:: Intervista a Manuela Mazzi

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Giornalista professionista e appassionata fotografa, ha scritto per più testate della stampa ticinese e ha collaborato con “Il Giornale” di Milano, come corrispondente dalla Svizzera di lingua italiana. Attualmente lavora nella redazione del settimanale d’approfondimento “Azione” e produce servizi fotografici e giornalistici anche come free lance. Il suo libro d’esordio è stato “L’angelo apprendista” (2005), quindi ha pubblicato “Un caffè a Kathmandu” (2006), mentre il suo ultimo prodotto editoriale è “Un gigolo in doppiopetto” (2007).

Com’è nato in te l’amore per la scrittura?

Non è l’amore per la scrittura ad essere nato in me, sono io ad essere nata con l’amore per la scrittura: fra diari, pensieri lasciati a mozzichi su foglietti, paginate di romanzi appena iniziati già da ragazzina, tanto per far ordine in storie quotidiane, fogli su fogli scribacchiati con appunti di riflessioni, che mi divertivo a trascrivere per organizzarle e trovare così una risposta a tante domande che mi ponevo da sola, ho decine di centimetri di carta scritta solo per l’amore che ho per la scrittura.

Giornalista professionista, viaggiatrice, fotografa, scrittrice come concili i tuoi molteplici interessi?

A dire il vero queste quattro attività sono molto legate l’una all’altra e quindi è molto facile conciliarle, anzi, sono convinta che l’una sia una condizione per far sopravvivere l’altra e viceversa. Il problema in questo caso, quindi, non sussiste, mentre è altrettanto vero che più aumenta la passione per il mio lavoro e più è difficile conciliare gli impegni con altri interessi. E in particolare mi riferisco a una passione sportiva che fino a una decina di anni fa si trovava al primo posto nella mia vita.

Raccontami dei tuoi studi di giornalismo, come hai iniziato, quali sono stati i tuoi maestri?

L’elenco di “studi e maestri” a un giornalista servono per fornire delle credenziali, giusto? Ebbene io non ho credenziali da vantare; sono una giornalista atipica, perché a differenza della maggior parte dei miei colleghi, e di certo a differenza di tutti i colleghi che conosco della mia generazione, sono riuscita – seppure attraverso una gavetta degna di questo nome – a guadagnarmi l’iscrizione nel registro professionale senza avere titoli di studio superiori, ma solo per determinate doti che i miei “maestri” mi hanno riconosciuto. Oggi ci sono molti laureati che finiscono a fare i giornalisti come attività di ripiego, spesso per il fatto che non riescono a trovare un’occupazione come professori; io invece ho lottato proprio per riuscire a ritagliarmi uno spazio in questo mondo che corrispondeva ai miei sogni.

Cosa ne pensi del giornalismo spettacolo che fa dei giornalisti delle star sul modello americano di intrattenimento?

Associo il giornalismo spettacolo da intrattenimento solo al gossip, quindi dovrei esprimere un giudizio su questa espressione giornalistica più che sulla tendenza televisiva. E a tal proposito mi sento di dire solo che non rientra nel mio genere preferito.

Hai fatto la gavetta per diventare giornalista: ricordi un episodio bizzarro?

Più che bizzarro ricordo un paio di episodi che da subito mi fecero capire che avevo scelto la mia strada. La prima riguarda il fatto che sin dall’inizio mi è capitato di trovarmi spesso nel posto giusto al momento giusto. Ad esempio la prima volta che misi piede in una redazione con un contratto (temporaneo ovviamente) mi sono ritrovata in mezzo a una bella emergenza: un’esondazione storica che ci costrinse per un paio di settimane a recarci in redazione con le barche, per riuscire a documentare quell’immensa ondata di notizie. Un’altra volta invece mi ritrovai, non ancora praticante, con un collega che invece praticante almeno lo era, di domenica, da soli a dover scrivere una pagina di cronaca locale e due pagine speciali per un omicidio avvenuto proprio nella nostra città. Finimmo di scrivere a mezzanotte e per la grande soddisfazione dalla nostra redazione ci recammo direttamente nella città in cui veniva stampato il giornale per poter assaporare il piacere di vedere il risultato del nostro faticoso lavoro direttamente dalle prime copie del quotidiano ancora fresco d’inchiostro. E il direttore che ci incontrò per i corridoi vedendo i “due di Locarno” prima di complimentarsi con noi ci disse: “A eccoli i due rintronati di Locarno. Guardate qui: avete scritto in un titolino Preventino invece di Preventivo…”. Ci rimanemmo malissimo, se non fosse che subito dopo stappò una bottiglia di spumante per festeggiare il bel servizio.

