Queste sono pagine pesanti. Non scivolano via come fogli pieni di parole in successione, ammucchiate per esprimere concetti vaghi ed astratti. Dentro al libro di Stefano Lorenzetto si respira la vita. E la morte. E ancora la speranza. Un’appassionante testimonianza della quotidianità tra angosce e sofferenze vissute e raccontate da una penna brillante, esperta ma soprattutto protagonista di un viaggio profondo, quello dell’anima.
Ha scritto un libro carico di emozioni. Si esce provati dopo aver scritte pagine così dense di significato?
Provati, ma anche sollevati. È come aver messo un punto fermo nella propria vita. Incontri queste persone, raccogli le loro testimonianze di dolore ma anche di speranza e spesso finisci per piangere con loro. Come mi disse il grande chirurgo Vittorio Staudacher qualche anno prima di morire, «siamo dentro la moltitudine di uomini che abitano la Terra: come si fa a non partecipare al pathos universale? Ecco perché l’individuo non starà mai bene. Dovrei essere privo di sensibilità per non pensare a tutti i miei simili che patiscono». Ma alla fine arrivi alla conclusione che l’uomo, quest’uomo mortale, è fatto per l’eternità.
Affronta i temi ultimi, dalla vita alla morte passando per un’inevitabile sofferenza umana. La devozione è il rimedio a questi mali?
Se per devozione intendiamo la dipendenza verso la divinità, com’è nel significato della parola, senz’altro. Negli ultimi nove anni ho incontrato 400 italiani normali, che fanno grandi o piccole cose. I più felici erano quelli che credevano in qualcosa.
L’eutanasia ha fatto discutere molto sul caso Welby e provocherà ancora accese tensioni tra Stato e Chiesa. Un suo parere.
Eutanasia è una contraddizione semantica. La morte non può essere né dolce né buona. Comunque mi affido ai medici. Ho molta fiducia nella loro professionalità e nella loro umanità. Non credo che possa esistere un medico capace di tradire il malato proprio nell’ora suprema. Mi rimetto alla loro scienza e alla loro coscienza. Se salgo su un aereo che deve portarmi a New York, non entro in cabina a dare istruzioni al pilota. Mi fido di lui. Anche quando avverto qualche turbolenza, non ho paura: so che sta lavorando al meglio per il mio bene, non per il mio male.
Ha raccontato storie di tutti i giorni, di uomini comuni che muoiono o continuano a vivere felici di farlo. Si è parlato di un suo inno alla vita. E’ questo lo scopo del libro?
Una volta Enzo Biagi mi ha detto: «Ho amato tanto la vita, ma non ho ancora capito cos’è». Mi associo. La vita è bellissima. Solo che spesso te ne accorgi in ritardo, quando sta per finire.
La filosofia del vivere secondo il “carpe diem” aiuta a cogliere il vero senso della vita?
Di ogni giorno sono più portato a cogliere gli affanni che le gioie. Come tutti, credo. Quindi fatico a comprendere chi pensa che la felicità consista nel vivere alla giornata. È preferibile la mestizia al riso, perché sotto un triste aspetto il cuore è felice, insegna nella sua dolente saggezza Qoèlet. Giuliano Ferrara, solo leggendomi, è giunto alla conclusione che questa mia ricerca della tristezza e delle sue ragioni pascaliane sia segno di tenero e anche allegro pessimismo. Non è soltanto un grande giornalista, ma anche un fine psicologo.
La morte. Incombente, temuta, celata: in ogni modo punto di fine. Come ha metabolizzato questo suo concetto prima e dopo la stesura del testo?
Come scrivo nell’introduzione di “Vita morte miracoli”, la morte è un pensiero fisso, che mi tiene compagnia fin da quand’ero bambino. Non avevo idea del perché il mio brano prediletto di musica classica, quello di cui non mi stanco mai, fosse l’Arioso dalla Cantata BWV 156 di Johann Sebastian Bach. Poi, di recente, un amico organista che insegna al conservatorio, mi ha spiegato che il grande di Eisenach lo intitolò Ich steh’ mit einem Fuß im Grabe (Sono già con un piede nella fossa), e tutto mi è stato chiaro. Mi sono fatto consegnare lo spartito. Tenore e soprano duettano: «Sono già con un piede nella fossa»; «Fa’ di me, o Dio, secondo la tua bontà»; «Presto il mio corpo malato vi cadrà»; «Aiutami nel mio dolore»; «Vieni, mio Dio, se lo vuoi»; «Ciò che ti chiedo, non negarmelo»; «Ho già dato disposizioni per le mie proprietà»; «Quando la mia anima dovrà partire prendila, Signore, nelle tue mani»; «Ma rendi beata la mia fine». Ho anche un debito di riconoscenza con la morte. Se ho abbracciato questo mestiere, lo devo a un coccodrillo, come lo chiamiamo in gergo noi giornalisti, che scrissi a 14 anni.
E ancora, siccome la morte è parte integrante della vita in quanto sopraggiunge in essa, che rapporto si deve avere con questa?
La vita è la naturale evoluzione dell’organismo umano verso la morte. Non è che si deve avere un rapporto: il rapporto è nei fatti, nella nostra stessa natura. L’importante è saperlo vedere dal lato giusto. Mi ha scritto proprio oggi un mio lettore che fa l’ingegnere in Africa: «Ciò che il bruco chiama morte, la farfalla chiama vita».
Nel finale dell’introduzione lei recita così: “Se invece fossimo riusciti solo a turbarvi, credete: s’è fatto proprio apposta”. Secondo lei c’è poca attenzione della gente verso chi soffre? Ci si ricorda solo quando la sofferenza ci colpisce direttamente?
Mi riferivo al fatto che questo libro voleva avere, almeno nelle mie intenzioni, un forte significato apologetico e quindi riporta verità scomode, scandalose, negate o taciute, politicamente scorrettissime. Che turbano, appunto. Si stanno combinando immondi pastrocchi lungo la frontiera tra la vita e la morte. Da una parte abbiamo sovvertito la definizione stessa di morte riportata dai dizionari, accreditando il discutibile concetto di “morte cerebrale” decretata per legge, quando invece è di solare evidenza che per il buon senso comune la morte si identifica con l’interruzione contemporanea e definitiva delle due funzioni vitali, cardiocircolatoria e respiratoria. Dall’altra pretendiamo di fabbricare la vita in vitro. Non vogliamo il mais e i pomodori Ogm sugli scaffali dei supermercati, però accettiamo figli geneticamente modificati.
Foto: www.marsilio.it
:: Stefano Lorenzetto è editorialista del «Giornale», dov’è stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri, e collaboratore di «Panorama». Scrive anche per altre testate. Ha pubblicato Fatti in casa, Dimenticati (premio Estense), Italiani per bene, Tipi italiani e Dizionario del buon senso. Come autore televisivo ha realizzato Internet café per Rai Educational. Ha vinto il premio Saint-Vincent di giornalismo. Il suo sito internet è www.stefanolorenzetto.it
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