:: Recensione di Istruzioni per un addio di Luigi Romolo Carrino a cura di Giulia Guida

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copj13.asp"Mi ricordo il suo viso, scuro come un temporale." [Rileggendo "Istruzioni per un addio, L. R. Carrino].
Una serie di finestre che si aprono e si chiudono sulla piazza di San Lorenzo. C'è  una fontana, lì da sempre ma non per sempre.
Che guarda, ascolta e parla la vita che accade in punta di piedi.Le bombe a Roma e la guerra a rosicchiare quel che resta delle parole mai scritte, mai dette, interrotte nel silenzio perfetto di un'esplosione. C'è  una donna nella sua cucina al settimo piano che aspetta senza parlare la sua voce, seduta su una sedia, davanti a un mazzo di rose rosse. Le mani appese giù ai lati dei polsi, come cuciti addosso a una bambola di pezza, gli occhi lividi di niente. Anna.
Aspetta di imparare il colore dalle rose. Le rose aspettano, immobili, di imparare il suo bianco irrequieto e imbizzarrito. C'è una donna che ha perso l'amore, gliel'ha portato via la guerra ed ora si vede giovane stesa contro il muro, vede il suo sorriso abbarbicato contro il petto del suo amante, lo vede arrampicarsi lungo il contorno dei suoi occhi e ricalcarci sopra tutte le lettere d'amore lasciate dal fronte dentro al petto di un morto, come proiettili di carta.
Anna chiude gli occhi, piega il collo di lato, leggerissima. Rita appare, senza far rumore, come la sua ombra. Entra in cucina dalla camera da letto e chiama Anna. Rita ed Anna sono al settimo piano di un altro tempo e di un altro spazio. Sono metà spezzate, riflessi asimmetrici, sorelle nel ricordo, prima della vita e dopo la morte. Hanno i polsi incrociati nell'assenza e le vene piene di mancanze. Respirano con un solo cuore e invecchiano come in uno specchio. Non escono mai da casa, fanno salire solo il fioraio ogni mattina per portare due rose rosse, inchiodate sul tavolo della cucina ad accarezzare tutti gli spigoli dell'appartamento. Le rose respirano la vita di Rita e di Anna che vivono lì come cose dimenticate in un angolo, mangiate dalla polvere.
Al settimo piano di piazza San Lorenzo c'è Marta. Vicino a lei, sul piccolo balcone, c'è una culla. Dentro c'è Anna, nata per errore, sputata fuori da una violenza in un sottoscala, un paio di mani così piccole aggrappate a un destino che si ripete sempre uguale. Marta sul balcone, Anna nella culla. E poi Marta sospesa nell'aria, nessun attrito, sembra quasi che abbia le ali.
Al settimo piano di un appartamento c'è un uomo in caduta libera. Un uomo che è rimasto dentro una casa vuota, mentre il suo amore se ne è andato. E pensa al perchè non sia mai lui quello con la valigia in mano, sempre pronto per battere la ritirata. Lui è quello che resta, che non abbandona mai, che non lascia. Non può essere diversamente, lui è quello che deve sentire l'assenza delle cose, il freddo del letto come un buco nella terra, sapere l'inverno che ti infreddolisce tutto nelle ossa, mentre fuori il mondo già suda d'estate.
E poi ci sta una lista di istruzioni su come usare la lavatrice. Solo sette punti. In sette punti le istruzioni pratiche per la sopravvivenza. C'è  un uomo che se ne va sulla porta di casa. C'è il suo compagno distratto, testa fra le nuvole e la voglia di portargli un girasole tra le mani e tirargli via un pò di colore dalla faccia. C'è uno strappo. E due uomini che si allontanano. Una lavatrice, una vaschetta per l'ammorbidente, il detersivo per i colorati. E i vestiti dentro una valigia, via dalle grucce. I libri tutti in ordine di altezza, le tende pulite, i piatti lavati, i pavimenti lucidati come pezzi d'argenteria. E una lettera d'amore per dire addio.