Consiglieresti a giovani italiani di trasferirsi nel Ticino?

Per farci un giretto turistico, certamente. Per cercare lavoro, oggi, no. Purtroppo dal 1995 ha preso il via un processo (legato anche alle questioni relative all’Europa Unita e quindi agli accordi bilaterali) che ha messo in ginocchio l’economia locale, in Ticino ancor di più che nel resto della Svizzera. Purtroppo molti non riescono a trovare lavoro. Tant’è che è aumentata la disoccupazione, e ancor di più sono cresciuti i casi sociali, ma soprattutto sono aumentati i disabili per problemi psichici intesi come depressioni per perdita di lavoro, fallimenti e situazioni economiche sempre più precarie. In altre parole presto, almeno nel nord d’Italia, si potrebbe assistere più probabilmente a un’inversione di tendenza: saremo noi, svizzeri, a diventare transfrontalieri e pendolari. D’altronde l’euro si è rafforzato molto e potrebbe diventare quindi interessante anche da un punto di vista salariale.

Sarai presente alla Fiera del Libro di Torino dal 8 al 12 maggio?

Mi piacerebbe farci un giro, quindi molto probabilmente sì. Mi sto organizzando per ritagliarmi una giornata intera per la trasferta.

Che libro stai leggendo al momento?

Libro? Ops, direi libri. Ecco l’elenco: “Elogio della disciplina” di Bernhard Bueb; “Lo hobbit” di John Tolkien; “Tutto Sherlock Holmes” di Arthur Conan Doyle; “Intelligenza sociale” di Daniel Goleman; “Don Chisciotte della Mancha” di Miguel de Cervantes; “La danza della realtà” di Alejandro Jodorowsky; un vecchio libretto di racconti di Luigi Pirandello, di cui in questo momento non ricordo il titolo, “El principe de la niebla” di Carlos Ruiz Zafon in spagnolo e… mi sembrano tutti, forse.

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

Non ho uno scrittore preferito. Mi piace variare, anche se delle predilezioni le ho: mi piacciono i classici, ma anche le storielle happy-end, amo i gialli, ma non sopporto quelli ad alta tensione (troppo sensibile, ahimé), non amo molto le biografie, mentre adoro i saggi a sfondo psicologico o filosofico. Non ho mai letto un vero fantasy (Lo Hobbit è il primo), ma adoro i libri d’avventura.

Cosa pensi del filone New Age?

In realtà non lo amo molto (anche se mi sono piaciuti ad esempio libri come “La profezia di Celestino” & Co). Ed è un fatto strano se si pensa che il mio primo libro (L’angelo apprendista) è stato etichettato proprio come “spirituale” e “new age”. Detto tra noi forse non è stato capito interamente. Ma non importa: una volta scritto e pubblicato, un libro diventa di proprietà dei lettori, quindi…

Parlami dell’associazione Apeiron.

È un’associazione non governativa che ho avuto modo di conoscere attraverso il suo fondatore, Sauro Somigli, maestro di karate che ho seguito anche in un’esperienza diretta come attivista in Nepal. È grazie a lui, e ad Apeiron, che ho avuto lo spunto di scrivere “Un caffè a Kathmandu”, di cui il 50% degli incassi dalle vendite viene devoluto proprio a favore dei progetti di Apeiron, che si occupa anche del recupero dei bambini di strada.

Sei stata in Nepal, che divario c’è tra il Nepal turistico e quello di tutti i giorni con la realtà dei bambini di strada?

