Ci sono libri che nascono per un’esigenza intima di raccontarsi, di raccontare una realtà che per molti versi ha segnato un’epoca, un’Italia che forse non c’è più ma che vive ancora nei ricordi, nei discorsi tra amici, di una generazione che aveva vent’anni nel ’68. Andrea Grassi, ex operaio Dalmine a Massa, con un passato sindacale nella Fiom-Cgl, primo dottore operaio d’Italia, tra il romanzo, il saggio sociologico e il libro di memorie, ha voluto lasciare una testimonianza scritta alle nuove generazioni su cosa significasse vivere la condizione operaia negli anni successivi al boom economico, esperienza che ha vissuto sulla sua pelle con conseguenze sulla sua salute, sul suo sviluppo intellettuale, sulla sua presa di coscienza critica. I più giovani leggeranno con un misto di stupore e di meraviglia pagine dove si accenna che tra le posizioni conquistate nella lotta sindacale alle disuguaglianze ci fu il diritto alla pausa pranzo, o il diritto allo studio. “Passo attraverso gli accordi sindacali aziendali, poi fu fatto proprio dal contratto collettivo nazionale di lavoro il diritto per il quale fosse consentito a ciascun operaio di usufruire, nell’arco delle otto ore, di una pausa di trenta minuti per mangiare. Anche prima di questo accordo gli operai potevano mangiare durante il lavoro, ma dovevano farlo di nascosto(….) Mangiare di nascosto significava farlo senza che il ritmo perdesse una battuta”. Diritti che oggi sembrano sacrosanti e inviolabili ma basta un referendum aziendale come è successo recentemente alla Fiat per spazzare via anni e anni di lotta, di conquiste, di sudore versato se non sangue. Ci ricorda che la contestazione era un privilegio dei figli della media borghesia, degli impiegati statali, degli insegnanti , dei dipendenti della pubblica amministrazione, non degli operai. Ci parla di quando come grande atto di ribellione non volle piegarsi a chiedere scusa quando fu colto a leggere La montagna incantata di Thomas Mann durante il turno di lavoro rischiando ben più di una ramanzina se non il licenziamento. Il protagonista di Cantavamo power to the people di nome semplicemente A. ci porta così nel suo mondo, un mondo fatto di fatica, di macchine implacabili che obbligano ad una turnazione continua, di piccole soddisfazioni come quando il Presidente della Repubblica Sandro Pertini andò in fabbrica ad incontrare gli operai e si commosse con le lacrime agli occhi sentendo il suo discorso di accoglienza e sussurrò ad A “Chiamami compagno”. E nel finale quando gli propongono di lasciare la condizione di operaio e di passare al ruolo di impiegato, di imparare a fare il programmatore Cobol A. accetta ma con un senso di frustrazione se non di rimpianto e nel viaggio verso Nord con il suo collega Corrado si trova in auto a cantare a squarciagola la canzone di John Lennon Power to the people “la canzone cantata da un’ intera generazione, la generazione dei giovani del 68, la generazione che aveva sognato l’abolizione delle ingiustizie sociali” e mentre canta si sente parte di una comunione di ideali e di speranze e si appropria della sua identità di essere umano prima che di lavoratore. Uscito nel 2008 per l’Editore il Filo avrebbe meritato più attenzione e fortuna e sicuramente un editore che avesse investito di più in promozione e diffusione.
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