanzo non l’ho intravista: pensi che ci sia una qualche speranza per una o più generazioni di invisibili?
R. Penso che, sotto certe condizioni (difficili da prevedere in anticipo), a volte si vengano a formare delle vere e proprie generazioni di passaggio, generazioni che si ritrovano a vivere a cavallo di due o più epoche senza appartenere a nessuna di essa, vere e proprie generazioni-ponte il cui tratto distintivo è lo spaesamento. La generazione a cui appartengo e quella a cui appartengono i miei fratelli e le mie sorelle maggiori, sono generazioni di passaggio. Storicamente per generazioni di questo tipo non c’è alcuna speranza.
La Storia però ha uno strano modo di “far rima”, non è detto che stavolta da tutto questo spaesamento non nasca qualcosa d’interessante. Al momento, però, non vedo nulla di incoraggiante.
D. Tra le righe del tuo romanzo si legge una critica, neanche troppo velata, ad una categoria di lettori poco consapevoli. “Se quella zona era piena di lettori, non erano di certo suoi clienti: probabilmente compravano i libri di merda da un’altra parte”. Magari in qualche megastore. E’ solo il giudizio di un libraio arrabbiato o pensi che dietro a certe scelte editoriali molto commerciali ci sia anche un pubblico di lettori poco preparato?
R. Sono propenso a ritenere che il successo dei megastore è dovuto probabilmente alla loro capacità di aggredire fette di mercato sempre nuove, utilizzando tecniche di marketing e di concentrazione dei capitali molto aggressive. Da quello che ho visto qui a Catania, la velocità con la quale un megastore riesce a spazzar via ogni altro concorrente e creare il deserto attorno a sé, deriva da un mix complesso di spregiudicate operazioni finanziarie e tecniche avanzate di ingegneria sociale.
Il pubblico che deriva da tutto questo è per forza di cose un pubblico molto strano. Strano e variegato. Io non so se sia più preparato o meno preparato di quello col quale siamo abituati a confrontarci, di sicuro è differente. Ed è un pubblico con il quale noi scrittori dobbiamo iniziare a fari i conti sul serio.
Io l’ho fatto in maniera molto violenta, lungo tutte le pagine del mio romanzo. E’ soltanto una delle tante possibilità sul piatto. Col tempo probabilmente se ne proporranno altre. E’ tutto ancora molto magmatico, non ci sono tendenze consolidate. E’ difficile prevedere come evolverà questa situazione. Vedremo.
D. Da ricercatore precario a scrittore. Un passaggio obbligato o una passione improvvisa?
R. Un modo differente di studiare la realtà.
D. Prima ancora che dei libri, il tuo romanzo è un elogio della parola. Le parole sono importanti, ha urlato qualcuno. “Aveva un conto in sospeso con gli scrittori, la letteratura e i libri, ma ancora più in generale con le parole. Era una questione privata”. Hai anche tu questioni aperte con le parole?
R. Ogni scrittore ha un conto aperto con le parole. Nel mio caso, credo che si possa parlare di sindrome di Stoccolma.
D. Per concludere e senza svelare troppo a chi non ha ancora letto il tuo libro, ti rivolgo una domanda doverosa. Cosa pensi dell’Accademia della Crusca?
R. Penso che grammatica e sintassi non siano, né possano essere, un terreno d’agibilità comune, quanto invece il luogo in cui i conflitti tra gruppi sociali ed economici differenti, – mossi da istanze, rappresentazioni, narrazioni e obiettivi profondamente divergenti – lungi dall’essere mediati o negoziati, sono sempre spinti fino al parossismo.
Dal momento che questi interessi sono divergenti e insanabili, si va sempre allo scontro. Il conflitto, a quel che vedo, è l’elemento fondante di ogni grammatica e di ogni sintassi. Non c’è molta poesia in tutto questo. Chi vince, si prende tutto. Chi perde, perde tutto.
In quest’ottica, la lingua scritta e quella parlata rappresentato l’esito problematico, complesso e mai scontato, di tale conflitto. Quelle che sembrano questioni di lana caprina, dunque, spesso sottendono intense battaglie politiche e culturali che durano anni.
L’Accademia della Crusca, in Italia, è l’organo deputato a ratificare gli esiti di tali battaglie. E’ il moloch normativo attorno al quale chi vince costruisce la propria immagine, distruggendo tutte le altre. Colpire l’Accademia vuol dire tentare di colpire quel moloch, o meglio porsi il problema della sua conquista, prendere parte a una battaglia che c’è, agisce, miete vittime, ma di cui nessuno parla.
29 novembre 2013 alle 6:12 |
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