Enorme. A volte mi sorprende chiacchierare con chi il Nepal l’ha conosciuto turisticamente. Anche perché in genere chi si reca a Kathmandu lo fa solo per pochi giorni, il tempo di organizzare la spedizione verso le vette: il Nepal qui, in Europa, infatti, è sinonimo di patria delle nevi eterne, aria pulita e acqua cristallina, che poco hanno da spartire con la povertà dei bambini di strada, l’inquinamento della città, la sporcizia e i pidocchi…

Fai ricerche sul campo? Come ti documenti per i tuoi libri?

Anzitutto dipende dal libro. Per il primo non ho dovuto fare nessuna ricerca. Per “Un caffè a Kathmandu” invece, come detto, ho avuto modo di toccare con mano quella realtà che ho poi descritto, sebbene nomi e termini locali sono stati attentamente ripresi da una carta geografica. Per “Un gigolo in doppiopetto”, invece, mi sono basata su un servizio giornalistico e quindi mi sono “documentata” attraverso interviste e dati statistici reali per descrivere il fenomeno: d’altronde prima di essere romanzo è un reportage narrativo. Ma se potessi avere a disposizione settimane di trenta giorni dedicherei molto più tempo per documentarmi: sono certa che il successo di alcuni scrittori si celi proprio dietro la possibilità di dedicare molti mesi a documentarsi prima di iniziare a scrivere… Un sogno che per ora non mi è possibile realizzare.

Hai lavorato come fotografa per la rivista “Il nostro paese” della Società ticinese per l’arte e la natura, com’è una redazione giornalistica dal suo interno?

Lavoro tuttora per questa rivista, ma solo come freelance, mentre l’esperienza in redazione l’ho maturata dalla gavetta fino ad oggi, che lavoro con contratto per il settimanale Azione: mi reco in redazione tre giorni alla settimana. Che dire? È decisamente più divertente fare la reporter in giro per il mondo. Tuttavia mi piace vivere questa professione a 360 gradi.

Hai partecipato al progetto “Un libro in aiuto” collana a scopo benefico della casa editrice romana Progetto Cultura 2003, che devolve parte dei proventi in beneficenza. Credi molto nell’editoria solidale?

Sì, ci credo molto. Credo che sia un buon mezzo per raccogliere fondi e credo che sia fondamentale per divulgare il messaggio per cui è importante contribuire attivamente a certi progetti. In altre parole credo che sia l’unico vero modo per ottenere una triplice azione: recupero di fondi, sensibilizzazione al problema, e la durata nel tempo di questi intenti.

Nel 2003, in un articolo comparso sul quotidiano “Il Giornale”, un giovane ex gigolo ticinese raccontò delle sue esperienze, ne hai fatto un libro di denuncia, come è stato scrivere un libro in cui i personaggi non erano di fantasia ma reali?

In questo caso specifico è stata un’operazione delicata perché non potevo discostarmi troppo dalla realtà, ma allo stesso tempo dovevo rendere i personaggi irriconoscibili per proteggere la loro identità che è rimasta anonima. Di proposito quindi ho evitato di caratterizzare troppo tutti i protagonisti del reportage, concentrandomi maggiormente sul personaggio principale.

Hai un atteggiamento critico nella questione delle adozioni a distanza, perché?

Per due motivi sostanziali. Il primo riguarda il comportamento di alcune organizzazioni. Ho potuto appurare il danno che può venir fatto a un bambino di strada quando l’adozione a distanza cessa per motivi diversi. Se un bambino di strada vive e cresce per strada, conoscendone le regole, potrebbe rischiare di cavarsela. Ma se viene a un certo punto tolto dalla strada e dato in adozione a distanza, imparerà a vestirsi, a lavarsi e “persino” a mangiare tre volte al giorno. A volte però capita che il “padre adottivo” cessi di inviare il contributo di adozione perché non ce la fa più, o per altri motivi. Ebbene, in certe organizzazioni, questi bambini vengono rimessi in strada… Il secondo motivo è il fatto che l’adozione a distanza è diventata così di moda che ormai la pubblicizzano anche in televisione come se i bambini fossero merce in vendita.

Cosa pensi del fenomeno dei ghost writers sei mai stata tentata di scrivere per autori famosi?