E poi ancora un carteggio virtuale. Due amanti gay, due cugini stretti, Dada la Grande e Ivette senza tette sotto la pioggia di novembre muoiono tenendosi per mano, sul lungomare. Uno dei due scrive all'altro, gli scrive le poche parole che gli restano, le ultime notti senza il mare al contrario nei suoi occhi, gli ultimi giorni senza la sua voce a far scricchiolare le pareti.
Adriana Merola, editrice per Azimut, alla presentazione romana del nuovo lavoro di Carrino, "Istruzioni per un addio", ha tenuto a precisare a malincuore che sull'immagine di copertina c'era un errore imperdonabile. La parola racconti sotto al titolo. "Quella parola non ci doveva essere. Siamo stati indecisi fino all'ultimo giorno se inserirla o meno. Come vi accorgerete leggendo, Istruzioni per un addio si presenta in realtà come un romanzo sospeso, più che come una serie di racconti slegati l'uno dall'altro." A questo proposito devo dare pienamente ragione alla Merola. La nuova opera di Carrino non si configura come una classica raccolta di racconti distinti, seppur collegati da un filo narrativo e tematico comune. I personaggi, le ambientazioni, gli oggetti, i pensieri, le voci si sovrappongono e si inseguono in un continuo gioco di rimandi alternati tra i diversi racconti, che finiscono per evocarsi l'uno all'interno dell'altro attraverso la collisione dei piani temporali e degli spazi.
Carrino annulla il tempo, ne annulla l'ordine logico. Riesce a ricreare la geometria molecolare di un sentimento, l'addio, che è in realtà dato di fatto, uno stato irreversibile di cose, una realtà ruvida, sporca, l'inizio di una crisi, una crepa nella quotidianità, nei luoghi di sempre, nelle vecchie abitudini. L'addio è la vita che smette di scorrere all'improvviso. E' la frattura che non si ricompone o lo fa storta attraverso gli anni e s'attacca all'odore dei vestiti di chi se ne è andato, a un sorriso lasciato di sfuggita dentro una foto, nella pancia cava delle pareti delle case disabitate, tra le pieghe della carne di un corpo solo che si invecchia. L'addio è figura geometrica dagli angoli infiniti, è cerchio in cui ci si smarrisce, è linea retta che trema di infinito e di morte.
I personaggi di Carrino sono uomini e donne sbiancati di vuoto, caduti nel precipizio. Le loro pose fisse, i loro sguardi immobili, le loro attese prolungate, i loro passi mossi solo dall'inerzia descrivono l'impotenza inquieta di chi sa che il ritorno è impossibile. Hanno le istruzioni, certo. Per sopravvivere, d'altra parte, è necessario soddisfare una serie molto limitata di bisogni primari. Sopravvivere all'abbandono non è tra questi.
L'amore non sembra essere per definizione fisiologica una necessità elementare.
Verrà  da sè, nei giorni interrotti, negli anni afoni, nei colori indistinti, nei contorni dimenticati. Verrà da sè rimettere la carta da parati, pulire le tende, rifare la lavatrice, lasciare i libri in disordine e i letti sfatti, ricominciare a fumare, dividere il letto con qualcun altro.
Verrà  da sè la vita che continua, mentre chi se ne va resta in disparte, uno spillo in sottopelle che non ti appartiene più, ma che non riesce mai a scappare.
Carrino sceglie di parlare dell'addio con più linguaggi: il carteggio virtuale, la chat, il monologo, il racconto corale, la narrazione diretta, la poesia a seconda dei personaggi e dei contesti. Decide di distaccarsi dal genere noir, etichetta che era stata accostata ai due precedenti lavori di narrativa dell’autore, “Acqua storta” e “Pozzoromolo”(Meridiano Zero) per dare vita a qualcosa di diverso, che rifugge
anche la definizione stessa di racconto, figurarsi di genere.
Ora che rileggo queste parole a voce alta, mi viene da pensare che Carrino sia tutto quello che uno scrittore oggi dovrebbe essere. Lasciar parlare quello che si scrive prima che se stessi.
Le sue parole riempiono tutte le mie stanze, riscrivono sopra ai vuoti d'aria una mancanza diversa, in cui tutte le assenze si sommano per formare un unico spazio pieno: la terra dell'addio. Ed è lì che ritrovo la mia voce

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