:: Recensione di Il re solo di Sabina Colloredo (Fanucci, 2012) a cura di Elena Romanello

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Dopo il primo capitolo, La grande marcia, continua con il secondo volume la saga che Sabina Colloredo ha deciso di dedicare ai Longobardi, il popolo barbaro o cosiddetto tale che segnò poi di più la vita e la società da dopo la caduta dell’Impero romano in Italia, dando il suo nome ad una delle Regioni italiane e mescolandosi con la cultura dei Romani in decadenza ma non certo desiderosi di cedere terreno.
Il Re Solo è uscito per Fanucci e ricostruisce il momento in cui, nel 568 d. C. i Longobardi si affacciano alla penisola italiana, provenienti dalle steppe dell’attuale Kazakistan, sulla mitica via della seta, nota fin dall’antichità, mentre a Bisanzio si vivono gli splendori dell’Impero romano, che dureranno ancora per quasi un millennio e intanto si affacciano anche dall’Asia gli Avari, tribù crudele e discriminatoria verso le donne, in arrivo dall’Afghanistan, da sempre terra di confine, contesa tra le varie potenze, fino al tragico presente che sta vivendo.
Ed è alle donne che l’autrice sceglie di far raccontare la storia, la sacerdotessa Rodelinda, seguace degli antichi riti messi in pericolo da nuove credenze religiose, la regina Rosmunda, infelice sposa di Alboino passata poi alla leggenda più nera, la romana Valeria Prima, ostaggio dei barbari, la giovanissima Mama, principessa prigioniera degli Avari, che grazie ai nemici longobardi forse conoscerà per la prima volta la libertà.
La storia della caduta dell’Impero romano è sempre stata vista, dalla storiografia posteriore, come un momento cupo e di immensa  barbarie, anche se fu invece un processo graduale, e per decenni se non per secoli i Romani credettero ancora di far parte di un Impero: Sabina Colloredo restituisce una pagina spessa raccontata nei libri di Storia come un momento oscuro e confuso in maniera fedele ed appassionante, raccontando storie di persone, uomini e donne, che si confrontano, incontrano, scontrano, a volte si uccidono, a volte si amano o scoprono comunque di avere affinità e di sognare le stesse cose.
Il rigore è quello dello storico, ma la passione e la narrazione è quella del romanziere, che ricostruisce quel tempo lontano come qualcosa di vero e vicino, raccontando la voce di chi non aveva voce, le donne in testa, o meglio di chi a cui per secoli è stata negata la voce, anche se allora ce l’aveva eccome, in questo universo in cui un mondo finiva e nuovi mondi venivano fuori, religiosi, culturali, di abitudini, influenzati da nuovi equilibri ed incontri, in una penisola che per secoli fece poi gola a tanti, forse anche in ricordo di quel mondo perduto legato all’antica Roma.
Sabina Colloredo si mette con questo suo romanzo nel solco di altri autori, che hanno raccontato il passato remoto della nostra Storia mescolando verità e fantasia, a cominciare da Marion Zimmer Bradley con la quale condivide lo stesso approccio al femminile e femminista verso quella pagina del passato.
Gli intrighi, le battaglie, le passioni e gli eventi di quei giorni di un millennio e mezzo fa diventano una storia appassionante e appassionata, nella tradizione del romanzo storico e del fantasy ligio alla storia, costruendo un universo di famiglie in lotta che non mancherà di appassionare chi si strugge da anni per esempio sulla saga del Ghiaccio e del Fuoco di George R. Martin. Con la differenza che qui è tutto vero, tutto realmente accaduto, o quasi, in quel mondo remoto ma dove si sono messi i semi per l’Italia, e anche per l’Europa dei secoli successivi.
La storia non è comunque finita: Sabina Colloredo sta scrivendo il terzo libro della trilogia.

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