In Ticino quando si parla di ghost writers si intende definire chi scrive al posto di personalità politiche. Ebbene, ammetto di essere stata per un periodo anche una ghost writer, ma solo per il fatto che in fondo potevo comunque dire quel che pensavo: diciamo che ero in linea con le idee della persona che “aiutavo”. Non avrei mai accettato di esprimere idee che non rientrassero nei miei principi. Tuttavia trovo parecchio vergognoso (non per il ghost writers, che perde solo l’occasione di autodeterminarsi) che uno scrittore spacci per suo anche solo una frase non originata dalla sua mente.

Quali sono i tuoi maestri letterari?

Non mi ispiro a nessuno in particolare, o meglio: c’è da imparare da tutti.

In Svizzera la conoscenza delle lingue è d’obbligo quante lingue conosci?

Purtroppo non quelle che servirebbero in Svizzera. Da noi sarebbe utile sapere bene il francese e il tedesco, mentre io me la cavo con lo spagnolo e l’inglese. Certo, il francese lo capisco: ma scriverlo è tutt’altra cosa.

Che consigli daresti a un giovane autore non ancora pubblicato? Di insistere, comunque e in ogni caso. Anche se ovviamente bisogna cercare di capire il motivo per cui non è stato pubblicato. Se è certo e convinto di aver fatto un buon lavoro, se ha fatto leggere la bozza almeno a quattro o cinque persone e il giudizio è risultato positivo, se ci crede davvero… allora devo assolutamente continuare la ricerca: avete idea di quanti editori ci sono?

Ti urta essere definita scrittrice emergente dopo tanti anni di lavoro per la carta stampata?

Sono poi solo una decina di anni che faccio la giornalista. Comunque no, non mi urta. O meglio diciamo che mi urtano tutte le definizioni che generalizzano, però questa non mi infastidisce più di tante altre.

Tra i tuoi libri qual è stato più difficile scrivere?

Sicuramente “Un gigolo in doppiopetto”, però è anche quello che finora mi ha dato più soddisfazione a prodotto finito.

Hai un agente letterario? No, mai avuto.

Stai lavorando a qualche nuovo libro?

Sì. Ho finito qualche mese fa di scrivere un’avventura per ragazzi che al momento è… in cerca di editore. Finora è stato il libro che mi è piaciuto di più scrivere.

Hai relazioni d’amicizia con altri scrittori? Sì, ho tre o quattro amicizie nell’ambiente… è bello condividere una passione comune.

Ti piacerebbe fare un photoreportage in Cina?

Assolutamente sì, e prima che cambi troppo volto, anche se credo di essere già in ritardo…

L’editore rifiuta di pubblicare un tuo libro e tu crei la tua casa editrice, come è il mondo dell’editoria visto da chi la fa ?

Beh, non è proprio così. “Un gigolo in doppiopetto” non solo non è stato rifiutato, ma era addirittura riuscito a ottenere un contratto di pubblicazione molto interessante e vantaggioso… Solo che da buona svizzerotta certi comportamenti poco chiari, slittamenti di date e promesse non del tutto mantenute, mi hanno disturbato molto portandomi infine a rompere il contratto. Ormai però avevo già avvisato la stampa dell’imminente uscita del libro. Così in un mese ho fondato la mia casa editrice, mi sono fatta aiutare da un paio di amici per l’editing e sono andata in stampa… In fondo, dopo la pubblicazione, quel che ho fatto per il “Gigolo”, non è tanto diverso da quel che ho fatto per i primi due… Fin quando si rimane nella piccola editoria l’autore deve giocoforza impegnarsi molto per farsi conoscere.

I tuoi libri sono tradotti anche in altre lingue?

Purtroppo no: vorrei tanto tradurre “Un gigolo in doppiopetto” in tedesco, perché credo che potrebbe ritagliarsi un buon mercato in Svizzera interna… ma una traduzione costa troppo.

Pensi che un libro possa cambiare la gente e così il mondo?

Non tutti i libri, ma, sì, penso che alcuni libri possano farlo.

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Una Risposta to “:: Intervista a Manuela Mazzi”

  1. Avatar di Sconosciuto mmazzi Says:

    🙂

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